Quanto regge l’ottimismo di Meloni sui centri in Albania

Secondo la presidente del Consiglio, sicuramente saranno operativi da giugno 2026. In realtà, il quadro è molto meno solido di quanto sembri
ANSA
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«Quando entrerà in vigore il “Patto sull’immigrazione e l’asilo”, i centri funzioneranno esattamente come avrebbero dovuto funzionare dall’inizio». Con queste parole, al termine di un incontro con il primo ministro albanese Edi Rama, il 13 novembre la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito la sua intenzione di puntare sui centri per migranti costruiti dall’Italia in Albania, che – secondo lei – «certamente» saranno operativi a partire da giugno 2026. 

Meloni ha inoltre aggiunto che i giudici italiani hanno assunto decisioni discutibili, come ritenere che «Paesi come Bangladesh e Tunisia non fossero Paesi sicuri», quando la proposta della Commissione europea per una lista comune dei Paesi sicuri li include entrambi. Da qui il sospetto, evocato dalla presidente del Consiglio, che le decisioni di non convalidare il trattenimento in Albania di richiedenti asilo bangladesi e tunisini possano avere avuto «motivazioni di carattere diverso» da quello giuridico.

Le dichiarazioni di Meloni creano l’aspettativa che il nuovo “Patto sulla migrazione e l’asilo” dell’Ue contiene, di fatto, un automatismo che renderà pienamente operativi i centri in Albania. Ma il quadro è più complesso di come l’ha presentato la presidente del Consiglio, e questo automatismo non c’è.

L’accordo tra Italia e Albania

Per comprendere meglio la questione, è necessario partire dall’accordo bilaterale tra Italia e Albania.

Il Protocollo tra i due Paesi è stato firmato a novembre 2023 dai due governi e ratificato dal Parlamento italiano a febbraio 2024. L’intesa prevede che i centri di Shëngjin e Gjadër – pur situati in territorio albanese – siano posti sotto la giurisdizione italiana e usati per trattenere migranti maschi adulti provenienti da Paesi considerati sicuri, applicando la cosiddetta “procedura accelerata di frontiera”, come se quei centri fossero zone di frontiera italiane. Questa procedura prevede il fermo dei migranti per tutta la durata dell’esame della loro richiesta d’asilo e, come suggerisce il nome, ha l’obiettivo di arrivare a una risposta in tempi più rapidi rispetto alla procedura standard.

A ottobre 2024 sono arrivate le prime decisioni dei giudici italiani che non hanno convalidato il trattenimento dei migranti nei centri in Albania. I centri sono rimasti semivuoti e così, a marzo 2025, il governo Meloni ha ampliato con un decreto-legge la platea delle persone trasferibili nei centri, includendo anche quelle già trattenute nei Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) italiani. L’obiettivo era superare gli ostacoli posti dalle decisioni dei giudici italiani e permettere ai centri albanesi di “funzionare”, cioè farli operare con un numero di persone sufficiente al loro interno.

Che cosa cambia con il nuovo Patto Ue

Nel frattempo, a maggio 2024 il Consiglio dell’Unione europea ha approvato definitivamente il “Patto sulla migrazione e l’asilo”, che entrerà in vigore il 12 giugno 2026, introducendo controlli più rigidi, procedure più rapide, un meccanismo di solidarietà obbligatoria, una lista europea dei Paesi sicuri e nuove regole sui rimpatri.

Fanno parte del nuovo Patto una serie di regolamenti e una direttiva: i regolamenti si applicano direttamente in tutti gli Stati membri, mentre la direttiva richiede che ogni Paese adotti norme interne per recepirla. Qui ci interessano due regolamenti in particolare: il regolamento che interviene sulle procedure comuni di protezione internazionale nell’Ue, e il regolamento che stabilisce le procedure comuni di rimpatrio alla frontiera. 

Il primo regolamento stabilisce che la procedura di frontiera per l’esame delle richieste d’asilo debba essere svolta «alla frontiera esterna o in prossimità della stessa», oppure «in una zona di transito, o in altri luoghi designati sul proprio territorio». Si tratta di una finzione giuridica per cui il richiedente asilo è fisicamente in Ue, ma viene considerato come non ancora ammesso. Il regolamento dice che il luogo dove può essere svolta la procedura di frontiera deve comunque essere dentro il territorio dello Stato membro (per esempio un porto, un hotspot, un’area chiusa vicino alla frontiera, ecc.). Pertanto, ai sensi del nuovo regolamento, un centro collocato in Albania non potrebbe essere considerato un luogo dove svolgere la procedura di frontiera ai fini dell’esame delle domande di asilo.

