Tutte le bugie sul record degli occupati

Il governo e i partiti all’opposizione ripetono molte dichiarazioni non supportate dai fatti e dai numeri. Le abbiamo raccolte e analizzate una per una
Pagella Politica
Nel corso del 2024 l’ISTAT ha stimato che per la prima volta gli occupati in Italia sono più di 24 milioni. Negli scorsi mesi, molti politici al governo e all’opposizione hanno commentato questo numero e l’aumento dell’occupazione, con toni entusiasti da un lato, e critici dall’altro. Alcune di queste dichiarazioni sono state affidabili, supportate dai fatti e dai numeri; altre invece no: c’è chi ha parlato di un’«inversione di tendenza» positiva, chi di statistiche falsate dal metodo di conteggio, e chi ancora di un peggioramento del mercato del lavoro. 

Punto per punto, vediamo come stanno davvero le cose e perché, da destra a sinistra, molti politici non raccontano la verità.

L’inversione di tendenza

La tesi del “cambio di rotta” è stata sostenuta a più riprese da vari esponenti dei partiti di maggioranza, tra cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Secondo questi politici, grazie al nuovo governo c’è stata un’inversione di tendenza nel mercato del lavoro: se prima gli occupati calavano o rimanevano stabili, da oltre due anni è iniziata una dinamica di crescita. I numeri smentiscono questa tesi: l’aumento del numero degli occupati è iniziato prima che si insediasse il governo Meloni, con la ripresa successiva alla pandemia di COVID-19.
Discorso analogo vale per i disoccupati, che secondo i dati più aggiornati sono meno di 1,5 milioni. Anche in questo caso il calo è iniziato prima dell’insediamento del nuovo governo, a differenza di quanto sostenuto per esempio dalla ministra del Turismo Daniela Santanchè.

In generale, un aumento dell’occupazione non è necessariamente merito esclusivo delle politiche del governo di turno. Il numero degli occupati può crescere per effetti di lungo periodo derivanti da misure introdotte in precedenza o perché il governo si è insediato mentre era già in corso una tendenza positiva nel mercato del lavoro a livello internazionale (per esempio, un aumento dell’occupazione è in corso da tempo in vari Paesi dell’Unione europea). Viceversa, un calo degli occupati può dipendere da crisi economiche internazionali, e non per forza da politiche dannose messe in campo da un governo.
Un errore tipico dei politici è quello di elogiare un singolo intervento di politica economica e dargli il merito dell’aumento complessivo degli occupati registrato in un determinato periodo. Per esempio, da anni il leader di Italia Viva Matteo Renzi ripete che, durante il suo governo, il Jobs Act – un insieme di norme che hanno riformato il mercato del lavoro – ha creato un milione di posti di lavoro. In realtà, come mostra il grafico sopra, questo numero corrisponde a tutto il numero di occupati registrato da quando si è insediato il suo governo a quando si è dimesso.

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Il confronto con Garibaldi

Ultimamente, uno slogan che Meloni ama ripetere è il seguente: «Adesso abbiamo il numero di occupati più alto da quando Giuseppe Garibaldi ha unificato l’Italia». Bisogna fare attenzione, però, ai confronti con il passato.

Da un lato, è scontato che in valori assoluti oggi ci siano più occupati rispetto alla seconda metà dell’Ottocento: nel 1862 in Italia vivevano 26 milioni di persone, attualmente poco meno di 60 milioni. Dall’altro lato, le serie storiche di ISTAT con i dati mensili sugli occupati, confrontabili tra loro, arrivano fino a gennaio 2004. Andando indietro nei decenni, non ci sono mai stati 24 milioni di occupati, mentre sulla percentuale di lavoratori sul totale della popolazione i confronti si fanno più difficili.

Nel 2024 il tasso di occupazione in Italia, nella fascia tra i 15 e i 64 anni d’età, ha superato per la prima volta il 62 per cento. Non abbiamo a disposizione dati sul tasso di occupazione prima del Novecento, ma sappiamo comunque che negli anni Ottanta dell’Ottocento il tasso di attività era pari al 70,6 per cento. In concreto, questo significa che all’epoca oltre sette persone su dieci avevano un legame con il mondo del lavoro, ma qui dentro erano conteggiati anche i bambini dai dieci anni in su.

