Il discorso di Meloni ad Atreju alla prova dei fatti

Abbiamo verificato 16 dichiarazioni della presidente del Consiglio, tra dati corretti, esagerazioni ed errori
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
Domenica 14 dicembre la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha tenuto il discorso conclusivo della manifestazione di Atreju, organizzata a Roma da Gioventù Nazionale, l’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia. 

Nel suo intervento Meloni ha parlato di molti temi, dall’economia agli scenari internazionali, passando per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), l’immigrazione e il mercato del lavoro.
Per capire se ha sempre detto la verità, abbiamo analizzato 16 dichiarazioni. 

La vendita dei titoli di Stato

«Gli italiani che oggi, come mai in passato, scelgono di investire i loro risparmi in titoli di Stato italiani perché finalmente si fidano»

Questa è una dichiarazione che Meloni ha già fatto altre volte da quando è diventata presidente del Consiglio e rientra nella narrazione, portata avanti anche da altri esponenti del governo, secondo cui il debito pubblico italiano starebbe tornando “nelle mani” degli italiani. In realtà i numeri mostrano un quadro più sfumato.

Secondo i dati della Banca d’Italia, durante il governo Meloni – che si è insediato verso la fine del 2022 – è aumentata la percentuale del debito pubblico sul totale posseduta dalle famiglie italiane, passando dal 5 per cento al 13 per cento circa. Come mostra il Grafico 1, nell’ultimo anno questa percentuale (linea viola) è rimasta sostanzialmente stabile e la crescita si è fermata. Vanno però fatte alcune osservazioni.
Grafico 1. Ripartizione dei titoli pubblici italiani per categoria di detentore (dati trimestrali; valori percentuali) – Fonte: Banca d’Italia
Grafico 1. Ripartizione dei titoli pubblici italiani per categoria di detentore (dati trimestrali; valori percentuali) – Fonte: Banca d’Italia
La prima: l’aumento era partito all’inizio del 2022, quando c’era ancora il governo Draghi. La seconda: alla fine del 2008 la quota di debito pubblico detenuta dalle famiglie italiane era più alta rispetto a quella attuale, intorno al 20 per cento. La terza osservazione: durante il governo Meloni è cresciuta soprattutto la percentuale di debito pubblico posseduta dagli investitori stranieri (linea nera), passata dal 19 per cento circa al 26 per cento, una dinamica che resta in crescita.

La stessa Banca d’Italia ha sottolineato in diversi rapporti che nei tre anni tra il 2022 e il 2024 l’acquisto dei titoli di Stato da parte delle famiglie italiane è stato spinto soprattutto da due fattori. Il primo è stato il «significativo rialzo dei rendimenti» dei titoli di Stato, ossia il guadagno che un investitore ottiene da un titolo in rapporto al capitale investito (Grafico 2).
Grafico 2. Rendimento dei BTP italiani a dieci anni – Fonte: Il Sole 24 Ore
Grafico 2. Rendimento dei BTP italiani a dieci anni – Fonte: Il Sole 24 Ore
Il secondo fattore sono state le emissioni di titoli di Stato dedicate alle famiglie – tra cui i BTP Futura, i BTP Italia e i BTP Valore – «caratterizzate da incentivi volti a favorirne la detenzione fino a scadenza». In altre parole, le famiglie che acquistano questi titoli durante il collocamento e li mantengono fino alla scadenza ricevono un premio aggiuntivo, oltre agli interessi periodici.

In questo contesto, quindi, ricondurre l’aumento degli acquisti di titoli di Stato soprattutto a una maggiore «fiducia» degli italiani rischia di semplificare un fenomeno che i dati ufficiali spiegano in larga parte con fattori economici e di convenienza finanziaria, come rendimenti più elevati e strumenti pensati appositamente per il risparmio retail.

Il giudizio delle agenzie di rating

«Le agenzie di rating rivedono a rialzo il giudizio per l’Italia portandola dove merita, cioè in Serie A» 

È vero che negli scorsi mesi le principali agenzie di rating hanno migliorato il rating dell’Italia, cioè la sua capacità di poter ripagare il proprio debito pubblico. Ma parlare di un ritorno in «Serie A», come fa Meloni, è esagerato. 

