Perché la cassa integrazione non gonfia i dati sull’occupazione

Giuseppe Conte dice che il record di occupati è merito del nuovo criterio con cui sono conteggiati. Ma le cose non stanno così
ANSA
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Il 14 dicembre, ospite alla manifestazione di Atreju a Roma, il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte ha cercato di ridimensionare il record degli oltre 24 milioni di occupati in Italia. Secondo Conte, questo «dato oggettivo» è il risultato di una modifica nei criteri di conteggio degli occupati. «In quei dati oggi ci sono anche i cassintegrati: sino a tre mesi un cassintegrato è considerato tra gli occupati di quella platea. Sa cosa significa, direttore?», ha dichiarato Conte rivolgendosi al direttore di Libero Mario Sechi, che lo stava intervistando. «Noi abbiamo un aumento della cassa integrazione nei primi nove mesi: +23 per cento».

Dunque, secondo il presidente del Movimento 5 Stelle chi è in cassa integrazione viene ora incluso tra gli occupati, mentre prima non lo era. E dato che, a suo dire, la cassa integrazione è in crescita, questo cambiamento nei criteri di conteggio gonfierebbe il numero complessivo di occupati. Conte sbaglia perché i lavoratori cassintegrati erano già considerati occupati, con criteri più permissivi rispetto a quelli attuali, rendendo infondata la sua critica alle modifiche del conteggio.

Chi è occupato

Secondo una metodologia condivisa a livello internazionale, ISTAT definisce come occupato chi ha un’età compresa tra i 15 e 89 anni e rispetta specifiche condizioni durante la settimana in cui è intervistato per la raccolta dei dati.

Per essere considerati occupati, è sufficiente aver svolto almeno un’ora di lavoro retribuita. Questo criterio, come abbiamo spiegato in un altro approfondimento, non falsa i dati, ma garantisce che vengano incluse tutte le forme di attività lavorativa, comprese quelle occasionali o sporadiche. Gli occupati che lavorano meno di dieci ore settimanali rappresentano comunque una percentuale minima del totale.

ISTAT considera poi occupato chi è temporaneamente assente dal lavoro per motivi come ferie, malattia, maternità o paternità obbligatoria, congedo parentale o formazione professionale pagata dal datore di lavoro. Anche i lavoratori stagionali, che non sono attivi al momento della rilevazione, ma «continuano a svolgere regolarmente mansioni e compiti necessari al proseguimento dell’attività», rientrano nella definizione di occupati.

Infine, la categoria degli occupati comprende i lavoratori «temporaneamente assenti per altri motivi», purché l’assenza non superi i tre mesi. È proprio a questa condizione che Conte fa riferimento quando sostiene che un lavoratore cassintegrato per un massimo di tre mesi è considerato tra gli occupati.

I criteri precedenti

I criteri con cui ISTAT conteggia gli occupati non sono sempre stati gli stessi: quelli attualmente in vigore sono stati introdotti nel 2021, per adeguarsi a un regolamento europeo approvato due anni prima.

Prima di questa modifica, ISTAT considerava occupato chi, nella settimana dell’intervista, dichiarava di aver svolto almeno un’ora di lavoro che prevedeva «un corrispettivo monetario o in natura», o chi dichiarava di aver svolto «almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare» con cui collaborava «abitualmente». Tra gli occupati rientravano anche gli assenti dal lavoro per ferie o malattia, così come i dipendenti assenti da più di tre mesi, purché percepissero almeno il 50 per cento della retribuzione. Pertanto, già con i vecchi criteri i cassintegrati erano inclusi tra gli occupati.

Nel 2021, ISTAT ha spiegato in un comunicato stampa i cambiamenti introdotti. Le principali novità riguardano: i lavoratori in cassa integrazione, che non sono più considerati occupati se l’assenza da lavoro supera i tre mesi; i lavoratori in congedo parentale, che sono classificati come occupati anche se l’assenza supera i tre mesi e la retribuzione è inferiore al 50 per cento; e i lavoratori autonomi, che non sono più considerati occupati se l’assenza da lavoro supera i tre mesi, anche se l’attività è solo temporaneamente sospesa.

Ricapitolando: i lavoratori cassintegrati rientravano già tra gli occupati prima del 2021, contrariamente a quanto affermato da Conte. Anzi, il criterio precedente era più “permissivo”: un lavoratore cassintegrato continuava a essere considerato occupato anche dopo tre mesi, a condizione che percepisse almeno la metà dello stipendio. Oggi, invece, dopo tre mesi di cassa integrazione, il lavoratore non è più incluso tra gli occupati.

Il confronto tra i due criteri

I dati mensili sugli occupati pubblicati da ISTAT, che coprono il periodo da gennaio 2004 a dicembre 2020, sono stati ricalcolati con i nuovi criteri per garantire confronti coerenti con quelli successivi. 

Il grafico mostra come i vecchi criteri di conteggio portassero a un numero di occupati maggiore rispetto ai nuovi criteri. La differenza è particolarmente evidente nei primi mesi della pandemia di COVID-19, quando il ricorso alla cassa integrazione è aumentato considerevolmente: con il nuovo metodo, molti lavoratori in cassa integrazione non sono stati più considerati occupati dopo tre mesi.

L’aumento della cassa integrazione

Nel suo intervento ad Atreju, Conte ha affermato che nei primi nove mesi di quest’anno c’è stato «un aumento della cassa integrazione» del 23 per cento. Ma da dove proviene questa cifra?

Il presidente del Movimento 5 Stelle non ha specificato la fonte, che presumibilmente è l’INPS. Secondo l’Istituto nazionale della previdenza sociale, tra gennaio e settembre 2024 sono state autorizzate oltre 353 milioni di ore di cassa integrazione, rispetto a circa 294 milioni nello stesso periodo del 2023. L’aumento è reale ed è del 20 per cento. Come evidenziato dal grafico, finora il numero di ore autorizzate quest’anno è simile a quello registrato nei primi nove mesi del 2022.
Le ore autorizzate di cassa integrazione rappresentano il numero di ore di lavoro per cui l’INPS consente alle aziende di ricorrere a questa misura. Sebbene non riflettano le ore effettivamente utilizzate, questi dati sono comunque utili per monitorare lo stato del mercato del lavoro, in particolare nei settori più colpiti dalle crisi economiche.

Per comprendere meglio l’impatto della cassa integrazione, si può analizzare il rapporto tra il numero di ore lavorate in cassa integrazione e il totale delle ore lavorate dagli occupati in Italia. Nei primi nove mesi di quest’anno, in media 8,4 ore ogni mille sono state coperte dalla cassa integrazione, rispetto alle 7,4 dello stesso periodo dell’anno scorso. L’aumento ha interessato principalmente il settore industriale, in cui si registra un calo della produzione, mentre nel settore dei servizi si è osservata una riduzione dell’utilizzo della cassa integrazione. Anche qui, in generale i numeri sono in linea con quelli del 2022.

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