Un rapporto complicato
In questo contesto si pone anche la questione delle relazioni tra avvocati e magistrati. Gli avvocati più esperti sarebbero interessati a entrare in magistratura? Secondo Romanelli, «assolutamente no». «Per un professionista affermato fare il concorso significherebbe rifare tutto da capo, studiare e rapportarsi con giovani oggettivamente alle proprie armi, sperando di vincere il concorso e diventare magistrato tirocinante, con prospettive e stipendio di un trentenne, quando magari si hanno 30 anni di carriera», ha detto il segretario dell’Unione camere penali italiane.
Per Romanelli il concorso da magistrato dovrebbe «riservare dei posti in magistratura a professionisti come avvocati esperti o funzionari pubblici». «Non è una nostra invenzione», ha precisato. «Si chiama “reclutamento laterale” e accade già in diversi Paesi: così facendo questi professionisti diventerebbero magistrati senza partire dal tirocinio e sarebbero invogliati a passare alla magistratura».
Va detto che il rapporto tra le due categorie – avvocati e magistrati – è spesso conflittuale, anche per le funzioni opposte che svolgono nei processi. «Per me la magistratura è un corpo burocratico chiuso, una vera e propria corporazione impermeabile da quello che accade fuori da essa», ha aggiunto Romanelli. «Oggi i magistrati sono giovani bravi e preparati, che si chiudono in una stanza a studiare come matti e poi dopo aver vinto un concorso vanno a giudicare le altre persone».
Stefano Celli, vicesegretario dell’Associazione nazionale magistrati (ANM), difende invece la selettività del concorso, necessaria per funzioni così delicate. «Fare il magistrato è un lavoro complicato: è giusto che il concorso sia molto selettivo, perché la funzione che svolgiamo è delicata ed è bene che la selezione sia rigorosa», ha detto Celli a Pagella Politica.
Per quanto riguarda l’inserimento di avvocati in magistratura, il vicesegretario dell’ANM ha spiegato che «è già così», riferendosi ai magistrati onorari, ossia a quei magistrati che collaborano con gli uffici giudiziari per periodi limitati, spesso provenendo proprio dall’avvocatura e affiancando i colleghi di ruolo nelle attività quotidiane.
«Noi abbiamo un numero di magistrati “onorari”, che nella massima parte sono avvocati che esercitano la professione – non nello stesso foro in cui fanno gli avvocati – e fanno le stesse identiche cose dei colleghi ordinari», ha aggiunto Celli. «Poi se mi dicono mettiamone di più mettiamone di più, però allora bisogna valutare bene le competenze di queste persone».
Secondo Romanelli, invece, la magistratura onoraria «non è la soluzione», perché «serve solo a fare cose di cui nessuno vuole occuparsi, quelle scartoffie senza cui il sistema civile e quello penale sarebbero al collasso. I magistrati onorari sono persone sfruttate dal sistema».
Insomma, lo scontro tra visioni diverse mostra come la distanza numerica tra avvocati e magistrati si traduca anche in una distanza culturale e professionale, la cui gestione è cruciale per qualsiasi tentativo di riforma.