Che cosa ha spinto l’aumento dell’occupazione in Italia

Lo ha spiegato un nuovo studio della Banca d’Italia, individuando fattori temporanei e tendenze più strutturali
AFP
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Il 16 settembre la Banca d’Italia ha pubblicato uno studio che individua alcuni dei fattori dietro all’aumento dell’occupazione registrato nel nostro Paese tra il 2019 e il 2024. In questo periodo, il numero di occupati in Italia è cresciuto di quasi il 5 per cento, una percentuale comunque in linea con quella media dei Paesi dell’area euro. 

Due spinte temporanee

Secondo i ricercatori della Banca d’Italia, a pesare sono stati innanzitutto due fattori temporanei. 

Il primo è stato il forte aumento dei costi dei beni intermedi e del capitale. Con “beni intermedi” si intendono i materiali e i prodotti che le imprese acquistano per poter produrre i loro beni o servizi finali, come per esempio l’energia, i componenti meccanici o le materie prime. Con “capitale” si indicano invece i macchinari, gli impianti e in generale gli strumenti utilizzati nella produzione. Dal 2021, l’aumento dei loro costi ha spinto molte imprese a fare un uso relativamente minore di capitale e più di lavoro, assumendo più persone. Questa dinamica ha favorito l’occupazione, ma allo stesso tempo ha ridotto la produttività oraria. 

Secondo la Banca d’Italia, con la discesa dell’inflazione e una politica monetaria meno restrittiva – cioè con tassi di interesse più bassi e condizioni di credito più favorevoli – questo fenomeno «dovrebbe gradualmente arrestarsi». Nella crescita dell’occupazione ha avuto un ruolo anche il calo dei salari reali, cioè del potere d’acquisto delle retribuzioni, che ha reso per le imprese meno costoso assumere personale. 

Il secondo fattore temporaneo è stato l’andamento particolarmente favorevole di alcuni settori, in primo luogo le costruzioni, che hanno beneficiato di incentivi pubblici e hanno contribuito in modo rilevante alla crescita complessiva degli occupati. Anche i servizi pubblici hanno avuto un ruolo importante, soprattutto grazie alle nuove assunzioni nella sanità e nell’istruzione dopo la pandemia. Insieme, costruzioni e servizi pubblici hanno spiegato circa metà dell’aumento dell’occupazione registrato tra il 2019 e il 2024.
L’andamento del numero di occupati, diviso per settori. A 100 è posto il valore del 2014.
L’andamento del numero di occupati, diviso per settori. A 100 è posto il valore del 2014.

I settori che trainano la crescita

Accanto a questi elementi di carattere transitorio, lo studio della Banca d’Italia ha sottolineato tendenze più strutturali. In particolare, sull’aumento dell’occupazione hanno inciso in modo positivo i comparti tecnologici e dei servizi avanzati, come l’informazione e la comunicazione, e le attività professionali, scientifiche e tecniche, che da soli hanno spiegato circa un quarto della crescita occupazionale del quinquennio considerato. 

La domanda di lavoratori con competenze specializzate è aumentata sensibilmente: tra il 2019 e il 2023 gli specialisti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono cresciuti di oltre 150 mila unità, contribuendo in misura rilevante all’espansione dell’occupazione, e anche figure professionali in ambito ingegneristico, legale e gestionale hanno registrato un incremento consistente. 

Hanno dato un contributo positivo, seppur più contenuto, pure settori più tradizionali come l’industria alimentare, la meccanica, il commercio e il turismo, che hanno ritrovato i livelli occupazionali pre-pandemia solo negli ultimi anni. Nel complesso, si sono inoltre rafforzate due dinamiche di fondo: l’aumento della quota di lavoro dipendente sul totale degli occupati e la riduzione del lavoro irregolare, particolarmente marcata tra il 2019 e il 2021.
L’andamento del numero degli occupati suddiviso per posizione e tipo. A 100 è posto il valore del 2015.
L’andamento del numero degli occupati suddiviso per posizione e tipo. A 100 è posto il valore del 2015.
«Più in generale, e al di là delle classificazioni settoriali, è aumentata sensibilmente in tutta l’economia la domanda di lavoratori specializzati in queste attività più tecnologiche e professionali», hanno scritto i ricercatori. 

