Come mai l’Italia è piena di avvocati ma ha pochi giudici

Le cause sono molte e hanno le radici nelle scelte politiche, nell’organizzazione dei tribunali e nel mercato del lavoro
Ansa
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In Italia ci sono molti più avvocati che magistrati, e soprattutto molti meno giudici di quanti servirebbero. È uno squilibrio noto da tempo, ma che oggi riacquista particolare rilevanza mentre il Paese si prepara al referendum costituzionale sulla separazione delle carriere e il tema della giustizia torna al centro del dibattito politico.

Capire perché il sistema si sia assestato in questo modo, come nel tempo si sia ampliato il divario tra chi interpreta la legge e chi la applica, e quali effetti produca oggi nei tribunali è essenziale per valutare lo stato di salute della giustizia italiana. Dai dati europei alle scelte politiche, dal ruolo del concorso pubblico alla saturazione dell’avvocatura, la storia di questo squilibrio rivela più di quanto sembri sulla capacità del sistema di funzionare.

Un po’ di dati

Secondo i dati più aggiornati della Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa, in Italia ci sono 5,4 giudici ogni 100 mila abitanti, a fronte di una mediana europea di 17,8. Solo Francia e Irlanda registrano valori più bassi, mentre i Paesi dell’Europa orientale e dei Balcani mostrano numeri molto più elevati, in alcuni casi superiori di oltre otto volte a quelli italiani. Anche in Svizzera, Svezia e Portogallo il numero dei magistrati giudicanti è nettamente superiore.

Lo stesso andamento emerge per i pubblici ministeri. In Italia sono poco meno di 4 ogni 100 mila abitanti, contro una mediana europea di circa 11. A questo si aggiunge una caratteristica ulteriore: nel nostro Paese il numero dei pubblici ministeri è molto alto se confrontato con quello dei giudici, perché i pm sono pari a circa il 70 per cento del totale dei giudici giudicanti. Si tratta di una delle proporzioni più elevate d’Europa, superata solo da Francia e Irlanda, mentre nel resto del continente il rapporto tra le due figure è più equilibrato.

All’estremo opposto, invece, si colloca il numero degli avvocati: nel nostro Paese ce ne sono circa 400 ogni 100 mila abitanti, più del doppio della mediana europea. L’Italia è tra i primi Paesi del continente per densità di avvocati, ben sopra Germania, Francia e Spagna, seconda soltanto a realtà più piccole come Grecia, Lussemburgo e Cipro.

Un fatto risaputo

L’eccesso di avvocati e la carenza di magistrati sono riconosciuti da tempo e non rappresentano una scoperta recente. 

Già nel 1921 Piero Calamandrei, giurista ed ex componente dell’Assemblea costituente, denunciò il problema nel pamphlet “Troppi avvocati!”, segnalando i rischi che un aumento incontrollato del numero di professionisti avrebbe comportato per la qualità della giustizia. Pur riferendosi a un contesto storico diverso, la sua analisi anticipava tendenze che oggi sono pienamente visibili.

Dunque, in Italia ci sono molte più persone che interpretano la legge (gli avvocati) rispetto a quante la applicano (i magistrati). 

Si potrebbe obiettare che questa sproporzione non costituisca di per sé un problema e che rispecchi semplicemente la domanda di servizi legali nel Paese. Ma quando la capacità di applicare la legge non cresce in misura analoga, lo squilibrio finisce per incidere direttamente sul funzionamento dei tribunali. E il risultato è un sistema che fatica a gestire i procedimenti in tempi ragionevoli. 

Ne è conferma il dato sul disposition time, un indicatore che misura quanto tempo servirebbe per smaltire tutti i procedimenti pendenti nel giudizio di primo grado delle cause civili e commerciali, se i tribunali continuassero a lavorare al ritmo attuale. Nel 2022, in Italia servivano circa 540 giorni – un anno e mezzo – per esaurire tutte le cause pendenti se non ne fossero arrivate di nuove, contro una media europea di circa 240 giorni. Paesi come Spagna e Francia si collocano in una fascia intermedia, mentre Germania, Svizzera e Austria completano i procedimenti in tempi molto inferiori.
Pagella Politica

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Il concorso pubblico

Le ragioni dello scarso numero di magistrati sono sia storiche sia legate a scelte politiche e organizzative degli ultimi decenni.

L’accesso alla magistratura avviene tramite un concorso pubblico altamente selettivo, con un numero limitato di posti. Alla laurea in giurisprudenza occorre aggiungere titoli ulteriori – per esempio il dottorato, la specializzazione per le professioni legali o il tirocinio presso l’Avvocatura di Stato – e superare prove scritte e orali che richiedono anni di preparazione e determinano una selezione molto rigorosa.

Nonostante i concorsi indetti di recente, questi elementi hanno mantenuto basso il numero annuale dei nuovi ingressi, spesso insufficiente a compensare pensionamenti, trasferimenti e l’aumento del carico di lavoro.

