È vero che la legge di Bilancio penalizza i lavoratori sottopagati?

Lo ha scritto Giuseppe Conte, parlando di una «norma vergognosa» contenuta in un emendamento (poi eliminato). Facciamo un po’ di chiarezza
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
Il 22 dicembre il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte ha accusato il governo e i partiti della maggioranza di aver «infilato» nella nuova legge di Bilancio «una norma vergognosa che calpesta e penalizza i lavoratori sottopagati». «Con questa decisione di Meloni e soci, un lavoratore non può più avere gli arretrati, anche se un giudice stabilisce che ne ha diritto perché il suo stipendio è troppo basso e viola l’articolo 36 della Costituzione», ha scritto Conte su Facebook.

Per capire se questa accusa è corretta bisogna chiarire di quale norma si parla e, soprattutto, che cosa cambia davvero quando un giudice ritiene che il salario minimo previsto da un contratto collettivo sia troppo basso rispetto ai principi contenuti nell’articolo 36 della Costituzione. Quest’ultimo, infatti, stabilisce al primo comma che «il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

L’emendamento contestato

Durante l’esame in Commissione Bilancio del Senato, è stato approvato un emendamento al disegno di legge di Bilancio per il 2026 che introduce «disposizioni in materia di disapplicazione in sede giudiziale di contratti collettivi di lavoro». Nella serata di lunedì 22 dicembre – alcune ore dopo il post di Conte sui social – questa modifica è stata però tolta dalla legge di Bilancio e quindi non entrerà in vigore. Secondo diverse ricostruzioni della stampa, su questo emendamento, e su altri punti ritenuti particolarmente critici, sarebbe intervenuto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Nel merito, la norma si occupava di un caso specifico: quello in cui, nel corso di una causa di lavoro, un giudice decide di disapplicare le previsioni di un contratto collettivo perché il trattamento economico minimo è inequivocabilmente non conforme ai principi dell’articolo 36, primo comma, della Costituzione, cioè perché è ritenuto chiaramente insufficiente.

Come spiega un dossier del Parlamento, su questo punto esiste già un orientamento consolidato della Corte di cassazione. Anche se un contratto collettivo è firmato da organizzazioni sindacali molto rappresentative, il giudice può disapplicarlo se il minimo salariale previsto è chiaramente incompatibile con l’articolo 36. In questi casi, per rideterminare il trattamento economico, il giudice può fare riferimento, se possibile, a un diverso contratto collettivo, anche di un settore affine o comunque relativo a mansioni analoghe.

Che cosa sarebbe cambiato sugli arretrati

Il punto centrale dell’intervento non riguardava la possibilità per il giudice di disapplicare un contratto collettivo, che sarebbe rimasta invariata. La novità avrebbe riguardato le conseguenze economiche per il passato.

L’emendamento prevedeva che, a determinate condizioni, non fossero dovute le differenze retributive o contributive per il periodo precedente a quando il lavoratore presenta il ricorso al giudice. In altre parole, se il giudice avesse rideterminato il salario perché quello previsto dal contratto era troppo basso, la norma avrebbe impedito che scattassero automaticamente differenze arretrate per i periodi anteriori all’avvio della causa.

Questa regola avrebbe operato anche se la disapplicazione del contratto collettivo fosse stata decisa in qualunque stato e grado del giudizio, quindi non solo nel primo grado.

In ogni caso, l’esclusione del pagamento delle somme pregresse non sarebbe stata generalizzata, ma subordinata a condizioni precise. La prima: il contratto collettivo disapplicato avrebbe dovuto comunque riferirsi al settore economico nel quale il lavoratore aveva prestato attività.

La seconda condizione era che ricorresse almeno una di queste due situazioni: il contratto collettivo fosse stato firmato da sindacati considerati rappresentativi a livello nazionale, o dalle loro rappresentanze in azienda; oppure, pur non rientrando in questa categoria, il contratto assicurasse livelli di retribuzione considerati equivalenti a quelli richiesti dalla legge negli appalti pubblici.

È importante chiarire che questa disciplina non avrebbe riguardato i cosiddetti “contratti pirata”, cioè i contratti collettivi firmati da sigle sindacali poco rappresentative e spesso caratterizzati da minimi salariali molto bassi. Proprio perché l’emendamento limitava l’esclusione degli arretrati ai contratti firmati da sindacati rappresentativi o comunque considerati “equivalenti” secondo criteri di legge, i contratti pirata sarebbero rimasti esposti alla piena disapplicazione da parte dei giudici, comprese le conseguenze sugli arretrati.

L’esclusione, inoltre, non avrebbe riguardato le somme pregresse dovute in base al contratto applicato e non corrisposte. In pratica, se il datore di lavoro non avesse pagato quanto già previsto dal contratto, quegli arretrati sarebbero comunque rimasti dovuti. La norma avrebbe inciso solo sulle differenze nate dalla rideterminazione giudiziale del trattamento economico, perché il minimo contrattuale era stato giudicato troppo basso.

Secondo i sostenitori dell’emendamento, questa disposizione sarebbe servita a ridurre gli effetti “a ritroso” delle sentenze nei casi in cui il datore di lavoro avesse applicato un contratto collettivo riconosciuto dall’ordinamento, firmato da sindacati rappresentativi o comunque considerato adeguato secondo i criteri previsti dalla legge.

Come detto, però, la norma è stata stralciata dalla legge di Bilancio e non produrrà effetti giuridici.

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