Nordio si sbaglia: anche una riforma della Costituzione può violare la Costituzione

Il ministro della Giustizia ha definito «stupidaggini» le critiche contro il sorteggio dei componenti dei due nuovi CSM, ma la questione è più complessa
ANSA
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Il 3 novembre, in un’intervista con il Corriere della Sera, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha definito una «stupidaggine» l’accusa secondo cui la riforma costituzionale della giustizia, approvata il 30 settembre dal Senato, violerebbe la Costituzione. «Come fa una legge costituzionale a essere anticostituzionale? Questa è la Costituzione», ha detto Nordio.

La dichiarazione del ministro della Giustizia apre due questioni. Da un lato, una riforma costituzionale può essere incostituzionale? In breve, la risposta è sì. Dall’altro lato, la riforma della giustizia è incostituzionale? Qui la risposta cambia in base alle argomentazioni dei favorevoli e dei contrari: come sempre in questi casi, l’ultima parola spetterebbe alla Corte Costituzionale, nel caso fosse chiamata in causa. Ma procediamo con ordine.

I principi supremi della Costituzione

La Costituzione prevede un articolo specifico per stabilire come può essere modificata. L’articolo 138, infatti, definisce il procedimento di revisione della Costituzione, che è più complesso rispetto a quello delle leggi ordinarie. Questo è l’unico paletto procedurale che la Costituzione impone, nero su bianco, ai poteri di modifica del Parlamento. Dunque, tutte le altre riforme della Costituzione sono da considerarsi costituzionali?

Qui si confrontano due orientamenti. Secondo una visione “formale”, le riforme approvate con il procedimento previsto dall’articolo 138 diventano automaticamente parte integrante della Costituzione, e quindi non possono essere sottoposte al giudizio di costituzionalità da parte della Corte Costituzionale. In altre parole – secondo questa visione – qualsiasi modifica della Costituzione approvata nel rispetto delle forme previste dalla stessa Costituzione sarebbe valida e insindacabile nel merito, perché il nuovo testo della Costituzione sarebbe “la Costituzione” stessa.

Secondo una visione “materiale”, invece, anche le riforme costituzionali devono rispettare alcuni limiti, come ha stabilito la stessa Corte Costituzionale in una sentenza del 1988. Circa quarant’anni fa, i giudizi costituzionali hanno scritto che «la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali». Tra questi limiti rientra anzitutto quello fissato dall’articolo 139 della Costituzione, secondo cui «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Ma per la Corte esistono anche altri “principi supremi” che, pur non essendo esplicitamente menzionati, appartengono all’essenza dei valori fondamentali su cui si fonda la Costituzione italiana.

Tra questi principi supremi rientrano, per esempio, l’uguaglianza dei cittadini, i diritti inviolabili dell’essere umano, la separazione dei poteri e – punto centrale nel dibattito di questi mesi – l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario.

Se quindi alcuni principi supremi non possono essere modificati nel loro contenuto essenziale, neppure rispettando il procedimento previsto dall’articolo 138, la Corte Costituzionale mantiene la possibilità di intervenire anche sulle leggi di revisione. In altre parole, il fatto che una riforma sia stata approvata seguendo le regole previste per modificare la Costituzione non la mette al riparo da ogni controllo, se tocca i valori fondamentali dell’ordinamento. Diversamente – ha osservato la Corte nella sentenza del 1988 – si arriverebbe al paradosso di lasciare senza protezione proprio i principi più alti, quelli che costituiscono l’identità stessa della Costituzione.

Chiarito questo, la risposta alla domanda di Nordio – come può una legge costituzionale essere incostituzionale? – è che una legge di revisione può essere messa in discussione se viola il procedimento previsto o se contrasta in modo evidente con i principi supremi dell’ordinamento. Nella pratica, però, la Corte Costituzionale non ha mai annullato una riforma per motivi di merito legati a questi principi, limitandosi finora a riconoscerne l’esistenza in linea teorica.
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La riforma del CSM

Veniamo adesso al caso specifico di cui si sta dibattendo in questi giorni, cioè il contenuto della riforma costituzionale della giustizia, che introduce la separazione della carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Una delle novità riguarda il Consiglio superiore della magistratura (CSM), l’organo di autogoverno dei magistrati, che si occupa delle nomine, delle carriere e delle sanzioni disciplinari dei giudici e dei pubblici ministeri.