Una recente analisi di Area Democratica per la Giustizia – una delle correnti di centrosinistra della magistratura – ha segnalato quasi mille posti vacanti su un organico di oltre 11 mila magistrati. Entro il 2029 sono previsti almeno 700 pensionamenti, mentre i nuovi ingressi derivanti dai concorsi in corso non colmerebbero completamente il divario, che secondo le stime potrebbe rimanere attorno a 920 magistrati. 

A questi fattori strutturali si aggiungono quelli economici e culturali.

Dipendenti e liberi professionisti

L’aspetto finanziario incide in modo significativo. I magistrati, infatti, sono dipendenti del Ministero della Giustizia e rappresentano un costo stabile per lo Stato. Sebbene l’Italia destini alla giustizia risorse superiori alla media europea, aumentare l’organico comporterebbe un incremento della spesa pubblica. Come ha sottolineato l’anno scorso il ministro della Giustizia Carlo Nordio, «il mondo giudiziario non produce voti» e ciò ha storicamente reso meno urgente investire nella categoria. Nordio ha anche criticato l’attuale struttura dei concorsi, sostenendo la necessità di riformare le commissioni esaminatrici e accelerare le procedure.

Accanto agli aspetti economici, contano quelli culturali e sociali. La magistratura è percepita come una professione impegnativa, con forte responsabilità, carichi di lavoro elevati e limitata mobilità geografica. Per chi desidera un percorso più flessibile o non può permettersi anni di studio senza reddito, la carriera in magistratura appare meno appetibile rispetto all’avvocatura, che offre maggiore autonomia e possibilità organizzative. 

«Quella dell’avvocato è una libera professione, come il commercialista o l’ingegnere, chi la esercita può farlo in autonomia dove e come vuole», ha detto a Pagella Politica Rinaldo Romanelli, segretario dell’Unione camere penali italiane, associazione che rappresenta gli avvocati penalisti in Italia. «Al contrario, il magistrato è un dipendente pubblico che ha vinto un concorso ministeriale, è assegnato a un tribunale e svolge lì la sua attività».

Secondo Romanelli, l’Italia è arrivata ad avere così tanti avvocati perché «molte persone sono state invogliate a intraprendere questa professione a partire dagli anni Novanta, quando con gli scandali di Tangentopoli il tema della giustizia è stato a lungo sulle prime pagine di tutti i giornali». «In più, trent’anni fa all’avvocato era associata una certa idea di autorevolezza e benessere economico che ha invogliato molti giovani a iscriversi a giurisprudenza», ha risposto Romanelli. «Adesso invece i numeri sono in netto calo, gli iscritti all’ultimo esame di Stato sono pochissimi rispetto a dieci anni fa. Questa professione è regolata dal mercato, se c’è uno squilibrio tra domanda e offerta è fisiologico che l’interesse per l’avvocatura venga meno».

Il calo degli iscritti

Pur restando impegnativo, l’esame di Stato per diventare avvocato ha criteri di selezione meno rigidi rispetto al concorso per magistrato. Questo ha favorito per molti anni l’aumento degli iscritti agli Ordini, sostenuto dall’idea che la laurea in giurisprudenza fosse spendibile anche in altri settori come la consulenza aziendale, la pubblica amministrazione o la politica. Non sorprende che tra i 31 presidenti del Consiglio dal 1946 a oggi, 16 siano laureati in materie giuridiche.

Negli ultimi dieci anni, però, le iscrizioni alle facoltà giuridiche sono diminuite di un terzo, anche perché sono nati percorsi alternativi più brevi e orientati a sbocchi lavorativi immediati. I dati del consorzio Almalaurea mostrano che il 57 per cento dei laureati magistrali in giurisprudenza trova lavoro a un anno dal titolo, con una retribuzione media di 1.140 euro. Al contrario, i laureati triennali in scienze giuridiche hanno un tasso di occupazione superiore all’85 per cento e guadagnano in media 1.675 euro, soprattutto in ruoli tecnici o amministrativi.

L’eccesso di aspiranti avvocati rispetto alla capacità di assorbimento del mercato ha così prodotto una proliferazione di professionisti con redditi bassi. Secondo il “Rapporto annuale sull’avvocatura 2025” della Cassa Forense e del Censis, nel 2023 il reddito medio degli avvocati tra i 30 e i 34 anni è stato di circa 22 mila euro, meno di un terzo del reddito di un avvocato tra i 60 e i 64 anni. 

Questo quadro non solo ha ridotto l’attrattività dell’avvocatura, ma ha inciso anche sul percorso verso la magistratura, che richiede studi ancora più lunghi e specialistici.

Un rapporto complicato

In questo contesto si pone anche la questione delle relazioni tra avvocati e magistrati. Gli avvocati più esperti sarebbero interessati a entrare in magistratura? Secondo Romanelli, «assolutamente no». «Per un professionista affermato fare il concorso significherebbe rifare tutto da capo, studiare e rapportarsi con giovani oggettivamente alle proprie armi, sperando di vincere il concorso e diventare magistrato tirocinante, con prospettive e stipendio di un trentenne, quando magari si hanno 30 anni di carriera», ha detto il segretario dell’Unione camere penali italiane.

