Meloni non la dice tutta sullo sciopero generale e sul taglio delle tasse

Sostiene che il governo abbia accolto una proposta della CGIL sulla detassazione dei rinnovi contrattuali, ma non è proprio così
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a sostegno del candidato alla Presidenza della Puglia Luigi Lobuono, in vista delle Regionali, 10 novembre 2025.  ANSA / FILIPPO ATTILI / US PALAZZO CHIGI +++ NPK +++
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a sostegno del candidato alla Presidenza della Puglia Luigi Lobuono, in vista delle Regionali, 10 novembre 2025. ANSA / FILIPPO ATTILI / US PALAZZO CHIGI +++ NPK +++
Il 10 novembre, durante un evento a Bari in vista delle elezioni regionali in Puglia, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha criticato il sindacato CGIL per aver programmato uno sciopero generale il 12 dicembre, nonostante il governo abbia accolto una sua proposta per abbassare le tasse.

«Siamo intervenuti in favore dei lavoratori con redditi bassi, abbattendo al 5 per cento la tassazione sugli incrementi retributivi legati ai rinnovi dei contratti», ha detto Meloni. «Pensate, una misura che ci chiedevano i sindacati, una misura che ci chiedeva la CGIL. Come ha risposto la CGIL? Con lo sciopero generale».

È vero che il governo ha ripreso un’idea avanzata dai sindacati, ma la misura approvata è molto più limitata: è parziale, temporanea e riguarda solo una parte dei lavoratori. Non coincide quindi con la richiesta più ampia della CGIL di detassare gli aumenti contrattuali per tutti.

Che cosa ha fatto il governo

Nel disegno di Bilancio per il 2026, ora all’esame del Senato, il governo ha proposto l’introduzione di un’imposta sostitutiva del 5 per cento sugli aumenti di stipendio previsti dai nuovi contratti collettivi nel settore privato, firmati nel 2025 e nel 2026. L’agevolazione vale solo per chi ha un reddito da lavoro dipendente fino a 28 mila euro l’anno e può essere rifiutata dal lavoratore, che in tal caso continuerà a pagare le tasse ordinarie.

Secondo la relazione tecnica che accompagna il disegno di legge, la misura costerà 420 milioni di euro nel 2026 e poco meno di 60 milioni nel 2027, con un lieve recupero di gettito negli anni successivi.

Per il settore pubblico, invece, il disegno di legge di Bilancio prevede un’imposta sostitutiva del 15 per cento sul cosiddetto “trattamento economico accessorio”, cioè le indennità e le voci aggiuntive dello stipendio fino a un massimo di 800 euro. Anche qui c’è un limite di reddito, più alto: 50 mila euro. Restano esclusi i dirigenti e il personale delle forze armate e di polizia che già usufruiscono di altri regimi agevolati.

L’effetto sui conti pubblici è stimato in circa 360 milioni di euro nel 2026.

Che cosa chiedeva la CGIL

Nei giorni precedenti alla presentazione della legge di Bilancio per il 2026, la CGIL aveva rinnovato una richiesta fatta da tempo, cioè di detassare gli incrementi salariali dei lavoratori sia pubblici sia privati dovuti al rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL).

La stessa proposta era già stata fatta allo sciopero generale del 29 novembre 2024 e a quello del 16 dicembre 2022, e torna anche tra le rivendicazioni dello sciopero del 12 dicembre 2025, che punta più in generale a ottenere rinnovi contrattuali, più risorse per il pubblico impiego, misure contro la precarietà e una riforma delle pensioni più equa.

La richiesta della CGIL, però, non è stata accolta nei termini indicati dal sindacato, a differenza di quanto lasciato intendere da Meloni a Bari. La misura per il settore privato riguarda solo chi ha rinnovato il contratto nel 2025 o nel 2026 – quindi i rinnovi precedenti sono esclusi – e guadagna fino a 28 mila euro l’anno. Per il settore pubblico, invece, la detassazione non riguarda gli aumenti dei contratti nazionali, ma soltanto alcune voci dello stipendio. 

In questo modo, l’intervento del governo resta parziale e non risponde alla richiesta più ampia della CGIL di una detassazione generalizzata degli aumenti contrattuali per tutti i lavoratori, pubblici e privati.
Pagella Politica

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Che cosa non funziona

In un’audizione in Senato sulla manovra finanziaria, l’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) – un organismo indipendente che vigila sui conti pubblici – ha elencato alcuni problemi della misura proposta dal governo per detassare gli aumenti dovuti ai rinnovi contrattuali. 

Innanzitutto, la norma ha un carattere temporaneo: vale solo per gli incrementi del 2026 e non ha effetti strutturali. Dal 2027 gli aumenti retributivi tornerebbero infatti a essere tassati con le aliquote ordinarie, quindi il beneficio fiscale si esaurirebbe rapidamente. Più che una riduzione stabile del prelievo, la misura rinvia semplicemente a un anno successivo la tassazione piena.

L’UPB ha poi segnalato problemi di equità. La detassazione vale solo per chi lavora nel settore privato e ha il contratto rinnovato nel biennio 2025-2026, escludendo altri lavoratori in condizioni simili ma con contratti scaduti in periodi diversi. Anche tra i dipendenti pubblici si creano differenze, perché solo le voci accessorie della retribuzione – e non gli aumenti contrattuali veri e propri – beneficiano di un trattamento fiscale più favorevole.

Inoltre, la soglia di reddito fissata a 28 mila euro introduce un’ulteriore distinzione rigida, con effetti diseguali tra lavoratori che si trovano in situazioni economiche molto vicine. Tutti questi limiti – ha sottolineato  l’UPB – mettono in dubbio la coerenza della misura con i principi di equità e semplicità del sistema fiscale e la rendono di difficile riproposizione negli anni successivi.

Infine, l’UPB ha stimato che i beneficiari effettivi saranno circa 2,1 milioni di lavoratori, su una platea potenziale di 4,7 milioni di dipendenti del settore privato interessati dai rinnovi contrattuali, con un vantaggio medio di poco più di 200 euro all’anno.

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