La Corte Costituzionale ha sempre riconosciuto al CSM il ruolo di garante dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Per esempio, con una sentenza del 1992, la Corte ha stabilito che il CSM gode di una posizione di piena indipendenza rispetto a ogni altro potere dello Stato quando decide su questioni che riguardano lo status dei magistrati.

Attualmente, l’articolo 104 della Costituzione prevede che il CSM sia presieduto dal presidente della Repubblica. Ne fanno parte, di diritto, anche il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Gli altri membri sono per due terzi eletti dai magistrati (i cosiddetti “togati”) e per un terzo dal Parlamento riunito in seduta comune, che sceglie tra professori ordinari di materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni di esperienza professionale (i cosiddetti “laici”).

La riforma costituzionale modifica l’articolo 104 della Costituzione: crea due CSM separati, uno per i giudici e l’altro per i pm, entrambi presieduti dal presidente della Repubblica, e modifica il metodo di elezione dei suoi componenti. 

I componenti dei due CSM non sarebbero più eletti direttamente dai magistrati e dal Parlamento, come avviene oggi, ma scelti tramite sorteggio. Un terzo verrebbe estratto da un elenco di professori ordinari di materie giuridiche e di avvocati con almeno quindici anni di esercizio, elenco che il Parlamento in seduta comune predispone attraverso una votazione. I restanti due terzi sarebbero sorteggiati tra i giudici, per il Consiglio superiore della magistratura giudicante, e tra i pm, per il Consiglio superiore della magistratura requirente, secondo modalità che saranno definite da una nuova legge ordinaria. I componenti dei CSM così individuati resterebbero in carica quattro anni e non potrebbero essere sorteggiati di nuovo nel turno successivo.

Ricapitolando: la riforma abolisce il principio dell’elezione diretta dei membri del CSM. I magistrati non sceglieranno più i propri rappresentanti e il Parlamento non designerà più direttamente i membri laici. Al loro posto subentrerà un sistema di sorteggio, basato però su liste predefinite per assicurare requisiti professionali minimi.

Se la riforma sarà confermata, sarà istituita anche una nuova Alta Corte disciplinare, esterna ai CSM, incaricata di occuparsi dei procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati e composta anch’essa, in buona parte, tramite sorteggio.

Un nuovo, vecchio dibattito

A questo punto si pone una domanda centrale: l’elezione dei componenti del CSM da parte dei magistrati, e di quelli laici da parte del Parlamento, fa parte del “nocciolo duro” dell’indipendenza della magistratura, cioè di quel principio che nemmeno una riforma costituzionale può intaccare? In altre parole, trasformare un organo di autogoverno rappresentativo in un organo composto per sorteggio incide su un principio supremo della Costituzione – l’indipendenza e l’autonomia della magistratura – rendendo quindi teoricamente incostituzionale la riforma voluta dal governo Meloni?

Il dibattito sulla costituzionalità del sorteggio non è nuovo: se ne discuteva già nel 2018, quando alcune proposte di riforma del CSM ipotizzavano un sistema misto di elezione e sorteggio per limitare il potere delle correnti, e l’Associazione nazionale magistrati lo definì incostituzionale perché avrebbe cancellato il principio rappresentativo previsto dall’articolo 104.