L’abolizione del reddito di cittadinanza

Secondo alcuni politici al governo, tra cui il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, l’aumento del numero degli occupati è merito dell’abolizione del reddito di cittadinanza. La misura di contrasto alla povertà e di politica attiva del lavoro è stata sostituita dal governo Meloni con altre due misure: il supporto per la formazione e il lavoro, entrato in vigore a settembre 2023 per gli ex percettori del reddito di cittadinanza considerati in grado di trovare un lavoro, e l’assegno di inclusione, diventato operativo nel 2024 per le famiglie più povere, con all’interno minori, anziani o disabili. 

È vero che per certi versi il reddito di cittadinanza non incentivava in maniera efficace la ricerca di lavoro, a causa dei criteri con cui era stato disegnato. Allo stesso tempo, la narrazione secondo cui il reddito di cittadinanza ha favorito un aumento del numero di chi ha rinunciato a lavorare non poggia su prove solide.
Poco solida è anche la tesi di chi sostiene che l’aumento dell’occupazione sia merito dell’abolizione del reddito di cittadinanza. Come abbiamo visto, il numero degli occupati è cresciuto nel periodo in cui era in vigore il reddito di cittadinanza. E nello stesso periodo è calato il numero dei NEET, ossia dei giovani che non hanno un lavoro e non sono iscritti a né a un corso di studi né a un corso di formazione professionale (la sigla “NEET” sta per neither in employment or in education or training).
È molto probabile che una parte degli ex percettori del reddito di cittadinanza abbia trovato un lavoro dopo aver perso il sussidio, sebbene una buona parte di loro resta difficilmente collocabile nel mercato del lavoro. Sui risultati raggiunti finora dal sussidio per la formazione e il lavoro, però, c’è ancora scarsa trasparenza. Servono dati più completi e aggiornati e studi per valutare la sua efficacia nel favorire le persone a trovare lavoro. Per il momento, sappiamo che i beneficiari del nuovo sussidio sono stati meno del previsto e che alcuni numeri sono poco incoraggianti. Secondo ISTAT lo scorso ottobre gli inattivi, ossia le persone che non hanno un lavoro e non lo cercano, erano oltre 12,5 milioni: circa 280 mila in più rispetto a settembre 2023, quando è entrato in vigore il sussidio per la formazione e il lavoro.

Il criterio dell’ora lavorata

Tra alcuni politici all’opposizione, e tra parecchi nostri lettori, circola da tempo la tesi secondo cui i dati ISTAT sull’occupazione dicono poco sul mercato del lavoro in Italia perché sarebbero falsati dal modo in cui sono raccolti. E, di conseguenza, il record del numero degli occupati non sarebbe attendibile.

In particolare, si critica il fatto che ISTAT considera occupate le persone tra i 15 e gli 89 anni che «hanno svolto almeno un’ora di lavoro a fini di retribuzione o di profitto, compresi i coadiuvanti familiari non retribuiti», nella settimana in cui sono raccolti i dati. Secondo i critici, questo criterio rende del tutto inutili le statistiche raccolte. 

Questo criterio però non è un’anomalia italiana: lo stesso metodo è usato da Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, e dagli anni Ottanta segue le linee guida fissate dall’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), un’agenzia che fa parte delle Nazioni Unite. Raccogliendo i dati sull’occupazione con questo metodo, si è il più possibile sicuri di coprire tutte le attività svolte dagli occupati, incluse quelle a tempo parziale, quelle temporanee, occasionali o sporadiche. Questo criterio è poi il più affidabile per misurare in maniera appropriata tutti i fattori (input) che contribuiscono alla produzione economica di un Paese. In ogni caso, la percentuale di occupati che dice di lavorare al massimo dieci ore alla settimana si aggira intorno al 2 per cento. Una parte molto piccola sul totale degli occupati.
Un’altra tesi sostenuta da alcuni per minare l’affidabilità delle rilevazioni di ISTAT è quella secondo cui i dati sugli occupati sono sottostimati, soprattutto nelle regioni del Sud Italia, perché ignorano le forme di lavoro irregolare. Non è così: come spiega ISTAT, tra i criteri con cui sono conteggiati gli occupati non rientra la «sottoscrizione di un contratto di lavoro». Per questo motivo, gli occupati stimati «comprendono anche forme di lavoro irregolare».

L’andamento dei precari

Secondo vari politici di primo piano all’opposizione, tra cui la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, dietro al record del numero degli occupati si nasconde la crescita dei contratti a tempo determinato, registrata durante l’insediamento del governo Meloni. I numeri smentiscono questa tesi.

