Perché il Pil non cresce se c’è il record di occupati?

Nonostante i risultati nel mercato del lavoro, l’economia aumenta di pochi punti percentuali. Questo fenomeno è anomalo e può avere più di una spiegazione
ANSA
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Negli ultimi mesi la crescita del Prodotto interno lordo (Pil) italiano si è di fatto fermata. Secondo Istat, tra luglio e settembre 2023 l’economia del nostro Paese è cresciuta solo dello 0,1 per cento rispetto ai tre mesi precedenti, quando addirittura era calata dello 0,4 per cento rispetto ai primi tre mesi dell’anno. L’istituto nazionale di statistica stima una crescita del +0,7 per cento sia nel 2023 sia nel 2024, una percentuale ben più bassa del +3,7 per cento registrato nel 2022. Nonostante la bassa crescita dell’economia, nello stesso periodo il mercato del lavoro in Italia si è mostrato molto dinamico, con il numero di occupati che ha raggiunto i massimi storici (risultato di una crescita iniziata negli ultimi tre anni). Lo scorso novembre gli occupati erano 520 mila in più rispetto a un anno prima. 

La bassa crescita abbinata al costante aumento degli occupati, sebbene in leggera flessione, sta stupendo alcuni analisti: di solito non ci si aspetta un aumento dei lavoratori in un’economia che non cresce. Lo stesso Pil è la somma dei redditi da lavoro e da capitale prodotti all’interno di un’economia. L’aumento dei posti di lavoro, e di conseguenza del numero di stipendi in circolazione, porta infatti a una crescita del Pil anche solo per una semplice motivazione algebrica. 

Questo però non sta avvenendo nella misura in cui ci si aspetterebbe. Quali sono le ragioni di questo apparente controsenso? Al momento non c’è una spiegazione certa e univoca a questo fenomeno inusuale, ma si possono fare alcune ipotesi.

La qualità del lavoro creato

Una prima ipotesi che spieghi la crescita stagnante unita all’aumento degli occupati si basa sulla qualità dei nuovi posti di lavoro creati. Se un posto di lavoro è pagato poco, con poche ore, con forme di contratto flessibili (come quelle per gli stagionali e i precari), non dà un grande apporto al Pil rispetto a un posto di lavoro a tempo pieno e a tempo indeterminato. È possibile quindi che l’impatto positivo sul Pil di nuovi lavori di scarsa qualità sia troppo basso per compensare i fattori depressivi della crescita, come un calo dei profitti reali (ossia al netto dell’aumento dei prezzi) dovuto all’inflazione.

I dati sembrano però smentire questa ipotesi. Non solo il numero degli occupati è a livelli record, ma lo è anche il numero dei dipendenti a tempo indeterminato, che rappresentano di solito i posti con maggiore stabilità e maggiore qualità nella retribuzione.

Anche il dato sul numero di ore lavorate mostra segnali positivi. Secondo Istat, nel terzo trimestre del 2023 – quando il Pil è cresciuto solo dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente – le ore totali lavorate sono aumentate dello 0,4 per cento rispetto ai tre mesi precedenti, mentre le ore lavorate per dipendente sono cresciute dello 0,5 per cento. Rispetto allo stesso periodo dell’anno prima, gli occupati a tempo pieno sono aumentati del 3,1 per cento, contro il +1,6 degli occupati in part-time.

Il ritorno del fattore lavoro

Un’altra ipotesi è stata avanzata da Banca d’Italia nel bollettino economico trimestrale pubblicato a ottobre 2023. La bassa crescita economica, nonostante l’aumento degli occupati, potrebbe essere dovuta a una modifica del cosiddetto “mix produttivo” usato dalle imprese.

Nei modelli economici il mix produttivo è dato da due fattori (gli input): il capitale e il lavoro. Ciascuna azienda, a seconda del prodotto (l’output) che deve creare, usa una certa quantità di capitale e una certa quantità di lavoro. Ci sono settori con un’intensità di capitale più alta, come il settore metalmeccanico, e settori con un’intensità di lavoro più alta, come il settore alberghiero.

Un’ipotesi è che le imprese abbiano aumentato l’intensità di lavoro nel loro mix produttivo per far fronte ai maggiori costi dell’energia. Compiti che prima venivano svolti dalle macchine sarebbero stati così assegnati a lavoratori, aumentando l’occupazione. Il calo della produttività registrato tra il 2021 e oggi, con una particolare accelerazione a partire dalla seconda metà del 2022, sembra giustificare questi tesi. Di solito la produttività cresce grazie all’aumento dell’intensità di capitale, dato che le macchine tendono ad accelerare i processi produttivi. Un ritorno alla “manualità” potrebbe aver causato il calo osservato. In questo scenario l’effetto positivo del reddito da lavoro sarebbe compensato dalle perdite in termini di reddito generato dal capitale.

Errori di misurazione

Una terza ipotesi è quella della sottostima. Come ha scritto in vari post su X l’economista Riccardo Trezzi, l’aumento del Pil italiano potrebbe essere più alto di quello stimato. Se in passato la crescita economica ha quasi sempre avuto un forte legame con la crescita dell’occupazione, è difficile pensare che questo legame non esista più anche oggi.

Tra l’altro, non sarebbe la prima volta che il Pil italiano viene sottostimato. Lo scorso settembre Istat ha rivisto le sue stime sulla crescita del Pil nel 2021, con una revisione al rialzo di 1,3 punti percentuali, dal +7 al +8,3 per cento. Il contesto economico in cui ci troviamo è caratterizzato da alcuni fattori particolari, dall’alta inflazione agli ultimi effetti dell’atipica recessione causata dalla pandemia di Covid-19. Non è così strano quindi ipotizzare che la crescita del Pil sia in realtà più alta di quanto dicano le stime più recenti.

Qualunque siano i motivi, questa anomalia – bassa crescita economica, alta crescita degli occupati – sembra sia vicina a concludersi. Per esempio il numero dei disoccupati in Italia continua a scendere, ma meno rapidamente rispetto a qualche mese fa. Se è possibile che la crescita del mercato del lavoro sia stata più rapida di quella del Pil, è probabile che nei prossimi mesi questi valori si riallineeranno.

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