La posizione dei contrari

Secondo i critici della riforma, la risposta è sì. La rappresentanza prevista dall’articolo 104 della Costituzione nel suo impianto originario – i magistrati eleggono, tra loro, i membri che li governano – non è un semplice dettaglio organizzativo, ma un elemento strutturale del sistema di garanzie. È, infatti, il meccanismo che assicura che l’organo di autogoverno resti espressione del corpo giudiziario e non diventi uno strumento controllabile dall’esterno. In questa prospettiva, il principio elettivo, proprio del modello di autogoverno rappresentativo, sarebbe parte integrante delle garanzie costituzionali di indipendenza della magistratura. Per questo, l’introduzione del sorteggio – che modifica radicalmente quel modello – inciderebbe su un principio supremo, rendendo la legge di riforma in contrasto con la Costituzione.

Per i contrari alla riforma, sostituire l’elezione con l’estrazione casuale avrebbe due effetti principali. Da un lato, indebolirebbe l’autogoverno, perché i magistrati non parteciperebbero più alla scelta dei propri rappresentanti. Dall’altro, aumenterebbe in modo più sottile, ma non meno significativo, la capacità del potere politico di influire sulla composizione del CSM. Basterebbe, per esempio, restringere i criteri di accesso o il numero dei candidati nel “listino” da cui si effettua il sorteggio per orientarne l’esito verso profili più graditi alla maggioranza parlamentare del momento. 

In sintesi, per gli oppositori il voto diretto dei magistrati è una garanzia essenziale di indipendenza, perché mantiene il legame tra CSM e corpo giudiziario e limita l’ingerenza della politica. Il sorteggio, al contrario, metterebbe a rischio questo equilibrio e, di conseguenza, un principio supremo dell’ordinamento.

La posizione dei favorevoli

Su un piano opposto si collocano i sostenitori della riforma. Secondo loro, l’elezione dei componenti togati del CSM, così come prevista dall’articolo 104, non rappresenta un principio supremo intangibile, ma una delle molte possibili modalità organizzative per comporre il Consiglio. L’essenza della garanzia costituzionale – sostengono – non risiede nel metodo di selezione, ma nella posizione di indipendenza del CSM rispetto agli altri poteri dello Stato. Questa indipendenza, a loro avviso, resterebbe intatta anche dopo la riforma. «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», continua infatti a sancire l’articolo 104 della Costituzione, anche dopo la riforma.

Di conseguenza, il Parlamento avrebbe la facoltà di modificare il sistema di elezione introducendo un meccanismo di sorteggio, purché il procedimento segua le regole previste dall’articolo 138 della Costituzione e non comprometta l’autonomia del potere giudiziario. 

I sostenitori aggiungono che il sorteggio avrebbe un vantaggio ulteriore: ridurrebbe il peso delle “correnti” interne alla magistratura, limitando le dinamiche di potere, le spartizioni e le influenze che negli anni hanno segnato le elezioni per il CSM. In questo modo – a detta loro – la riforma renderebbe il Consiglio meno manipolabile e l’indipendenza interna della magistratura, cioè la libertà dei singoli magistrati rispetto alle proprie fazioni, ne uscirebbe rafforzata.

Alle critiche sul carattere casuale del sorteggio, i favorevoli rispondono che non si tratterebbe di un’estrazione “al buio”. La selezione avverrebbe infatti all’interno di elenchi di candidati già qualificati, scelti in base a criteri fissati dal Parlamento, come l’anzianità di servizio o i titoli professionali. Secondo questa lettura, questi criteri non costituirebbero un mezzo per esercitare influenza politica, ma piuttosto una garanzia di competenza e qualità dei futuri consiglieri.

In conclusione, per i sostenitori della riforma, l’obiezione di incostituzionalità si ribalta. Il sorteggio, lungi dal violare la Costituzione, potrebbe addirittura realizzarne meglio i principi, perché non solo non metterebbe in discussione l’indipendenza della magistratura, ma addirittura la rafforzerebbe. Quest’ultima resterebbe tutelata dal fatto che i componenti togati del CSM, anche se non eletti, sarebbero comunque magistrati in attività, soggetti soltanto alla legge, e che il CSM continuerebbe a esercitare in autonomia le proprie funzioni, senza interferenze da parte del governo.

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