Inoltre, l’indicatore considerato – quello delle retribuzioni contrattuali orarie – dipende soprattutto dalla contrattazione collettiva tra sindacati e associazioni dei datori di lavoro, non dalle decisioni del governo. Come detto, l’indice misura i salari tabellari previsti dai contratti nazionali, cioè le cifre fissate nei CCNL, e non tiene conto di interventi approvati dal governo come il taglio del cuneo fiscale, le detrazioni o i bonus che incidono sullo stipendio netto in busta paga e a contenere la perdita del potere d’acquisto.
Infine, anche sul fronte dei prezzi il margine di azione di un governo nazionale è limitato: l’inflazione dipende in larga parte da fattori internazionali, come l’andamento dei costi dell’energia, delle materie prime e delle catene di approvvigionamento. Un governo può però attenuarne gli effetti, per esempio con politiche di sostegno ai redditi.
Per tutte queste ragioni, attribuire interamente al governo Meloni la perdita di potere d’acquisto registrata tra il 2021 e il 2025 è scorretto: i dati dell’ISTAT descrivono un fenomeno economico complesso, iniziato prima dell’attuale esecutivo e influenzato da dinamiche che vanno oltre le politiche nazionali.