Ad aprile, per esempio, Standard & Poor’s ha alzato il rating dell’Italia da BBB a BBB+. Lo stesso rialzo è stato deciso a settembre da Fitch, mentre a novembre Moody’s l’ha portato da Baa3 a Baa2. 

Tutti questi giudizi – per quanto siano una buona notizia per l’Italia – collocano ancora il nostro Paese diversi gradini sotto i livelli più alti delle scale di rating, ben lontani dalle valutazioni migliori come AA o AAA che caratterizzano i Paesi considerati più solidi dal punto di vista finanziario.

Il calo dello spread

«Lo spread oggi è un terzo rispetto a quando ci siamo insediati. I tassi dei nostri titoli di Stato che scendono vogliono dire miliardi di euro di interessi risparmiati» 

Lo spread misura lo scarto tra il rendimento dei BTP decennali, cioè i titoli di Stato italiani, e quello dei titoli equivalenti tedeschi, i Bund. In termini semplici, il rendimento di un titolo di Stato è il ritorno economico per chi lo acquista e lo mantiene fino alla scadenza. In genere, uno spread in aumento viene letto come un segnale di minore fiducia degli investitori verso il debito italiano, mentre una sua riduzione è interpretata come un rafforzamento di quella fiducia.

Il governo Meloni è entrato in carica il 22 ottobre 2022, quando lo spread era pari a 233 punti base, vale a dire una differenza del 2,33 per cento tra i rendimenti dei titoli italiani e quelli tedeschi. Lo scorso 12 dicembre lo spread valeva intorno ai 70 punti base, circa un terzo rispetto a oltre tre anni fa (Grafico 3).
Grafico 3. Andamento dello spread dal 12 dicembre 2020 al 12 dicembre 2025 – Fonte: Il Sole 24 Ore
Grafico 3. Andamento dello spread dal 12 dicembre 2020 al 12 dicembre 2025 – Fonte: Il Sole 24 Ore
È corretto dire come fa Meloni che, a parità di condizioni, uno spread più basso consente allo Stato di emettere nuovo debito a tassi inferiori e può quindi contribuire, nel tempo, a contenere la spesa per interessi.

Va però precisato che, negli ultimi tre anni, la riduzione dello spread è stata dovuta in larga parte all’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato tedeschi, più che a una forte diminuzione di quelli italiani, che comunque si è verificata, come è accaduto anche in altri Paesi europei nello stesso periodo.

Il costo dell’instabilità politica

«I governi che cambiavano in continuazione, secondo stime del Sole 24 Ore, ci sono costati in dieci anni 265 miliardi di euro»

La stima citata da Meloni, già usata in passato per difendere la riforma del “premierato”, è stata pubblicata dal Sole 24 Ore alla fine di luglio 2022, poco dopo la caduta del governo Draghi, in un articolo intitolato “L’instabilità politica è costata all’Italia 265 miliardi in dieci anni”. L’autore è Marco Fortis, economista che in passato è stato consigliere di Matteo Renzi durante il suo mandato da presidente del Consiglio.

In breve, Fortis ha stimato quale sarebbe stata la spesa per interessi sul debito pubblico italiano se, nel decennio precedente, l’Italia avesse beneficiato della stessa credibilità sui mercati della Francia. Sulla base di questo confronto, l’autore è arrivato a una cifra di 265 miliardi di euro di risparmi mancati.

L’aspetto più critico di questa tesi è che tende a ricondurre quasi interamente il maggior costo del debito italiano alle scelte e all’instabilità della classe politica, come se i tassi d’interesse dipendessero in modo quasi esclusivo dalla credibilità dei governi. Restano invece in secondo piano altri elementi rilevanti, come l’ammontare complessivo del debito, la sua composizione e l’andamento dell’economia.

Il nuovo taglio dell’IRPEF

«Dicono che noi favoriamo i ricchi perché abbiamo tagliato di due punti l’IRPEF ai redditi fino a 50 mila euro l’anno, dopo che già avevamo accorpato le prime due aliquote dell’IRPEF, abbassando le tasse a chi percepisce fino a 28 mila euro l’anno, perché per loro chi guadagna 2.500 euro lordi al mese e magari ci mantiene tre figlie e magari ci paga il mutuo, è ricco» 

La dichiarazione di Meloni è parzialmente corretta: ne abbiamo scritto più nel dettaglio in un altro fact-checking.

