Il fact-checking di Schlein all’Assemblea nazionale del PD

Abbiamo controllato 15 dichiarazioni della segretaria del Partito Democratico, per capire quali sono supportate da fatti e numeri, e quali no
ANSA/FABIO CIMAGLIA
ANSA/FABIO CIMAGLIA
Il 14 dicembre la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein ha tenuto un intervento all’Assemblea nazionale del partito, l’organismo di indirizzo politico che riunisce i delegati eletti e definisce le principali linee programmatiche e organizzative del PD. Nella sua relazione – approvata dall’Assemblea con 225 voti favorevoli, 36 astenuti e nessun contrario – Schlein ha parlato di molti temi, dall’economia alle spese militari, passando per la sanità, i salari e la riforma della giustizia.
Numeri e fatti alla mano, abbiamo controllato 15 dichiarazioni della segretaria del Partito Democratico. 

L’andamento dell’economia

«L’economia è ferma. La manovra prevede crescita zero. Dai dati della Commissione europea li avrete visti, siamo penultimi in Europa come crescita prevista nel 2026» 

Questa dichiarazione è sostanzialmente corretta. 

Secondo l’ISTAT, nel terzo trimestre di quest’anno il Prodotto interno lordo (PIL) dell’Italia è cresciuto dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. Nel 2025 il PIL è atteso crescere dello 0,5 per cento rispetto al 2024, e nel 2026 dello 0,8 per cento rispetto al 2025. 

Quando Schlein dice che la nuova legge di Bilancio «prevede crescita zero», fa riferimento a una previsione contenuta nel Documento programmatico di bilancio, approvato a ottobre dal governo. Nello scenario a legislazione vigente – ossia quello che fotografa l’andamento dell’economia senza nuove misure e con le sole norme già in vigore – si prevede una crescita del PIL dello 0,7 per cento sia nel 2026 sia nel 2027. Nello scenario programmatico, che considera invece le misure contenute nella legge di Bilancio per il prossimo anno, la crescita del PIL sarà sempre dello 0,7 per cento nel 2026, ma dello 0,8 per cento nel 2027, ossia leggermente più alta rispetto a quanto previsto nello scenario a legislazione vigente.

Secondo la Commissione Ue, nel 2026 l’Italia crescerà dello 0,8 per cento rispetto al 2025, seconda percentuale di crescita più bassa di tutta l’Ue, sopra solo all’Irlanda (che però nel 2025 crescerà più del 10 per cento).

Il calo della produzione industriale

«Veniamo da 34 mesi quasi consecutivi di calo della produzione industriale su 37 mesi di governo Meloni»

Qui la valutazione cambia a seconda di quale variazione della produzione industriale si consideri. Da un lato c’è la variazione congiunturale: misura quanto è cambiata la produzione in un mese rispetto al mese precedente. Dall’altro lato c’è la variazione tendenziale: misura quanto è cambiata la produzione in un mese rispetto allo stesso mese dell’anno prima.

In altre parole, la variazione congiunturale fornisce una panoramica immediata degli andamenti a breve termine, utile per individuare eventuali fluttuazioni cicliche o temporanee, mentre la variazione tendenziale consente di osservare il trend di lungo periodo, evidenziando se la produzione sta crescendo o diminuendo rispetto a un anno fa.

Come mostra il grafico, basato su dati dell’ISTAT, tra ottobre 2022 – mese in cui si è insediato il governo Meloni – e ottobre 2025, la variazione tendenziale dell’indice della produzione industriale è stata positiva solo in tre mesi su 37, di cui 20 di fila (tra febbraio 2023 e giugno 2025). La variazione congiunturale, invece, è stata negativa in 18 mesi.
Va comunque detto che il calo della produzione industriale è iniziato durante il precedente governo di Mario Draghi ed è un fenomeno che sta interessando molti Paesi europei. 

L’aumento delle spese militari

«Salgono le spese militari, quelle sì, per aver accettato la richiesta di Trump di portarle fino al 5 per cento del PIL, che significa 445 miliardi in più nei prossimi dieci anni. Doveva fare come Sanchez e dire di no»

La dichiarazione è in parte corretta, ma nel complesso rischia di essere fuorviante. 

