Il governo non ha capito la sentenza sui Paesi “sicuri”

Per il centrodestra, è un’ingerenza dei giudici che ostacola il contrasto all’immigrazione irregolare. Ma i principi del diritto e la decisione stessa dicono altro
ANSA
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Negli ultimi giorni diversi esponenti del governo Meloni hanno criticato la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea sui Paesi considerati “sicuri” da cui provengono i migranti che sbarcano in Italia e nell’Unione europea. La sentenza, pubblicata lo scorso 1° agosto, era particolarmente attesa in Italia perché riguarda i centri per migranti costruiti dall’Italia in Albania.

«Sorprende la decisione della Corte di giustizia Ue in merito ai Paesi sicuri di provenienza dei migranti illegali. Ancora una volta la giurisdizione, questa volta europea, rivendica spazi che non le competono, a fronte di responsabilità che sono politiche», ha scritto su X la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, secondo cui la sentenza della Corte di giustizia «indebolisce le politiche di contrasto all’immigrazione illegale di massa e di difesa dei confini nazionali». Un concetto simile è stato espresso dal vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini. «La sentenza che oggi arriva dalla Corte europea contro l’Italia è scandalosa, vergognosa, imbarazzante. Limita la possibilità di controllare i confini, di contrastare i trafficanti di esseri umani, di limitare gli sbarchi», ha commentato il segretario della Lega, mentre l’altro vicepresidente del Consiglio, il segretario di Forza Italia Antonio Tajani, ha detto che la decisione dei giudici europei non lo convince per nulla e che avrà «effetti molto brevi».

Ma quanto sono fondate le critiche dei leader del centrodestra? Testo della sentenza alla mano, le loro obiezioni presentano una serie di problemi.

I poteri della Corte di giustizia dell’Ue

Innanzitutto è bene chiarire da dove è nata la sentenza della Corte di giustizia dell’Ue, l’istituzione che ha sede a Lussemburgo e che svolge la funzione giudiziaria a livello comunitario. 

La sentenza riguarda un ricorso pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Roma nei confronti proprio della Corte di giustizia dell’Ue, con ordinanze del 31 ottobre 2024 e del 4 novembre 2024. Come spiega la stessa Corte di giustizia, i ricorsi pregiudiziali permettono ai giudici degli Stati membri dell’Ue, durante un processo, di «rivolgersi alla Corte di giustizia per chiederle di precisare una questione di interpretazione del diritto dell’Unione, al fine di poter, ad esempio, verificare la conformità con tale diritto della loro normativa nazionale». In altre parole, i giudici di un Paese dell’Ue, durante un processo a livello nazionale, possono chiedere alla Corte di giustizia di esprimere un parere su come vada applicata la normativa europea. Detto questo, la Corte non risolve la controversia nazionale, ma vincola il giudice che ne ha fatto richiesta a valutarla secondo la decisione della Corte. Questo vale anche per tutti gli altri giudici di ogni Paese Ue, qualora venga loro sottoposto un problema analogo a quello per cui la giustizia europea si è espressa.

Insomma, i giudici di uno Stato membro dell’Ue, come l’Italia, hanno non solo il potere, ma anche il dovere di chiedere aiuto alla Corte di giustizia dell’Ue su una determinata questione di interpretazione del diritto europeo, nei casi dubbi. E la Corte di giustizia stabilisce come debba essere inteso il diritto europeo, quando viene sollevata dinanzi ad essa una “questione pregiudiziale”. Questo vale anche per risolvere i dubbi giuridici proprio su un tema come l’immigrazione, che è una delle materie concorrenti su cui possono legiferare sia le autorità europee sia i singoli Stati.

Come si legge nel testo della sentenza, ai giudici europei è stato chiesto di esprimersi su come vada applicata la normativa europea sulla designazione dei Paesi considerati «sicuri» da cui provengono i migranti extra-europei. La definizione di un Paese come «sicuro» o meno è decisiva quando la domanda di protezione internazionale di un cittadino straniero viene respinta attraverso la cosiddetta “procedura accelerata di frontiera”, che si applica quando il Paese di provenienza è stato inserito da uno Stato membro in una lista di Paesi considerati “sicuri”. La procedura accelerata di frontiera è caratterizzata (art. 7-bis) da tempi istruttori più brevi rispetto alla procedura ordinaria e comporta il trattenimento del richiedente per un periodo massimo di quattro settimane, per lo svolgimento degli accertamenti necessari.

Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, il Tribunale di Roma ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Ue di esprimersi sull’applicazione degli articoli dal 36 al 38 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea del 2013, che definiscono il concetto di «Paese di origine sicuro», sull’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che stabilisce il diritto di ogni persona a fare ricorso a un giudice imparziale, e sugli articoli dal 6 al 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che sanciscono diritti come l’equo processo e la libertà di espressione.

Il caso dei migranti bangladesi

Veniamo ora al caso specifico per cui il Tribunale di Roma ha chiesto l’intervento dei giudici europei. 

I giudici hanno dovuto valutare l’applicazione della normativa europea sui Paesi «sicuri» sul caso di due cittadini del Bangladesh soccorsi in mare e trasferiti nei centri per migranti in Albania. Inizialmente, secondo il Protocollo tra Italia e Albania, siglato a Roma il 6 novembre 2023 e ratificato dal Parlamento italiano a febbraio 2024, nei centri costruiti dall’Italia nelle città albanesi Shëngjin e Gjadër potevano essere portati (art. 4 protocollo) solo i migranti maschi adulti provenienti per l’appunto dai Paesi considerati “sicuri”, ossia quegli Stati dove secondo l’Italia vige un ordinamento democratico e dove sono rispettati i diritti delle persone. In seguito, a marzo 2025, il governo ha esteso con un decreto-legge la possibilità di trasferire nel centro di Gjadër non solo i migranti soccorsi in mare, come previsto originariamente dal Protocollo, ma anche quelli già presenti nei Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) italiani, a cui fosse stato convalidato o prorogato il provvedimento di trattenimento. 

Questa scelta è stata presa dal governo italiano affinché i centri albanesi potessero finalmente funzionare. Nei mesi precedenti, con varie sentenze, i giudici italiani non avevano infatti convalidato il trattenimento nei centri di diversi migranti – perché per i giudici la valutazione di un Paese come “sicuro” deve estendersi a tutte le sue parti, senza eccezioni nel suo territorio, secondo quanto stabilito da una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione pubblicata a ottobre 2024 – oppure avevano sospeso la convalida in attesa della pronuncia della Corte Ue sulla questione Paesi sicuri. Per superare questa impasse – cioè le convalide mancate o sospese, da cui conseguiva il trasferimento dei migranti in Italia  – sempre a ottobre 2024 il governo italiano aveva inserito la lista in un decreto-legge. Fino a quel momento la lista era contenuta in un decreto del Ministero degli Esteri, ossia non una legge vera e propria, ma una norma di rango secondario. Secondo il governo, inserendo la lista in un decreto-legge, che è una legge a tutti gli effetti, i giudici non avrebbero potuto disapplicarla perché avrebbe prevalso la legge nazionale sul diritto europeo. In realtà, poi le cose non sono andate così: i tribunali italiani hanno continuato a disapplicare la lista dei Paesi “sicuri”, facendo prevalere le norme europee, in base al principio del “primato del diritto dell’Unione”.

In ogni caso, i due cittadini bangladesi trasferiti in Albania, oggetto della sentenza della Corte di giustizia dell’Ue, avevano chiesto asilo all’Italia. La loro domanda era stata però respinta dalla Commissione Territoriale a seguito della procedura accelerata di frontiera proprio perché il Bangladesh era stato inserito tra i Paesi “sicuri”. A quel punto, i due cittadini del Bangladesh hanno impugnato la decisione dinanzi al Tribunale di Roma, che ha sospeso il procedimento e chiesto alla Corte di giustizia dell’Ue di pronunciarsi sull’intepretazione delle norme europee in materia di Paesi considerati “sicuri”.

La possibilità dei governi nel decidere i Paesi “sicuri”

Nella sentenza del 1° agosto scorso, la Corte di giustizia dell’Ue ha chiarito quattro aspetti, oggetto delle quattro questioni pregiudiziali sollevati dinanzi a essa dal Tribunale di Roma. Innanzitutto, quest’ultimo aveva chiesto alla Corte europea se, in base al diritto dell’Unione, un legislatore nazionale possa «designare direttamente, con atto legislativo primario (cioè con una legge dello Stato, ndr), uno Stato terzo come Paese di origine sicuro».

Nella sentenza la Corte di giustizia ha chiarito che uno Stato membro può indicare i Paesi sicuri attraverso un atto legislativo, ossia una legge, a condizione che tale atto «possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale vertente sul rispetto delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I» della già citata direttiva del 2013 sui Paesi sicuri.