In estrema sintesi, è vero che il taglio dell’IRPEF riguarda i redditi fino a 50 mila euro, ma secondo le stime di ISTAT e dell’Ufficio parlamentare di bilancio la misura avvantaggia soprattutto i contribuenti con redditi medio-alti, perché oltre l’85 per cento delle risorse del taglio finisce ai due quinti più ricchi della popolazione e il beneficio cresce all’aumentare del reddito, pur restando contenuto in rapporto al reddito complessivo.

L’attuazione del PNRR

«Con l’approvazione dell’ottava rata che è arrivata qualche giorno fa, la nostra nazione che era fanalino di coda nella spesa dei fondi europei si conferma oggi capofila» 

È vero che il 1° dicembre la Commissione europea ha annunciato la sua valutazione positiva all’erogazione all’Italia dell’ottava rata dei fondi del PNRR. Ed è vero che, storicamente, l’Italia ha sempre avuto problemi a spendere i soldi dei fondi europei. Ma questi due elementi, da soli, non dimostrano quanto sostiene Meloni, ossia che l’Italia sia diventata «capofila» nella spesa.

L’erogazione delle rate, infatti, dipende dal raggiungimento periodico di un determinato numero di traguardi e obiettivi. Da questo punto di vista, l’Italia è tra i Paesi più virtuosi, ma non il primo in classifica. Secondo i dati della Commissione Ue, a oggi l’Italia ha raggiunto il 58 per cento dei traguardi e obiettivi fissati dal PNRR. Cinque Paesi hanno percentuali più alte: Francia (82 per cento), Austria (74 per cento), Lussemburgo (68 per cento), Irlanda (62 per cento) e Danimarca (60 per cento).

Come detto, però, queste percentuali non fanno riferimento alla spesa dei fondi, su cui non sono disponibili dati per fare confronti tra i vari Paesi. In questi anni diversi organismi indipendenti, dall’Ufficio parlamentare di bilancio alla Corte dei conti, hanno sottolineato che, nonostante l’erogazione delle rate nei tempi previsti e una recente accelerazione, l’Italia resta in ritardo nella spesa dei soldi del PNRR rispetto alla tabella di marcia.

Il titolo del Financial Times

«Sono passati tre anni e il mood è un tantino cambiato. Financial Times: “Europe should learn from Italy”. “L’Europa dovrebbe imparare dall’Italia”»

Il Financial Times ha effettivamente pubblicato lo scorso 6 novembre un articolo intitolato “Europe should learn from Italy”, ma si tratta di un articolo di opinione, firmato dall’economista italiano Stefano Caselli, e quindi non rappresenta la linea editoriale ufficiale del quotidiano. 

La citazione di Meloni è dunque corretta sul titolo e sul contenuto generale, ma è fuorviante se usata per sostenere che il Financial Times nel suo complesso stia “celebrando” il governo, anche perché nella stessa sezione il giornale ha ospitato in passato commenti critici verso il governo.

Gli aiuti a Gaza

«Siamo diventati la prima nazione non islamica al mondo per quantità di aiuti inviati nella Striscia di Gaza»

Già negli scorsi mesi Meloni ha dichiarato che nessun Paese occidentale ha fatto per la popolazione di Gaza quanto l’Italia. Come abbiamo spiegato in un altro fact-checking, però, in base alle informazioni pubblicamente disponibili questa dichiarazione è esagerata.

La lista Ue dei Paesi “sicuri”

«Cosa diranno adesso i giudici italiani, visto che l’Europa sta approvando quella lista [di Paesi sicuri] nella quale figurano esattamente le nazioni di provenienza di quei migranti che sentenze ideologiche ci hanno impedito di trasferire in Albania» 

Come abbiamo spiegato in un altro fact-checking, le norme europee citate da Meloni non sono ancora in vigore e, anche quando lo saranno, non elimineranno né il controllo dei giudici né i problemi giuridici legati all’uso dei centri in Albania, che restano fuori dal territorio dell’Unione europea.

L’andamento degli sbarchi e dei rimpatri

«Grazie alle ricette che abbiamo applicato, abbiamo sensibilmente diminuito il numero degli arrivi irregolari in Italia e abbiamo sensibilmente aumentato i rimpatri»

Durante il primo anno del governo Meloni, il numero degli sbarchi di migranti ha continuato a crescere, raggiungendo un picco nell’ottobre 2023. Come mostra il grafico, successivamente c’è stato un calo, ma da settembre 2024 gli arrivi si sono stabilizzati, tornando su livelli simili a quelli precedenti all’insediamento dell’attuale governo.
I dati più recenti del Ministero dell’Interno confermano questa tendenza: tra il 1° gennaio e il 12 dicembre 2025 sono sbarcati in Italia quasi 65 mila migranti, un numero in linea a quello registrato nello stesso periodo del 2024.