Lo stesso schema è ripreso dal regolamento sulla procedura di frontiera per il rimpatrio, cioè la procedura che disciplina il rientro forzato dei cittadini di Paesi terzi la cui domanda è stata respinta nell’ambito della procedura di asilo alla frontiera. In base al regolamento del nuovo Patto, il presupposto su cui si basa la procedura di frontiera per il rimpatrio è che il soggetto sia alla frontiera, vicino a essa o comunque nel territorio dello Stato membro: nessuna norma autorizza l’uso di strutture situate in uno Stato terzo per attuare la procedura di rimpatrio dell’Ue, quindi i centri in Albania non potrebbero essere usati nell’ambito di questa procedura.
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Il nodo della frontiera fuori dall’Ue

Il nodo giuridico principale riguarda la possibilità di applicare una procedura di frontiera al di fuori del territorio nazionale. Il problema si era già posto con le regole attualmente in vigore e, come si è visto, continuerà a presentarsi anche quando entrerà in vigore il nuovo Patto.

Dinanzi alla Corte di giustizia dell’Ue è pendente una questione preliminare, sollevata dalla Corte di Cassazione nel maggio scorso, sulla «decisione dello Stato italiano di trasportare in un territorio esterno a quello dell’Unione europea i cittadini extracomunitari». Secondo la Cassazione, l’equiparazione del centro di Gjadër in Albania ai CPR italiani non trasforma le aree albanesi «in una porzione del territorio italiano», poiché l’applicazione della normativa italiana «non discende dall’esercizio diretto della sovranità dello Stato membro ma dall’esistenza di un accordo internazionale con uno Stato non membro». Di conseguenza, lo straniero condotto nel centro di Gjadër deve essere considerato trasferito in un Paese terzo, dato che l’Albania non fa parte dell’Ue.

Dunque, secondo la Cassazione, i centri devono essere considerati situati in «un territorio di Stato non membro Ue che tale rimane, nonostante i poteri di gestione delle aree riconosciute alle autorità italiane» dal Protocollo.

Questo crea una serie di problemi «sul piano delle garanzie unionali» per i migranti. In particolare, il loro trasferimento «in uno Stato terzo, ancorché in aree assoggettate alla giurisdizione italiana» implica che la restrizione della libertà personale non possa durare «il tempo strettamente necessario» alla verifica giudiziaria del trattenimento. «In caso di diniego della stessa da parte dell’autorità giudiziaria, non è possibile disporre – come se il migrante si trovasse in uno Stato membro – la liberazione immediata», perché i migranti non possono lasciare il centro e devono attendere il trasferimento di ritorno in Italia.

Lo scorso 5 novembre la Corte d’appello di Roma ha sollevato una nuova questione pregiudiziale riguardo «la competenza dell’Italia a stipulare» il Protocollo con l’Albania, alla luce del Trattato sul funzionamento dell’Ue, in base al quale l’Ue «ha competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione può incidere su norme comuni o modificarne la portata». Secondo la Corte d’appello, il Protocollo è «idoneo a pregiudicare l’applicazione uniforme e coerente delle norme dell’Unione e il buon funzionamento del sistema che esse istituiscono sotto molteplici aspetti» e suscita dubbi sulla «conformità di talune disposizioni del Protocollo al diritto dell’Unione europea».

La lista Ue dei Paesi sicuri

Un altro punto evocato da Meloni riguarda la lista europea dei Paesi sicuri.

In effetti, il nuovo regolamento sulle procedure di asilo consente all’Ue di redigere una lista comune, accanto a quelle nazionali. E ad aprile 2025 la Commissione Ue ha presentato una proposta che include Bangladesh e Tunisia tra i Paesi considerati “sicuri”, insieme a Colombia, Egitto, India, Kosovo e Marocco.

Lo stesso regolamento ammette che la designazione di un Paese come sicuro – sia a livello europeo sia nazionale – possa essere effettuata «con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili». È questo che consente, in teoria, di considerare sicuri Paesi come Bangladesh e Tunisia, anche se presentano situazioni territoriali o gruppi di popolazione in cui i diritti fondamentali non sono pienamente garantiti.

