Perché l’Italia non sa spendere i fondi europei

Ansa
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Il 12 novembre l’europarlamentare di Forza Italia Massimiliano Salini ha scritto su Facebook che, in base ai dati della Corte dei Conti Ue, l’Italia nel 2019 ha «assorbito» – ovvero speso – il 30 per cento dei fondi europei, contro una media del 40 per cento nel resto dell’Unione. Secondo Salini, si tratterebbe di un «problema cronico del nostro Paese, dall’amministrazione ingessata e pachidermica». È un tema ricorrente negli ultimi mesi, spesso legato agli oltre 200 miliardi che l’Italia dovrebbe ricevere dal piano Next Generation Ue.

Abbiamo verificato e le cifre fornite da Salini, relative al 2019, sono corrette. Ma perché è così difficile spendere i fondi europei? In estrema sintesi, si può dire che sia un problema in parte causato dalla burocrazia europea, in parte dalla burocrazia italiana. Andiamo con ordine, a partire dai dati.

Il rapporto della Corte dei conti europea

La Corte dei Conti europea è un revisore esterno e indipendente dei conti dell’Unione Europea. Come spiega il sito ufficiale, la Corte «effettua una revisione contabile delle entrate e delle uscite dell’Ue per controllare che i fondi Ue siano raccolti e spesi correttamente, usati in modo ottimale e debitamente contabilizzati».

Il 10 novembre la Corte dei Conti Ue ha pubblicato la sua relazione annuale sull’esercizio finanziario 2019, sottolineando già dal comunicato stampa un «giudizio negativo sulla spesa». Anche quest’anno, scrivono i controllori della Corte Ue, «l’assorbimento dei Fondi strutturali e d’investimento europei (fondi Sie) da parte degli Stati membri continua ad essere più lento del previsto».

Nella tabella del rapporto sull’assorbimento dei fondi Ue, infatti, a fine 2019 era stato erogato in media solo il 40 per cento dei finanziamenti Ue stabiliti per il periodo 2014-2020 (il bilancio Ue copre un periodo di sette anni). Si tratta di 264 miliardi sui 640 previsti. La percentuale è molto più bassa del tasso medio di assorbimento del 2012 – il penultimo anno per il bilancio precedente 2007-2013 – quando la cifra aveva già raggiunto il 46 per cento.

Ancora più bassa è la percentuale italiana, al 30,7 per cento. Di nuovo: si tratta dei pagamenti già effettuati dall’Unione europea. Rispetto agli altri Paesi europei, l’Italia è quindi la penultima per utilizzo dei finanziamenti, di poco sopra alla Croazia, ferma al 30 per cento. Il budget totale per l’Italia negli anni dal 2014 al 2020 è di 72 miliardi: in altri termini, fino al 2019, ne sono stati spesi e pagati dall’Unione europea poco meno di 22 e ne rimanevano circa 50.

I dati citati da Salini sono quindi entrambi corretti, anche se, come vedremo, la situazione ha avuto un’evoluzione nel 2020. Facciamo però un passo indietro e cerchiamo di capire meglio cosa sono questi fondi e perché in Italia – ma anche nel resto d’Europa – non sono stati spesi più velocemente.

Di che fondi stiamo parlando?

Il rapporto della Corte dei Conti si riferisce a quelli che vengono definiti fondi Sie, ossia i Fondi strutturali di investimento europei.

Questi fondi si concentrano su cinque settori: ricerca e innovazione, tecnologie digitali, sostenere l’economia a basse emissioni di carbonio, gestione sostenibile delle risorse naturali e piccole imprese.

Vengono gestiti attraverso «accordi di partenariato». Ogni paese prepara un documento, in collaborazione con la Commissione europea, in cui illustra in che modo i fondi saranno utilizzati durante il periodo di finanziamento, di sette anni in sette anni, attraverso una serie programmi di investimento, ossia iniziative che possono riguardare tutto il territorio nazionale o singole regioni.

In Italia, i programmi operativi per il 2014-2020 sono 51, di cui 39 per programmi regionali e 12 per programmi nazionali. Per fare qualche esempio concreto, i programmi possono essere dedicati ad ambiti quali la sostenibilità energetica, la prevenzione del rischio idrogeologico, interventi per lo sviluppo rurale e agricolo, l’istruzione, il rafforzamento della pubblica amministrazione e tanti altri ancora.

Perché i fondi Ue sono così lenti

Per quanto il dato italiano sia fra i più bassi, come abbiamo visto, il nostro Paese è in buona compagnia.

La Corte dei Conti Ue ha certificato infatti una generale lentezza nell’utilizzo dei fondi europei da parte degli Stati membri. Perché questo avviene? Stando agli esperti, ciò è in parte dovuto proprio alla burocrazia europea.

«La programmazione 2014-2020 è stata appesantita, rispetto ai precedenti periodi, rendendo più complicate le procedure di designazione delle autorità che gestiscono i fondi europei», ha spiegato a Pagella Politica Mauro Cappello, professore dell’Università della Tuscia e autore del libro Guida ai fondi strutturali europei 2014-2020. Le “autorità di gestione” sono gli enti pubblici nazionali, regionali o locali oppure organismi pubblici e privati scelti dall’amministrazione nazionale per gestire il programma operativo. In Italia si tratta per lo più di ministeri, dipartimenti e Regioni.