Per quanto riguarda i rimpatri di migranti, sono aumentati durante il governo Meloni rispetto agli anni precedenti, ma il loro numero resta inferiore al periodo pre-pandemia.

La cucina italiana patrimonio dell’umanità

«L’UNESCO ha designato un nuovo patrimonio immateriale dell’umanità che è la cucina italiana, la prima e unica cucina al mondo ad avere questo riconoscimento»  

La cucina italiana non è proprio la prima a entrare nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’UNESCO. Questo presunto primato, così come viene raccontato, si regge su una distinzione più sottile di quanto sembri, e basta guardare con attenzione ai testi dell’UNESCO per capire perché. Lo abbiamo spiegato in un recente fact-checking.

La crescita dell’occupazione

«Oggi l’Italia ha il numero di occupati più alto della sua storia e il tasso di disoccupazione più basso da decenni»

Secondo i dati provvisori di ISTAT, a ottobre in Italia c’erano oltre 24,2 milioni di occupati, il numero più alto da quando ci sono le serie mensili confrontabili. Il tasso di disoccupazione, invece, era pari al 6 per cento, il più basso dal 2007.
Stabilire quanto dell’aumento dell’occupazione possa essere ricondotto direttamente alle politiche del governo è complesso, soprattutto in mancanza di analisi specifiche condotte da economisti o studiosi indipendenti. Il fatto che il numero degli occupati sia cresciuto durante il governo Meloni, da solo, non consente di concludere che questa dinamica sia una conseguenza immediata delle decisioni del governo.

Va inoltre considerato che la crescita dell’occupazione era iniziata già prima dell’insediamento del governo e si inserisce in un andamento che da tempo interessa la maggior parte dei Paesi dell’Unione europea. In diversi Stati membri, peraltro, l’aumento degli occupati è stato persino più marcato che in Italia, che continua ad avere il tasso di occupazione più basso dell’Ue.

Infine, l’incremento degli occupati in Italia riguarda soprattutto le classi di età più avanzate, dove è maggiore la presenza di contratti a tempo indeterminato. Questo andamento è legato anche agli interventi che negli anni hanno innalzato l’età di accesso alla pensione.

L’andamento dei salari

«Hanno cominciato a dire che i salari sono troppo bassi ed è vero, solo che sono bassi da qualche decennio, soprattutto grazie alla sinistra e invece ora cominciano a risalire. E non lo dico io, guardate, lo dico con le parole della vicepresidente della Commissione europea, Roxana Mînzatu, che è una socialista e che ha dichiarato che i salari reali dell’Italia stanno mostrando una ripresa, attenzione, dopo anni di declino e i dati sono davvero incoraggianti» 

Quando si parla di salari, non bisogna fare confusione tra gli indicatori. Per esempio, è vero che nel 2024 le “retribuzioni lorde annue per dipendente” in termini reali (cioè corrette per l’inflazione) sono tornate a crescere in Italia dopo il calo del 2022 e del 2023, dovuto al forte aumento dell’inflazione. Un aumento di questo indicatore, però, c’era stato anche prima della pandemia di COVID-19, sotto altri governi. Nel 2024 sono aumentate anche le “retribuzioni contrattuali orarie” – cioè i minimi salariali stabiliti dai contratti collettivi nazionali, calcolati per ora di lavoro – che lo scorso settembre rimanevano comunque inferiori di circa il 9 per cento rispetto all’inizio del 2021. 
Quando cita Mînzatu, con tutta probabilità Meloni fa riferimento a un’intervista della vicepresidente della Commissione Ue pubblicata il 3 dicembre da la Repubblica, e intitolata nell’edizione cartacea: “Italia debole, c’è molto da fare sui salari”. In quell’occasione, Mînzatu ha detto che in Italia c’è una «ripresa dei salari», che però «rimane più debole rispetto alla media Ue». 