Secondo ISTAT, a ottobre in Italia c’erano oltre 18,9 milioni di occupati dipendenti, circa 670 mila in più rispetto a ottobre 2022, quando si è insediato il governo Meloni. Tra i dipendenti, 16,2 milioni hanno un contratto a tempo indeterminato, mentre poco più di 2,7 milioni hanno un rapporto di lavoro per cui è espressamente indicata una scadenza. Dunque, sotto il governo Meloni gli occupati dipendenti a tempo indeterminato sono aumentati di quasi 940 mila unità, mentre quelli a termine sono scesi di 266 mila unità.
Così, è calato il peso degli occupati a tempo determinato sul totale degli occupati dipendenti. Questo però non significa, come sostenuto per esempio da Fratelli d’Italia, che il precariato nel nostro Paese abbia raggiunto i «minimi» storici. In alcuni periodi del passato, la percentuale di occupati a tempo determinato sul totale degli occupati dipendenti è stata più bassa.

L’aumento degli occupati a tempo indeterminato ha riguardato anche le fasce di lavoratori più giovani, sebbene in misura maggiore si sia registrato tra quelli più anziani. In questa seconda fascia della popolazione stanno avendo un impatto le politiche che hanno posticipato la pensione, ma gli aumenti degli occupati valgono pure se si considerano le variazioni demografiche nella popolazione.

Si lavora di meno?

Alcuni sindacalisti, tra cui il segretario della CGIL Maurizio Landini, e alcuni esponenti di partiti all’opposizione, tra cui il PD, hanno ripetuto che all’aumento degli occupati sta corrispondendo sia un calo delle ore lavorate sia un aumento del part-time involontario. Quest’ultimo riguarda gli occupati che dichiarano di svolgere un lavoro a tempo parziale perché non ne hanno trovato uno a tempo pieno. In entrambi i casi, la tesi di fondo è che se si lavora di meno, l’aumento dell’occupazione è trainato da lavori meno stabili. 

Partiamo dalle ore lavorate. Secondo i dati ISTAT più aggiornati, nel terzo trimestre del 2024 il valore di tutte le ore lavorate complessivamente in Italia era superiore sia a quello del trimestre precedente sia a quello del terzo trimestre del 2022, quando si è insediato il governo Meloni. Questi dati sono destagionalizzati: sono stati depurati dalle fluttuazioni attribuibili alla componente stagionale e al calendario per permettere un confronto più accurato nel tempo.

Altri numeri mostrano che non è vero che durante il governo Meloni c’è stato un calo complessivo delle ore lavorate. Posto a 100 il livello delle ore lavorate nel 2021, nel terzo trimestre di quest’anno le ore lavorate nelle imprese con dipendenti nell’industria e nei servizi erano più alte rispetto a quando si è insediato il governo.
Nel complesso, dopo il crollo causato dalla pandemia di COVID-19, a partire dal 2021 il numero di ore lavorate per dipendente nelle imprese dell’industria e dei servizi è tornato ad aumentare. Nel 2023 questo indicatore si è più o meno stabilizzato sui livelli precedenti al 2020. In ogni caso, una riduzione delle ore lavorate per dipendente, associato a una riduzione del numero degli occupati a termine potrebbe, può essere il segnale di un mercato del lavoro più stabile, con produttività più alta.
Veniamo alla tesi secondo cui il part-time involontario sia aumentato contemporaneamente con il record di occupati. I dati ISTAT più aggiornati fanno riferimento al 2023: in quell’anno, il 9,6 per cento di tutti gli occupati ha dichiarato di svolgere un lavoro a tempo parziale perché non ne aveva trovato uno a tempo pieno. Il 2023, ha sottolineato ISTAT, è stato «il quarto anno consecutivo» in cui si è registrato un «calo della quota di occupati in part-time involontario». Nel 2019 infatti la percentuale di part-time involontario era pari al 12,1 per cento, ed è poi costantemente scesa negli anni successivi.