Per Romanelli il concorso da magistrato dovrebbe «riservare dei posti in magistratura a professionisti come avvocati esperti o funzionari pubblici». «Non è una nostra invenzione», ha precisato. «Si chiama “reclutamento laterale” e accade già in diversi Paesi: così facendo questi professionisti diventerebbero magistrati senza partire dal tirocinio e sarebbero invogliati a passare alla magistratura». 

Va detto che il rapporto tra le due categorie – avvocati e magistrati – è spesso conflittuale, anche per le funzioni opposte che svolgono nei processi. «Per me la magistratura è un corpo burocratico chiuso, una vera e propria corporazione impermeabile da quello che accade fuori da essa», ha aggiunto Romanelli. «Oggi i magistrati sono giovani bravi e preparati, che si chiudono in una stanza a studiare come matti e poi dopo aver vinto un concorso vanno a giudicare le altre persone».

Stefano Celli, vicesegretario dell’Associazione nazionale magistrati (ANM), difende invece la selettività del concorso, necessaria per funzioni così delicate. «Fare il magistrato è un lavoro complicato: è giusto che il concorso sia molto selettivo, perché la funzione che svolgiamo è delicata ed è bene che la selezione sia rigorosa», ha detto Celli a Pagella Politica

Per quanto riguarda l’inserimento di avvocati in magistratura, il vicesegretario dell’ANM ha spiegato che «è già così», riferendosi ai magistrati onorari, ossia a quei magistrati che collaborano con gli uffici giudiziari per periodi limitati, spesso provenendo proprio dall’avvocatura e affiancando i colleghi di ruolo nelle attività quotidiane. 

«Noi abbiamo un numero di magistrati “onorari”, che nella massima parte sono avvocati che esercitano la professione – non nello stesso foro in cui fanno gli avvocati – e fanno le stesse identiche cose dei colleghi ordinari», ha aggiunto Celli. «Poi se mi dicono mettiamone di più mettiamone di più, però allora bisogna valutare bene le competenze di queste persone». 

Secondo Romanelli, invece, la magistratura onoraria «non è la soluzione», perché «serve solo a fare cose di cui nessuno vuole occuparsi, quelle scartoffie senza cui il sistema civile e quello penale sarebbero al collasso. I magistrati onorari sono persone sfruttate dal sistema».

Insomma, lo scontro tra visioni diverse mostra come la distanza numerica tra avvocati e magistrati si traduca anche in una distanza culturale e professionale, la cui gestione è cruciale per qualsiasi tentativo di riforma.

Colmare il divario

Nel corso degli anni, i governi hanno cercato di intervenire per ripianare il divario italiano tra avvocati e magistrati, senza però riuscirci del tutto.

Da un lato sono aumentati i bandi per il concorso in magistratura, come quello del 22 ottobre scorso, che prevede l’assunzione di 450 nuovi magistrati ordinari. Dall’altro lato, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) ha introdotto strumenti per alleggerire il lavoro dei giudici, tra cui la digitalizzazione degli atti e l’assunzione di figure intermediarie come gli addetti all’ufficio del processo, che hanno il compito di aiutare e coadiuvare il giudice nell’esercizio delle sue funzioni.

Secondo Celli, questi addetti «stanno aiutando molto i giudici nel loro lavoro, ma le assunzioni sono a tempo determinato e non è chiaro cosa succederà a questi professionisti dopo la fine del PNRR». «Alcuni addetti che conosco personalmente, persone preparate, sono andate via perché hanno trovato posti a tempo indeterminato in altri ambiti, all’INPS o all’Agenzia delle Entrate», ha aggiunto il magistrato. «E così perdiamo personale valido e che si era formato in questi anni». 

La digitalizzazione, inoltre, procede con difficoltà. «Il nuovo sistema informatico dei processi su cui stiamo lavorando è ancora farraginoso, spesso si blocca o subisce rallentamenti. Diciamo che, per ora, non sta portando quella semplificazione che era stata promessa», ha ammesso Celli.

Al netto delle possibili soluzioni “di contorno”, secondo il vicesegretario dell’ANM le soluzioni alla carenza di magistrati restano due. «O si aumenta il numero di giudici e pubblici ministeri, assumendo nuovi magistrati, cancellieri, segretari, addetti all’ufficio», investendo più soldi sulla giustizia, «oppure si lavora per diminuire le cause: ma vista la quantità di nuovi reati introdotti dal governo in questi tre anni, non mi pare sia questa la volontà politica».  

Accanto a queste strade, altri hanno suggerito che una parte della soluzione potrebbe arrivare da interventi sull’organizzazione interna degli uffici giudiziari, sulle condizioni di lavoro dei magistrati e, più in generale, sull’efficienza del sistema. Migliorare la distribuzione dei carichi, rendere più stabili le strutture di supporto, investire nella formazione e affrontare le criticità che limitano la produttività dei tribunali sono ambiti spesso citati come possibili leve di intervento. Non eliminerebbero da soli lo squilibrio tra avvocati e magistrati, ma contribuirebbero a rendere il sistema più solido mentre si cerca una risposta strutturale al problema dei numeri.
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