Il giorno dopo, durante una conferenza stampa, la vicepresidente della Commissione Ue ha dichiarato che il titolo di Repubblica non rifletteva bene ciò che aveva detto nell’intervista. «Nel 2024 abbiamo visto che in Italia i salari reali stanno mostrando una ripresa dopo anni di declino. I salari nominali, inoltre, dovrebbero aumentare di circa il 2,7 per cento nel 2024. Quindi i dati sono davvero incoraggianti», ha aggiunto Mînzatu.

L’aumento del 2,7 per cento fa riferimento alla retribuzione media annua per dipendente a tempo pieno, corretta per le differenze nell’orario di lavoro, in termini nominali (ossia senza tenere conto dell’inflazione). Tra il 2023 e il 2024 questo indicatore è salito da circa 21.600 euro a circa 23.400 euro. Tranne che a Cipro, questa crescita c’è stata in tutti i Paesi Ue.

Il taglio delle tasse sui rinnovi contrattuali

«Detassiamo i rinnovi contrattuali. Apro e chiudo parentesi: richiesta dei sindacati» 

Il disegno di legge di Bilancio per il 2026 prevede effettivamente una riduzione delle tasse sugli aumenti salariali legati ai rinnovi contrattuali, ma in una forma molto più limitata rispetto a quanto chiedevano i sindacati, in particolare la CGIL.

La misura consiste in una detassazione temporanea e parziale: nel settore privato riguarda solo gli aumenti previsti dai contratti rinnovati nel 2025 e nel 2026, solo per i lavoratori con redditi fino a 28 mila euro, mentre nel settore pubblico non si applica agli aumenti dei contratti nazionali ma soltanto ad alcune voci accessorie dello stipendio. 

Per questo l’intervento non coincide con la richiesta della CGIL di una detassazione generalizzata degli aumenti contrattuali per tutti i lavoratori, pubblici e privati.

La crescita dell’economia del Mezzogiorno

«Oggi sono orgogliosa di poter dire che il Sud è diventato la locomotiva d’Italia, è cresciuto più della media nazionale, ha raggiunto il record di occupati dal 2004 grazie a una strategia completamente diversa» 

In questa dichiarazione la presidente del Consiglio mescola dati corretti con affermazioni un po’ troppo celebrative.

Secondo ISTAT, nel 2023 – primo anno di governo Meloni – il PIL delle regioni del Mezzogiorno è cresciuto dell’1,5 per cento rispetto al 2022, una percentuale più alta della media nazionale, ferma al +0,7 per cento. Nel 2024 la crescita del PIL del Mezzogiorno ha rallentato rispetto all’anno prima. È stata infatti dello 0,9 per cento, la stessa percentuale registrata dalle regioni del Nord-Ovest e del Centro. La crescita nazionale è stata dello 0,7 per cento, a causa della bassa crescita delle regioni del Nord-Est (+0,2 per cento). L’aumento del numero degli occupati è stato del 2,2 per cento, a fronte di un +1,6 per cento nazionale.

È vero poi che, secondo ISTAT, quest’anno il tasso di occupazione nelle regioni del Mezzogiorno ha superato il 50 per cento, la percentuale più alta dal 2004, ossia da quando sono disponibili questi dati.

Questi risultati sono il frutto di una «strategia completamente diversa»? Sembra di no. Secondo l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), che fa ricerca sulle condizioni economiche delle regioni meridionali, la crescita recente del Sud è dovuta soprattutto all’effetto degli investimenti del PNRR e ai bonus edilizi, in particolare al Superbonus, cioè a misure avviate prima dell’insediamento del governo Meloni e non a politiche strutturali nuove introdotte dall’attuale esecutivo.

Infine va ricordato che, anche quando cresce un po’ più della media, il Mezzogiorno rappresenta una quota più ridotta dell’economia nazionale, per cui parlare di “locomotiva” o di vero traino dell’Italia può risultare fuorviante.

I soldi per la sanità

Ma come mostra il grafico, solo in pochi casi il finanziamento del SSN è diminuito in valori assoluti dal 2001 a oggi, e quasi tutti i governi hanno aumentato i fondi per la sanità.

In più, se si guarda al rapporto con il PIL e si tiene conto dell’inflazione, la crescita della spesa per la sanità appare più modesta: il suo peso sull’economia rimane stabile o in lieve calo, e in termini reali il potere d’acquisto delle risorse destinate al SSN cambia poco.

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