A questa, va aggiunta un’altra lentezza burocratica. La relazione 2019 della Corte Ue ha attribuito il ritardo «all’avvio tardivo dei programmi di spesa e al tempo supplementare concesso per la dichiarazione dei costi (regola “n+3”)». Cerchiamo di capire che cosa significa. Secondo la regola “n+3”, gli Stati membri hanno tre anni per utilizzare i fondi impegnati (“prenotati”) e per dichiarare i costi sostenuti alla Commissione e ottenere il rimborso. Secondo Cappello, «un errore di valutazione è stato commesso, in sede europea» proprio «quando si è pensato di allungare questo periodo per la certificazione delle spese da 2 a 3 anni» determinando «una sorta di “indolenza” nelle amministrazioni».

Questi due aspetti combinati hanno causato un forte rallentamento della spesa dei fondi strutturali in tutta la zona Ue, rispetto al precedente ciclo di programmazione (2007-2013). Come si nota dalla tabella del rapporto delle Corte dei Conti Ue, la maggior parte degli Stati membri aveva utilizzato una maggiore quantità di fondi nel 2012 e il tasso di assorbimento era mediamente del 46,4 per cento (mentre, abbiamo già visto, nel 2019 si è attestato al 39,6 per cento).

Il caso italiano

La complessità delle procedure europee non è comunque sufficiente a spiegare il dato italiano sull’utilizzo dei fondi Ue, il peggiore nel 2019 insieme a quello croato. L’Italia, negli anni, ha accumulato una serie di ritardi già «a cominciare dalla prima tappa procedurale, l’accordo di partenariato, che ha ottenuto l’approvazione da parte di Bruxelles solo ad ottobre 2014, perdendo così tutto il primo anno di programmazione», ha spiegato a Pagella Politica Cappello.

Da quel momento, come abbiamo già sottolineato, molto tempo ha richiesto la designazione delle autorità di gestione, «concluso solo nel 2018», ha aggiunto Cappello.

Un’altra parte di responsabilità va attribuita alle Regioni, spesso destinatarie dirette dei finanziamenti europei. A Pagella Politica Cappello ha fatto l’esempio della Sicilia che «dispone di ben 4,5 miliardi di euro sul Fondo europeo di sviluppo regionale» ma nel 2017 aveva un livello di spesa ancora pari a zero, come si vede dal grafico della Commissione Europea dedicato all’utilizzo dei Fondi di investimento e sviluppo (Grafico 1).
Grafico 1: Utilizzo del Fondo europeo di sviluppo regionale in Sicilia - Fonte: Commissione europea
Grafico 1: Utilizzo del Fondo europeo di sviluppo regionale in Sicilia - Fonte: Commissione europea
Le difficoltà delle Regioni venivano segnalate anche nel 2012 dal Position Paper della Commissione europea sulla preparazione dell’accordo di partenariato e dei programmi in Italia per il periodo 2014-2020, un documento di raccomandazioni su come impiegare al meglio i fondi europei.

Rispetto al precedente ciclo di bilancio (2007-2013), l’analisi ha evidenziato che le amministrazioni regionali «hanno sperimentato serie difficoltà nell’utilizzo del volume di risorse loro assegnate e non si sono rivelate dotate di capacità progettuali e attuative all’altezza dei compiti richiesti per gestire l’assistenza Ue in maniera efficace». Nello specifico, «i programmi delle Regioni meno sviluppate (Campania, Calabria e Sicilia) sono proprio quelli che hanno registrato i massimi ritardi in termini di attuazione e i principali problemi in termini di capacità».

Non si tratta solo delle regioni, tuttavia. L’Italia soffre di alcune criticità di sistema. Secondo Cappello, il Paese è rallentato da «una normativa sugli appalti pubblici farraginosa ed ottocentesca» e bisognerebbe «potenziare e formare il personale delle pubbliche amministrazioni con continuità». Anche questi sono due punti citati nel Position Paper, in cui si legge che «in Italia la capacità istituzionale-amministrativa è caratterizzata da debolezze profondamente radicate».

Ricapitolando: le motivazioni per cui al 2019 l’Italia aveva assorbito solo il 30 per cento dei fondi europei sono varie e intrecciate fra di loro: l’accordo di partenariato con l’Ue – alla base della distribuzione dei fondi – è stato approvato solo nel 2014, perdendo il primo anno di programmazione; le autorità chiamate a gestire i fondi (ministeri, regioni, enti locali) sono state designate e confermate solo nel 2018; le regioni, destinatarie di una fetta significativa dei fondi, spesso non hanno le strutture e le competenze necessarie alla stesura dei programmi operativi. Da ultimo aspetti di malfunzionamento cronico del Paese, legati a una pubblica amministrazione da rinnovare e una complicata normativa sugli appalti.