Secondo quanto previsto nell’allegato alla direttiva, hanno precisato i giudici di Lussemburgo, un Paese è considerato «di origine sicuro» se, «sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale», si può dimostrare che non si verificano persecuzioni, torture o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericoli dovuti a «violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale». Insomma, un Paese non può essere considerato sicuro se al suo interno ci sono zone particolarmente pericolose per la presenza di guerre o se singoli gruppi di persone sono sottoposti a discriminazione o a forme di persecuzione e violenza. Su questo ci torneremo più avanti.

La Corte di giustizia ha poi sottolineato che il controllo giurisdizionale eseguito da un giudice nazionale – come nel caso dei giudici del Tribunale di Roma – è particolarmente importante in caso di ricorso contro il rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata secondo il «regime speciale», ossia la procedura accelerata di frontiera. Infatti, questa procedura accelerata per l’esame della domanda di protezione internazionale offre minori garanzie al migrante in termini di durata e di approfondimento rispetto a quella ordinaria. Siccome la procedura accelerata ha come presupposto la provenienza del migrante da un Paese sicuro, si suppone che egli non abbia diritto alla protezione internazionale, per cui i giudici fanno un’istruttoria rapida e sommaria. Insomma, la Corte ha sottolineato che è importante che il giudice possa verificare la correttezza della qualificazione di un Paese come “sicuro”, perché ciò incide sui diritti dello straniero durante l’esame della sua domanda di asilo.

Accessibilità e verificabilità delle fonti

Nella sentenza i giudici europei non hanno comunque messo in discussione la possibilità di rimpatriare i migranti a cui è stata negata la protezione internazionale, cosa che può sempre avvenire a seguito di procedura ordinaria, e non di quella accelerata, di esame della loro domanda di protezione internazionale. Hanno ribadito che gli Stati dell’Ue, come l’Italia, possono designare una lista di Paesi considerati “sicuri” in relazione ai quali applicare la procedura accelerata di frontiera, ma la lista deve poter essere sottoposta al controllo dei giudici nazionali. 

Questo chiarimento si lega alla seconda questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Roma. I giudici italiani avevano chiesto a quelli europei se il governo che designa uno Stato come “sicuro” deve rendere accessibili e verificabili le fonti usate per tale designazione.

La Corte Ue ha affermato che lo Stato membro «deve garantire un accesso sufficiente e adeguato alle fonti di informazione» utilizzate per stabilire che un determinato Paese è da considerarsi come sicuro. Secondo i giudici, l’accessibilità e la trasparenza sono importanti perché bisogna garantire «al richiedente protezione internazionale interessato, originario di tale Paese terzo, di difendere i suoi diritti nelle migliori condizioni possibili e di decidere, con piena cognizione di causa». In più, la piena accessibilità alle informazioni è essenziale affinché il giudice possa «esercitare il proprio sindacato su una decisione concernente la domanda di protezione internazionale».

Su questo aspetto, i giudici italiani avevano evidenziato che il nuovo decreto-legge, in cui è stata inserita la lista dei Paesi “sicuri”, non rende accessibili le fonti in base alle quali questi Paesi sono stati considerati tali, a differenza di quanto avveniva con il previgente decreto ministeriale, cui erano allegate delle schede informative sui singoli Paesi “sicuri”. Il decreto-legge si limita a stabilire che l’elenco dei Paesi sicuri deve essere definito dal governo «in applicazione dei criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa dell’Unione europea e dei riscontri rinvenuti dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti». 

Nella sentenza, i giudici europei hanno sottolineato che nessuna norma europea prevede «espressamente che l’autorità nazionale che procede alla designazione, a livello nazionale, dei Paesi di origine sicuri debba rendere accessibili le fonti di informazione sulla base delle quali ha proceduto a tale designazione». Allo stesso tempo, però, la procedura accelerata cui è sottoposto il migrante proveniente dai Paesi sicuri, con le minori forme di garanzia che essa comporta per il migrante stesso e la più rapida procedura di espulsione che ne consegue, si basa sulla presunzione che egli abbia una protezione sufficiente nel Paese d’origine. Per questo, secondo i giudici europei, il migrante va messo «in condizioni di conoscere le ragioni per le quali il legislatore nazionale reputa che il suo Paese di origine sia sicuro» e «deve disporre, allo scopo, di un accesso alle relative fonti di informazione». Questo consente altresì di dare piena applicazione al principio del “diritto a un ricorso effettivo”, cioè basato su tutti gli elementi di conoscenza che servono alle persone per tutelare le loro posizioni, e al giudice per valutarle.

La discrezionalità dei giudici nazionali

La Corte di giustizia europea ha poi precisato che i giudici nazionali hanno l’obbligo di eseguire «l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto» in base a cui è avvenuta la designazione di un Paese come sicuro. 