Meloni si è lamentata del fatto che, un domani, questi due Paesi saranno considerati sicuri in base alla lista Ue, mentre i giudici italiani li hanno ritenuti non sicuri nel momento in cui hanno respinto le richieste di trattenimento per alcuni migranti in Albania. Ma questa «riflessione» – come l’ha chiamata la presidente del Consiglio – si fonda su un fraintendimento.

I giudici italiani hanno applicato i criteri di sicurezza che derivano dalla normativa attuale, come interpretata dalla Corte di giustizia dell’Ue: questi criteri richiedono la sicurezza sull’intero territorio nazionale e per la popolazione nel suo complesso. I criteri previsti dalla futura lista europea saranno diversi, più flessibili, ma non sono ancora in vigore. Dunque, i giudici italiani si sono limitati ad applicare le regole vigenti: non avrebbero potuto anticipare l’applicazione di quelle future.

Il fatto che, con i nuovi criteri, il mancato rispetto dei diritti fondamentali possa essere valutato non più sull’intero territorio nazionale ma solo su alcune sue parti, o per specifiche categorie di individui, amplia significativamente l’ambito di applicazione delle procedure di frontiera – riservate a chi proviene da Paesi sicuri – nella valutazione delle domande di asilo. Per l’Italia, però, rimarrebbero i problemi già illustrati riguardo alla possibilità di svolgere questa procedura in un Paese terzo rispetto all’Ue. E c’è un ulteriore elemento da considerare.

La lista dei Paesi sicuri redatta dall’Ue è, allo stato, soltanto una proposta: è in corso l’esame da parte del Consiglio dell’Ue e del Parlamento europeo, e non è ancora in vigore. Può considerarsi “blindata” per il solo fatto di essere redatta dalla Commissione Ue, come ha suggerito Meloni? La risposta è no. Le proposte della Commissione Ue, infatti, non diventano vincolanti finché non sono approvate dal Consiglio dell’Ue e dal Parlamento attraverso la procedura legislativa ordinaria.

La futura lista europea, inoltre, non sarà sottratta al controllo dei tribunali. I giudici potranno sempre valutare se un Paese sia realmente sicuro nel caso concreto e, in presenza di dubbi più ampi, sollevare una questione pregiudiziale presso la Corte di giustizia dell’Ue per verificare la validità dell’inserimento del Paese nella lista o della lista stessa. Quando la lista sarà inserita nel regolamento, il giudice nazionale non potrà annullarla, ma potrà verificare se rispetta i criteri previsti dal diritto dell’Ue, dalla Carta dei diritti fondamentali e dalla Convenzione di Ginevra. E se in base alle prove disponibili riterrà che non lo siano, potrà quindi contestare non solo l’applicazione del concetto di Paese sicuro al proprio caso, ma anche la stessa designazione del Paese come “sicuro” a livello europeo.

La proposta dei return hubs

Un ulteriore elemento utile per capire il futuro utilizzo dei centri in Albania riguarda una proposta separata dal “Patto sulla migrazione e l’asilo”, ma comunque legata alle politiche di rimpatrio dell’Ue. 

Lo scorso marzo la Commissione Ue ha presentato una proposta di regolamento che «istituisce un sistema comune per il rimpatrio» dei cittadini che risiedono irregolarmente nell’Ue. Sebbene riguardi la stessa materia, questo regolamento non fa parte del nuovo “Patto per l’immigrazione e l’asilo”.

Tra le altre cose, la proposta introduce i cosiddetti return hubs in Paesi terzi, ossia la possibilità di trasferire persone destinatarie di una decisione di rimpatrio ormai esecutiva in uno Stato non Ue con cui esista un accordo. Tale trasferimento è possibile solo se in quel Paese sono garantiti i diritti fondamentali e il principio di non respingimento e se l’accordo stabilisce modalità operative, un sistema di monitoraggio e ulteriori garanzie.

I centri albanesi potrebbero, in teoria, essere usati come return hubs solo dopo che la persona sia già destinataria di una decisione di rimpatrio definitiva e solo nel rispetto di tutte le condizioni previste. Non potrebbero quindi essere impiegati, come inizialmente previsto dal governo Meloni, per svolgere la procedura di frontiera sulle domande di protezione internazionale né per trattenere persone la cui decisione di rimpatrio non sia ancora definitiva, come stabilito nel marzo 2025.

Va ricordato, comunque, che i return hubs sono al momento soltanto una proposta in fase di negoziato: non compaiono nei regolamenti del nuovo “Patto per l’immigrazione e l’asilo” e quindi non diventeranno operativi dal prossimo giugno.

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