Perché i numeri sui nuovi occupati non sono falsati

Istat è accusata di conteggiare tra i lavoratori anche chi lavora soltanto un’ora alla settimana, fornendo dati fuorvianti. È davvero così?
ANSA
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Quando pubblichiamo un articolo con i dati sul mondo del lavoro, uno dei commenti più frequenti riguarda l’attendibilità delle statistiche raccolte da Istat. Secondo molti lettori infatti i numeri sugli occupati in Italia, che nel 2023 hanno raggiunto il massimo storico, sarebbero falsati dal metodo con cui sono conteggiati dall’istituto nazionale di statistica. In parole semplici, secondo questi commenti Istat considera “occupato” chi non ha un vero e proprio lavoro, dando un’immagine distorta ed esagerata dell’evoluzione del mercato del lavoro. 

A prima vista questa critica sembra avere una sua logica, ma in realtà è scorretta per una serie di motivi.

Chi è “occupato” secondo Istat

Istat intervista ogni mese migliaia di persone per stimare quanti occupati ci sono di più, o di meno, in Italia in un determinato periodo di tempo. Per essere considerato “occupato” un lavoratore deve rispettare alcune condizioni: tra queste, deve avere tra 15 e 89 anni nella settimana in cui è stato intervistato e deve aver svolto almeno un’ora di lavoro retribuita. È considerato occupato anche chi è temporaneamente assente da lavoro perché in malattia, in ferie, in congedo parentale o per altri motivi. La durata prevista dell’assenza, però, non deve essere superiore ai tre mesi. 

Il criterio dell’ora pagata è il più contestato: se gli occupati aumentano, suggeriscono spesso i nostri lettori, è perché aumenta il numero di persone che lavora poco, in molti casi con salari bassi. Per replicare a questa obiezione bisogna spiegare due cose: perché è usato questo criterio e che cosa dicono davvero i numeri.

Il criterio dell’ora

I criteri usati da Istat per identificare gli occupati corrispondono a quelli usati da Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, e seguono le linee guida fissate dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), un’agenzia che fa parte delle Nazioni Unite. Non stiamo quindi parlando di un’anomalia italiana.

Dagli anni Ottanta la Ilo ha introdotto tra i criteri sul calcolo degli occupati quello sull’ora di lavoro (i criteri negli anni si sono evoluti, ma quello sull’ora di lavoro è rimasto). Raccogliendo i dati sull’occupazione con questo metodo, si è il più possibile sicuri di coprire tutte le attività svolte dagli occupati, incluse quelle a tempo parziale, quelle temporanee, occasionali o sporadiche. In più si è il più possibile sicuri di misurare in maniera appropriata tutti i fattori (input) che contribuiscono alla produzione economica di un Paese. 

Dubbi su questo criterio non sono stati sollevati soltanto in Italia. Di recente, infatti, anche l’Ufficio australiano di statistica (Abs) ha dovuto spiegare sul suo sito ufficiale perché chi lavora anche solo un’ora a settimana è considerato occupato. «Le persone che svolgono un lavoro retribuito, anche se solo per poche ore alla settimana, hanno un impiego. Dato che il loro lavoro contribuisce alla produzione economica, è importante che tutto il lavoro retribuito sia incluso nella misurazione dell’occupazione (l’apporto di lavoro all’output economico)», ha sottolineato l’Abs. «Qualsiasi lavoro svolto dalle persone è importante, per l’individuo, per il mercato del lavoro e per l’economia».

Ricapitolando: in base alle statistiche internazionali sul mondo del lavoro, un occupato potrebbe essere qualcuno che in una settimana ha aiutato solo per un trasloco in un pomeriggio o come steward o hostess in un evento solo per una serata, non avendo un’occupazione più o meno stabile per tutto il resto del tempo. Se buona parte dei nuovi occupati rientrasse in questa categoria, in effetti si potrebbe sostenere che l’aumento dell’occupazione nasconde in realtà un aumento della precarietà e una crescita economica poco sostenibile. Ma i numeri che cosa dicono a proposito?

Quanto lavorano gli occupati italiani

I dati Istat più aggiornati sulla composizione delle ore lavorate dagli occupati arrivano fino al 2020.