Per valutazione ex nunc si intende che il giudice ha l’obbligo di valutare gli eventuali «nuovi elementi intervenuti dopo l’adozione della decisione oggetto del ricorso» da parte di un migrante. In pratica, nel valutare se un Paese può essere considerato come “sicuro”, il giudice deve valutare sia le informazioni alla base della decisione da parte dello Stato europeo di inserire quel Paese tra quelli “sicuri”, sia le eventuali nuove informazioni su come si è evoluta nel frattempo la situazione nello stesso Paese.

Perciò, secondo i giudici europei, il giudice nazionale deve tenere conto non solo delle fonti usate dal legislatore nazionale per la designazione di un Paese come “sicuro”, ma pure «di altre informazioni da esso stesso eventualmente raccolte, siano esse provenienti da fonti pubbliche o da fonti di cui ha chiesto la produzione a una delle parti della controversia» a patto che sia accertata «l’affidabilità di tali informazioni» e che le parti del processo possano esprimere le loro osservazioni in merito. Quindi, le fonti utilizzate dal giudice possono essere oggetto di contraddittorio.

La definizione di Paese "sicuro"

Con la quarta questione pregiudiziale, infine, il Tribunale di Roma aveva chiesto se il diritto europeo impedisce o meno di definire un Paese come “di origine sicuro” se in tale Paese ci sono «categorie di persone per le quali esso non soddisfa le condizioni sostanziali» previste dalla direttiva europea del 2013.

Come anticipato, l’allegato I alla direttiva sui Paesi “sicuri” prevede che un Paese possa essere considerato “sicuro” se è possibile dimostrare che non ci sono «generalmente» e «costantemente» persecuzioni, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di una violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Insomma, un Paese non può essere considerato sicuro se non lo è per tutti i suoi abitanti e in tutte le sue aree. Questo principio era stato ribadito dalla stessa Corte di giustizia dell’Ue in un’altra sentenza emessa a ottobre 2024, dopo un ricorso sollevato da un tribunale della Repubblica Ceca su un caso di un richiedente asilo moldavo proveniente dalla Transnistria, un territorio separatista e filorusso della Moldavia. Quest’ultima sentenza è stata poi la base giuridica dietro le decisioni dei tribunali italiani di respingere i trattenimenti di migranti nei centri in Albania. Ma siccome sussistevano ancora delle perplessità sull’interpretazione della sentenza stessa, e quindi del diritto Ue, il Tribunale di Roma aveva deciso di chiedere al giudice europeo di dirimere i dubbi.

Nella nuova sentenza sui Paesi “sicuri” la Corte ha ribadito nuovamente il principio che un Paese può essere considerato come sicuro solo se lo è nel suo complesso, almeno fino all’entrata in vigore del nuovo regolamento europeo sulla procedura d’asilo, prevista per il 12 giugno 2026. È all’entrata in vigore di questo nuovo regolamento che Tajani ha fatto riferimento nel sostenere che la sentenza della Corte di giustizia avrà «effetti molto brevi». In effetti, con il nuovo regolamento, gli Stati potranno introdurre eccezioni e considerare sicuro un Paese anche solo per determinate categorie di persone, superando l’attuale requisito di sicurezza generale.

Detto questo, al momento il principio fondamentale sulla base del quale valutare un Paese come sicuro è che esso lo sia in tutte le sue parti, senza esclusioni nel suo territorio o di gruppi specifici di persone.

Ricapitolando

Con la sua sentenza la Corte di giustizia dell’Ue ha smentito la linea sostenuta in giudizio dal governo italiano, mentre ha confermato la linea dei giudici che negli scorsi mesi avevano contestato la scelta di inserire Paesi come il Bangladesh nell’elenco dei Paesi sicuri, in contrasto con le condizioni previste dal diritto europeo.

Al contrario di quanto hanno fatto intendere vari esponenti del governo Meloni, la sentenza non mette in discussione né il potere dello Stato di definire l’elenco dei Paesi sicuri – la Corte dice solo che l’elenco è sempre sindacabile dai giudici nazionali – né la possibilità di rimpatriare gli stranieri a cui è stata negata la protezione internazionale. Se i tribunali bloccano il trattenimento di un migrante perché non si può considerare come originario di un Paese “sicuro”, cambia soltanto la procedura con cui la sua domanda d’asilo deve essere valutata: invece di un esame rapido e sommario – la procedura accelerata di frontiera – sarà necessario seguire la procedura ordinaria, più approfondita. Se anche al termine di questa valutazione la richiesta verrà respinta, il rimpatrio sarà comunque possibile.

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