È vero che al vertice NATO dello scorso giugno gli alleati hanno fissato l’obiettivo di arrivare entro il 2035 a destinare alla difesa e alle spese connesse alla difesa e sicurezza il 5 per cento del PIL, ma questo impegno è diviso in due componenti: almeno il 3,5 per cento per la “difesa principale” e il restante 1,5 per cento per voci più ampie di sicurezza (infrastrutture critiche, resilienza civile, cybersicurezza, innovazione).

Per la sola componente di spesa strettamente militare (3,5 per cento), a partire dagli attuali livelli italiani, la spesa aggiuntiva accumulata in dieci anni è stimata, secondo i nostri calcoli, in un intervallo compreso tra 165 e 220 miliardi di euro (a valori odierni), mentre per la quota dell’1,5 per cento non è possibile indicare una cifra precisa perché non sappiamo quanta parte sia già oggi conteggiabile.

Anche il riferimento al capo del governo spagnolo Pedro Sánchez è solo parzialmente corretto. Spagna e Italia hanno sottoscritto lo stesso obiettivo, e la “flessibilità” rivendicata da Sánchez riguarda il percorso e l’idea di poter raggiungere gli obiettivi della NATO con una percentuale più bassa, che però l’alleanza militare non considera una deroga e che sarà comunque verificata, con una revisione nel 2029.

Sono aumentate le tasse?

«Salgono le tasse? Sì, salgono le tasse perché nonostante la loro propaganda i dati del governo indicano che la pressione fiscale non è mai stata così alta negli ultimi dieci anni»

È vero che, secondo le previsioni dello stesso governo, nel 2025 la pressione fiscale raggiungerà un valore pari al 42,8 per cento del PIL, una percentuale che non si vedeva dal 2015. Ma come abbiamo spiegato in un altro fact-checking, un aumento della pressione fiscale non equivale automaticamente a un aumento delle tasse.

Il rincaro degli affitti

«Salgono gli affitti nell’ultimo anno del 10 per cento. Ma se sei uno studente o una studentessa che cerca una stanza singola per andare all’università, sono aumentati del 45 per cento»

Secondo Eurostat, a ottobre 2025 in Italia l’indice degli affitti pagati per l’abitazione, che misura l’andamento medio dei canoni versati dagli inquilini, valeva 113,7, mentre a ottobre 2024 era pari a 109,3. Questo corrisponde a un aumento di circa il 4 per cento su base annua, non del 10 per cento, come sostiene Schlein.

La percentuale del 45 per cento, poi, non si riferisce all’ultimo anno, ma a un periodo più lungo. Questo dato proviene infatti da un’analisi sul mercato delle stanze singole per studenti – non realizzata da un istituto di statistica – basate sui prezzi richiesti negli annunci, secondo cui tra il 2021 e il 2025 il costo medio di una stanza singola nelle principali città universitarie italiane è aumentato complessivamente di circa il 45 per cento.

Il costo delle bollette

«Abbiamo le bollette più care d’Europa e il governo in tre anni su questo non ha fatto nulla»

Come abbiamo spiegato in un altro fact-checking, l’Italia è tra i Paesi europei con le bollette dell’elettricità e del gas più alte per le famiglie, sia in valori assoluti sia tenendo conto del potere d’acquisto. Per le imprese, invece, la posizione dell’Italia è meno sfavorevole, con prezzi comunque elevati per l’elettricità ma più contenuti per il gas. 

Secondo i nostri calcoli, poi, tra il 2022 e il 2024 il governo Meloni ha stanziato circa 35 miliardi di euro contro i rincari dell’energia.

L’inflazione e i beni alimentari

Quanti rinunciano alle cure

«Sei milioni di italiani non riescono più a curarsi per le liste d’attesa troppo lunghe»

Questo numero è sostanzialmente corretto. 

Secondo l’ISTAT, nel 2024 il 9,9 per cento della popolazione residente in Italia ha detto di aver rinunciato ad almeno una visita o esame specialistico nei 12 mesi precedenti, escluse le visite odontoiatriche. In valori assoluti stiamo parlando di circa 5,8 milioni di persone che lo scorso anno ha rinunciato a curarsi, o meglio a sottoporsi a una visita specialistica.