Nel 2004 l’1,4 per cento degli occupati lavorava tra una e dieci ore la settimana, il 74 per cento lavorava per almeno 26 ore e più della metà (il 53 per cento) lavorava 40 ore a settimana o più. Questa percentuale è rimasta più o meno stabile nel tempo: nel 2019 i lavoratori con 40 e più ore lavorate erano infatti il 52 per cento sul totale. Nel 2020, ultimo anno per cui si hanno a disposizione i dati, il numero medio di ore lavorate è sceso parecchio, ma la spiegazione sta nella crisi economica causata dalla pandemia di Covid-19.
Dunque, almeno fino al 2020, non si sono registrati grandi aumenti di lavoratori altamente precari rispetto al resto degli occupati, con i rapporti di forza che sono rimasti più o meno costanti. Molte cose sono però cambiate dopo la pandemia: basti pensare alla flessibilità offerta dal lavoro da remoto. È possibile che il nuovo mercato del lavoro abbia lasciato più spazio alle occupazioni a basso numero di ore?

Non ci sono ancora dati aggiornati per rispondere con precisione a questa domanda, ma possiamo vedere che cosa dicono i dati sulle caratteristiche dei nuovi occupati. Secondo Istat, a novembre 2023 gli occupati in Italia erano 520 mila in più rispetto allo stesso mese di un anno prima, di cui 494 mila occupati dipendenti. Gli occupati dipendenti con un contratto a tempo determinato sono scesi in un anno di 57 mila unità, mentre gli occupati con un contratto a tempo indeterminato sono aumentati di 551 mila unità. Questo primo dato suggerisce che i nuovi occupati abbiano un lavoro piuttosto stabile, sia per le tutele contrattuali sia, probabilmente, per il numero di ore lavorate.

In un anno sono aumentati anche i lavoratori autonomi, ma la loro crescita ha un peso minore rispetto a quella dei lavoratori dipendenti: a novembre 2023 gli autonomi erano infatti 26 mila in più rispetto allo stesso mese del 2022.

Un secondo criterio per verificare il numero di ore lavorate è la distinzione tra contratti a tempo parziale (part-time) e quelli a tempo pieno (full-time). Anche in questo caso i dati suggeriscono un aumento degli occupati che lavorano per la maggior parte della settimana: tra il terzo trimestre del 2022 e lo stesso periodo del 2023, infatti, i dipendenti part-time si sono ridotti di 70 mila unità, mentre quelli full-time sono aumentati di 471 mila. Infine i dati Eurostat più aggiornati mostrano che nel 2022 ogni occupato in Italia ha lavorato in media 37 ore, un dato in linea con quello degli anni precedenti.

Sebbene non siano ancora disponibili i dati sulle ore lavorate relativi agli ultimi mesi, le tendenze appena viste suggeriscono che non è aumentata la percentuale di occupati che lavorano solo un’ora o poche ore a settimana.

Il problema della cassa integrazione

Un’altra possibile illusione ottica generata dai dati sul lavoro può arrivare dalla cassa integrazione di lungo periodo. Quando è iniziata la pandemia di Covid-19, il calo dell’occupazione in Italia è stato meno pesante del previsto. Molti lavoratori erano in cassa integrazione, alcuni ricevevano forme di sostegno ed era in vigore il divieto di licenziamento. Queste persone erano comunque conteggiate come occupate, a patto che percepissero almeno il 50 per cento della loro retribuzione.

Ad aprile 2021 i criteri per il conteggio degli occupati sono stati rivisti: oggi, come abbiamo visto sopra, sono considerati occupati i lavoratori dipendenti che si trovano in cassa integrazione al massimo per tre mesi e gli autonomi che non hanno sospeso la loro attività per più di tre mesi. Tutte le serie storiche di Istat sono state aggiornate e così si possono comparare i dati degli anni più recenti con quelli fino al 2004, usando la stessa metodologia.

Nell’attuale computo degli occupati quindi non rientrano coloro che non stanno effettivamente lavorando, ma ricevono uno stipendio. Questo restringe ulteriormente la platea di lavoratori considerati occupati solo per l’ampiezza della definizione. La crescita dell’occupazione successiva alla pandemia, dunque, non sembra essere il segnale di una maggiore precarietà, anzi: vari indicatori suggeriscono un miglioramento delle condizioni sul mercato del lavoro. 

L’aumento degli occupati è meno straordinario se si contestualizza con il resto dell’Unione europea. Secondo i dati Eurostat più aggiornati, nel 2022 l’Italia aveva il tasso di occupazione più basso d’Europa nella fascia dai 15 anni di età in su: 60,1 per cento rispetto a una media europea pari al 69,8 per cento.

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