Verso il Next Generation Ue

«Rispetto ai dati riportati nella Relazione annuale della Corte dei Conti europea, riferiti a dicembre 2019 – ha spiegato a Pagella Politica Cappello – oggi la spesa è salita al 40 per cento per effetto della riprogrammazione attuata dal ministro per la Coesione Giuseppe Provenzano, che ha sfruttato a pieno la flessibilità introdotta dalla presidente Von Der Leyen con il pacchetto legislativo denominato Coronavirus response initiative investment». La percentuale è visibile nel grafico della Commissione europea dedicato ai Fondi strutturali e di investimento (Grafico 2). Nel 2020, in Italia risultano spesi circa 29 miliardi dei 72 programmati, ovvero circa il 40 per cento. Il salto in avanti è dovuto all’operazione – coordinata dal ministro per il Sud Provenzano – che ha permesso di riprogrammare 10,4 miliardi di fondi strutturali europei per impiegarli nel 2020 a supporto della crisi economica e sanitaria.
Grafico 2: Utilizzo del Fondi strutturali di investimento Ue in Italia - Fonte: Commissione europea
Grafico 2: Utilizzo del Fondi strutturali di investimento Ue in Italia - Fonte: Commissione europea
Cappello ha messo però in allerta sul quadro complesso della situazione italiana nei prossimi mesi. «Restano ancora da spendere ben 42 miliardi di euro di fondi per la Coesione ai quali vanno aggiunte le risorse che arriveranno dal fondo Next Generation Eu, pari a 209 miliardi di euro», ha sottolineato a Pagella Politica. «A ciò si aggiunga che dal 1 gennaio 2021 partirà il periodo di ammissibilità della spesa delle risorse per la coesione del periodo 2021-2027», ossia l’Italia dovrà presentare le proprie proposte relative al prossimo bilancio europeo, anche questo di sette anni. Inoltre, gli Stati hanno tempo fino al 2023 per raggiungere gli obiettivi dei propri programmi di spesa.

«Quindi – ha sottolineato Cappello – fino al 2023, si sovrapporranno risorse europee appartenenti a tre differenti regimi di spesa: coesione 2014-2020; Next Generation Eu ed infine coesione 2021-2027».

Che cosa succederebbe se l’Italia non riuscisse a spendere entro il 2023 i 42 miliardi rimanenti di fondi strutturali del bilancio 2014-2020? «Le regole europee prevedono che la parte di risorse impegnate ma non spese entro i tempi stabiliti siano automaticamente disimpegnate, ovvero tolte dalla disponibilità delle amministrazioni titolari», ha concluso Cappello. In altri termini, i soldi sarebbero persi.

In conclusione

Nel 2019, in media gli Stati europei hanno assorbito solo il 40 per cento dei fondi strutturali di investimento previsti dal bilancio comunitario per il 2014-2020. L’Italia, insieme alla Croazia, è il Paese più in ritardo nell’utilizzo dei finanziamenti europei fermo, nel 2019, al 30 per cento. Lo ha certificato nella sua relazione annuale 2019 la Corte dei Conti Ue, un revisore esterno incaricato di supervisionare l’utilizzo delle risorse finanziarie europee.

Secondo la Corte, tutti i Paesi europei stanno assorbendo i fondi più lentamente di quanto avvenisse nel precedente ciclo di bilancio (sempre di sette anni, dal 2007 al 2013). Parte del ritardo è da attribuire alla complessità della burocrazia europea. Secondo il professor Mauro Cappello dell’Università della Tuscia e autore del libro Guida ai fondi strutturali europei 2014-2020, rispetto al passato, sono state rese più complicate le procedure di designazione delle autorità che gestiscono i fondi europei in ogni Paese. A ciò va aggiunta una regola che lascia alle amministrazioni tre anni per utilizzare i fondi impegnati e per dichiarare i costi sostenuti alla Commissione e ottenere il rimborso.

Guardando nello specifico il caso italiano, l’Italia al 2019 aveva assorbito solo il 30 per cento dei fondi europei per più ragioni: l’accordo di partenariato con l’Ue – alla base delle distribuzione dei fondi – è stato approvato solo nel 2014, perdendo il primo anno di programmazione; le autorità chiamate a gestire i fondi (ministeri, regioni, enti locali) sono state designate e confermate solo nel 2018; le regioni, destinatarie di una fetta significativa dei fondi, spesso non hanno le strutture e le competenze necessarie alla stesura dei programmi operativi. Un quadro aggravato da alcuni problemi cronici del Paese, legati a una pubblica amministrazione da rinnovare e una complicata normativa sugli appalti.

Nel 2020 si è registrato un positivo cambio di passo. Ad oggi, la spesa dei finanziamenti europei è salita al 40 per cento. Questo si deve in gran parte alla riprogrammazione di una parte dei fondi per dirottarli sull’emergenza sanitaria ed economica, nell’ambito del progetto Coronavirus response initiative investment.

L’Italia si prepara ad affrontare una sfida complessa. Fino al 2023 dovrà infatti gestire risorse europee appartenenti a tre differenti regimi di spesa: il bilancio 2014-2020, i 205 miliardi di Next Generation Eu e il bilancio dei prossimi sette anni, 2021-2027.

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