Il nuovo taglio dell’IRPEF

«La manovra aiuta i più ricchi, li aiuta di più. Quando lo dico io si offendono, peccato che lo abbia detto anche l’ISTAT. L’ISTAT ci dice che l’85 per cento delle risorse della riduzione dell’aliquota IRPEF vanno alle famiglie più ricche di quella fascia. Mi spiego. Danno 30 euro in più. Bene, a chi ne guadagna 30 mila all’anno, ma danno 440 euro in più all’anno a chi ne guadagna 199 mila»

È vero che le stime dell’ISTAT mostrano che oltre l’85 per cento delle risorse del taglio della seconda aliquota IRPEF va ai due quinti di famiglie con i redditi più alti e che il risparmio cresce all’aumentare del reddito, fino a un massimo teorico di 440 euro l’anno. Ne abbiamo parlato più nel dettaglio in un altro articolo.

Ma questo non significa che la misura favorisca solo i “ricchi” in senso stretto, perché riguarda soprattutto i redditi medio e medio-alti compresi tra 28 mila e 50 mila euro, mentre i redditi molto elevati sono in parte esclusi dal beneficio e, in proporzione al reddito complessivo, il vantaggio resta limitato per tutti i gruppi.

Inoltre, come hanno rilevato vari organismi indipendenti, se si considerano nel loro insieme le leggi di Bilancio approvate dal governo Meloni, gli interventi fiscali degli ultimi anni, in particolare il taglio del cuneo fiscale, hanno destinato più risorse alle fasce di reddito basse e medio-basse, compensando in parte gli effetti del fiscal drag.

L’aumento delle pensioni minime

«Dovevano aumentare le minime a mille euro e invece le hanno aumentate di un paio di caffè»

Già nelle scorse settimane la segretaria del Partito Democratico aveva criticato il governo, accusandolo di aver stabilito aumenti irrisori per le pensioni minime. In realtà i numeri mostrano un quadro diverso. 

Da quando è in carica il governo Meloni, le pensioni minime sono aumentate di oltre 90 euro al mese. L’aumento mensile di 1,50 euro è relativo al 2025. Secondo alcune stime, la crescita per il 2026 sarà di 3 euro.

Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, l’incremento previsto entro il prossimo anno consente di «proteggere pienamente il potere d’acquisto delle pensioni minime». In altre parole, gli aumenti previsti sono sufficienti a compensare l’inflazione attesa, evitando che le pensioni minime perdano valore reale e garantendo che il loro potere d’acquisto resti invariato nel tempo, anche se questo non implica un miglioramento sostanziale delle condizioni economiche dei pensionati con la minima.

L’abolizione delle accise

«E poi ve lo ricordate il video al benzinaio? Cito: “Non solo noi chiediamo che non aumentino le accise sulla benzina, noi pretendiamo che le accise vengano abolite”. La campionessa di incoerenza invece le ha aumentate, le accise» 

È vero che a maggio 2019, durante la campagna elettorale per le elezioni europee, Meloni aveva pubblicato un video in cui diceva che il suo partito pretendeva l’abolizione delle accise su benzina e gasolio. 

Con la nuova legge di Bilancio, l’accisa sul gasolio aumenterà di 4 centesimi, ma quella sulla benzina diminuirà dello stesso importo, in modo da ottenere un allineamento. Il governo ha difeso questa decisione dicendo che serve per rispettare gli impegni presi con l’Unione europea, dato che il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) prevede la riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi. In questa categoria rientra il diverso trattamento fiscale del gasolio, che beneficia di un’accisa più bassa di quella sulla benzina.

In ogni caso, il programma elettorale della coalizione di centrodestra, presentato in vista delle elezioni politiche del 2022, non prevede l’abolizione delle accise.

La crescita del PD

«Il Partito Democratico è cresciuto in questi tre anni come nessun altro partito europeo è cresciuto»

Non è vero: come già fatto in passato, Schlein esagera. 

Schlein è stata eletta segretaria del Partito Democratico il 26 febbraio 2023. I sondaggi condotti in quel mese assegnavano in media al partito il 16,7 per cento dei consensi. Ora è dato al 21,9 per cento, guadagnando oltre cinque punti.