La cassa integrazione

Di recente, il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte ha riconosciuto che il record degli occupati è un «dato oggettivo». Ma ha aggiunto che questo è il risultato di una modifica nei criteri di conteggio degli occupati. Secondo Conte, chi è in cassa integrazione viene ora incluso tra gli occupati, mentre prima non lo era. E dato che, a suo dire, la cassa integrazione è in crescita, questo cambiamento nei criteri di conteggio gonfierebbe il numero complessivo di occupati. Questa ricostruzione è sbagliata

Nel 2021, per adeguarsi a un nuovo regolamento europeo, ISTAT ha rivisto i criteri con cui sono conteggiati gli occupati e sulla base di questi criteri ha aggiornato le serie storiche fino a gennaio 2004, permettendo il confronto tra i mesi passati e quelli successivi al 2020. Dopo la modifica dei criteri di conteggio, la categoria degli occupati comprende i lavoratori «temporaneamente assenti per altri motivi», purché l’assenza non superi i tre mesi. È proprio a questa condizione che Conte fa riferimento quando sostiene che un lavoratore cassintegrato per un massimo di tre mesi è considerato tra gli occupati.

Prima del 2021, però, ISTAT considerava già occupati i dipendenti assenti da più di tre mesi da lavoro, purché percepissero almeno il 50 per cento della retribuzione. Pertanto, già con i vecchi criteri i cassintegrati erano inclusi tra gli occupati, tra l’altro in un modo, per così dire, più permissivo. Il grafico mostra come i vecchi criteri di conteggio portassero a un numero di occupati maggiore rispetto ai nuovi criteri. La differenza è particolarmente evidente nei primi mesi della pandemia di COVID-19, quando il ricorso alla cassa integrazione è aumentato considerevolmente: con il nuovo metodo, molti lavoratori in cassa integrazione non sono stati più considerati occupati dopo tre mesi.
È vero poi che, secondo i dati INPS, nei primi nove mesi del 2024 c’è stato un aumento, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, delle ore autorizzate di cassa integrazione per le aziende. L’aumento ha interessato principalmente il settore industriale, in cui da tempo si registra un calo della produzione, mentre nel settore dei servizi si è osservata una riduzione dell’utilizzo della cassa integrazione. Anche qui, in generale i numeri sono in linea con quelli del 2022.

La povertà tra i lavoratori

Un’altra idea molto diffusa, collegata ad alcune di quelle viste in precedenza, riguarda i lavoratori poveri: alcuni riconoscono che gli occupati sono aumentati, ma contemporaneamente dicono che sono aumentati quelli che vivono in povertà.

Per capire se questa tesi è supportata dai numeri, bisogna prima mettersi d’accordo su che cosa si intende per “povertà”. Secondo i dati più aggiornati di Eurostat, nel 2023 il 9,9 per cento degli occupati in Italia viveva nella condizione di “povertà lavorativa”, una percentuale in calo rispetto al 2021 e al 2022. Dunque, da questo punto di vista un miglioramento c’è stato. Senza entrare troppo nei dettagli, è considerato in povertà lavorativa chi, lavorando per la metà dell’anno, non raggiunge una determinata soglia di reddito.

Secondo ISTAT, invece, nel 2023 è aumentata la percentuale di occupati in povertà assoluta sul totale degli occupati: in quell’anno quella percentuale era pari all’8,1 per cento, in crescita rispetto al 7,7 per cento del 2022. Vive in povertà assoluta chi non raggiunge una soglia di spesa mensile in beni e servizi considerati da ISTAT necessari per avere uno standard di vita accettabile. Questa soglia cambia a seconda di quanto è numerosa una famiglia e di dove vive. 

La causa di questo aumento, ha sottolineato ISTAT, è da individuare nell’inflazione: sebbene nel 2023 l’aumento dei prezzi abbia rallentato, è stato comunque superiore all’aumento delle retribuzioni, che non hanno ancora recuperato il potere d’acquisto perso negli ultimi anni. In ogni caso, sulla base di questi dati, non è possibile dire se chi è finito a vivere in povertà assoluta sia un nuovo occupato oppure una persona occupata da anni, che a causa dell’inflazione è finita in povertà.
Infine, chi sostiene che il nuovo lavoro creato in questi ultimi due anni sia lavoro “povero” usa spesso un’altra prova, ossia che la crescita del Prodotto interno lordo (PIL) è più bassa rispetto alle crescita dell’occupazione. Questo è un fenomeno inusuale, che non ha una spiegazione certa e univoca. Tra le possibili spiegazioni, c’è quella secondo cui la crescita del PIL sarebbe sottostimata: sia nel 2023 sia nel 2024 ISTAT ha rivisto al rialzo le stime di crescita del 2021 e del 2022, mentre di conseguenza sono calate quelle del 2023. Non è da escludere che un’altra revisione al rialzo avvenga anche per il 2024.

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