Un ulteriore elemento che ha contribuito alla crescita dell’occupazione è stato l’aumento della partecipazione delle fasce di età più anziane. Questo fenomeno, legato alle riforme pensionistiche introdotte negli ultimi decenni, ha spinto un numero crescente di over 55 a restare attivi nel mercato del lavoro. La loro presenza, concentrata in larga parte in contratti a tempo indeterminato, rappresenta un fattore di stabilità: infatti – hanno scritto i ricercatori – «tende a sostenere l’andamento dell’occupazione» quando l’economia rallenta e vengono meno gli impulsi temporanei che avevano favorito l’aumento degli occupati, come si è visto nella parte finale del 2024.

Salari, imprese e nuove sfide

Oltre a questi aspetti, lo studio della Banca d’Italia ha dedicato attenzione al ruolo delle imprese e alle loro politiche retributive. Secondo i dati più aggiornati, le aziende che pagano salari più alti non hanno assunto più delle altre, ma si sono distinte per una maggiore stabilità della forza lavoro, con meno ricorso a contratti temporanei, e per investimenti più consistenti in rapporto ai dipendenti, a sostegno della produttività futura. 

Negli stessi anni, però, le differenze salariali tra imprese si sono allargate: in molte aziende i salari reali sono rimasti fermi o sono diminuiti, mentre in altre – spesso più produttive o attive nei settori tecnologici – hanno continuato a crescere. Il risultato è che il divario tra i lavoratori, in termini di stipendio, è diventato più ampio rispetto al passato.

Queste imprese si concentrano soprattutto nei comparti tecnologici e nei servizi professionali e scientifici, e sono spesso quelle che adottano nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale. In questi casi l’uso dell’intelligenza artificiale – hanno sottolineato i ricercatori della Banca d’Italia – non ha ridotto l’occupazione, ma si è accompagnato a una crescita delle professioni più qualificate, suggerendo un rapporto di «complementarità» piuttosto che di sostituzione. Nelle aziende che non usano queste innovazioni, invece, l’aumento dei posti di lavoro ha riguardato soprattutto le mansioni manuali, meno esposte ai cambiamenti tecnologici.

La rapida crescita dell’occupazione, insieme alla riduzione della popolazione in età lavorativa, ha reso più difficile per molte imprese trovare nuovo personale. Tra il 2019 e il 2024 il numero di lavoratori disponibili è diminuito di circa 700 mila unità e, nello stesso periodo, è aumentata la quota di aziende che indicano la scarsità di forza lavoro come un ostacolo alla crescita. Le difficoltà sono particolarmente evidenti nelle costruzioni, spinte dagli incentivi pubblici, e nei comparti più tecnologici, come i servizi di informazione e comunicazione, dove la domanda di addetti specializzati è cresciuta più rapidamente dell’offerta.

Un fattore che pesa in Italia è il numero ridotto di laureati nelle discipline scientifiche e tecnologiche: a parità di specialisti in questo settore già presenti sul mercato del lavoro, il flusso di nuovi laureati resta inferiore a quello di altri Paesi europei, soprattutto per i corsi di laurea triennale.

Le difficoltà di reperimento dipendono in parte da un disallineamento geografico: spesso la domanda e l’offerta di lavoro non si trovano nelle stesse aree del Paese. Un aiuto potrebbe arrivare dalla diffusione del lavoro da remoto. Durante la pandemia il telelavoro si è diffuso rapidamente e, dopo la fine delle restrizioni, è rimasto più frequente rispetto al periodo pre-pandemico. Questa modalità di lavoro ha due potenziali effetti positivi: consente alle imprese di ampliare i bacini di reclutamento oltre il territorio locale e può favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, tradizionalmente più bassa in Italia. Negli ultimi anni, infatti, la quota di lavoratrici che svolgono almeno in parte la loro attività da remoto è aumentata più di quella degli uomini e si è accresciuta anche la percentuale di donne che lavorano fuori dalla provincia di residenza, segnale di una maggiore mobilità resa possibile da modalità di lavoro più flessibili.

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