Nello stesso periodo ci sono diversi partiti europei che sono cresciuti di più. Qualche esempio: il partito di destra Chega in Portogallo, il Rassemblement National di Marine Le Pen in Francia e Tisza in Ungheria.

I risultati delle elezioni regionali

«Lo dico agli appassionati delle mappe sui social di Fratelli d’Italia, no? Suggerirei di mettere a confronto quella del 2022, quando è stata eletta Giorgia Meloni, e quella del 2025, perché ci sono due regioni in rosso in più e non in meno»

Questa dichiarazione di Schlein è imprecisa. 

Quando Meloni è stata eletta presidente del Consiglio, a ottobre 2022, la coalizione di centrodestra governava 13 regioni e la coalizione di centrosinistra cinque (non consideriamo i casi particolari della Valle d’Aosta e del Trentino-Alto Adige). Attualmente, 12 regioni sono amministrate dal centrodestra e sei dal centrosinistra. 

È vero che la Sardegna e l’Umbria hanno cambiato “colore”, e sono passate dal centrodestra al centrosinistra. Ma il Lazio ha fatto il passaggio inverso.

Il PD vs Fratelli d’Italia

«In queste 13 regioni il Partito Democratico ha preso 3.202.261 voti. Fratelli d’Italia 2.570.522 voti. Siamo primo partito nei voti reali, non nei sondaggi, nei voti veri»

I numeri citati da Schlein sono giusti, ma il ragionamento che ne ricava è fuorviante, perché mette insieme dati non confrontabili. 

Il confronto tra la somma dei voti ottenuti dal Partito Democratico e da Fratelli d’Italia in alcune elezioni regionali e il consenso nazionale stimato dai sondaggi non è metodologicamente valido: le regionali si svolgono in contesti territoriali specifici, con dinamiche politiche locali, affluenza più bassa e la presenza di liste civiche che alle politiche non esistono.

Nel complesso, questi dati non dimostrano che i sondaggi nazionali sovrastimino il consenso di Fratelli d’Italia né che i “voti reali” raccontino una storia diversa.

La riforma costituzionale della giustizia

«Non è nemmeno una separazione delle carriere. Quella era già in vigore con la riforma “Cartabia”: ci sono stati circa 20 passaggi all’anno su 9.000 giudici. Non ci vengano a dire che questo richiedeva una riforma della Costituzione. La cambiano per altre ragioni»

Nel 2022 la riforma “Cartabia” – che prende il nome dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia – ha introdotto un limite più stringente per i giudici che vogliono cambiare funzione, passando da quella giudicante a quella requirente, e viceversa. Attualmente, un pubblico ministero o un giudice possono decidere di cambiare funzione, passando dal ruolo di giudice a quello di pubblico ministero, o viceversa, al massimo una volta in carriera, ed entro i primi dieci anni della loro attività. 

Secondo i dati più recenti, dopo l’introduzione di questa norma meno dell’1 per cento dei magistrati ha cambiato funzione

I contrari alla riforma costituzionale che introduce la separazione della carriere dei magistrati in Costituzione sostengono che, alla luce dei vincoli già introdotti con la riforma “Cartabia” e dell’uso ormai marginale dei passaggi di funzione, la separazione tra giudici e pubblici ministeri sia di fatto già realizzata nell’ordinamento: per questo ritengono inutile e soprattutto simbolica la scelta di inserirla in Costituzione, perché non risolverebbe problemi concreti aggiuntivi rispetto alle regole già in vigore.

I favorevoli della riforma, però, rispondono che proprio il fatto che la separazione delle funzioni sia già sostanzialmente in atto rende priva di effetti negativi la sua introduzione in Costituzione. In più, replicano che la riforma ha una portata diversa e più ampia: non riguarda solo i passaggi di funzione, ma punta a separare strutturalmente le carriere di giudici e pubblici ministeri, prevedendo due distinti Consigli superiori della magistratura e rafforzando, secondo questa impostazione, le garanzie di terzietà del giudice e di equilibrio tra accusa e difesa nel processo.

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