Non è vero che l’80 per cento dei contratti è “pirata”

Lo sostiene il segretario della Cgil Maurizio Landini, ma la percentuale è esagerata
Ansa
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Uno dei motivi per cui in Italia non è ancora stato adottato un salario minimo fissato per legge è la diffusione dei Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl). Questi contratti sono validi per interi settori economici e stabiliscono una serie di tutele per i lavoratori, tra cui i minimi salariali. In genere i Ccnl sono il frutto di un accordo tra le principali sigle sindacali (tra cui Cgil, Cisl, Uil) e le associazioni dei lavoratori, ma non sempre è così. Alcuni contratti infatti sono stati sottoscritti da organizzazioni poco rappresentative dei lavoratori, prevedendo condizioni economiche e tutele inferiori rispetto a quelli siglati dai sindacati principali.

Contratti di questo tipo, definiti “contratti pirata”, sono proliferati negli ultimi anni soprattutto a causa della mancanza di regole chiare. Sul tema si è espresso di recente il segretario della Cgil Maurizio Landini, che il 10 luglio in un’intervista con la Repubblica ha detto che in Italia «siamo passati in pochi anni da 200 a mille contratti collettivi nazionali», 800 dei quali sarebbero appunto «contratti pirata».

Questi numeri sono corretti? E se sì, come si è arrivati a questa situazione?

La contrattazione collettiva in Italia

Quando si parla di Ccnl i dati più affidabili sono raccolti dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), che a dicembre 2022 ha pubblicato il rapporto annuale “Mercato del lavoro e contrattazione”. Secondo il rapporto, a novembre 2022 (dati più aggiornati) i Ccnl registrati nell’archivio del Cnel erano 946, una cifra vicina ai «mille contratti collettivi nazionali» indicata da Landini. Tra questi, i Ccnl sottoscritti dalle tre principali sigle sindacali (Cgil, Cisl e Uil) erano 208, ossia il 22 per cento sul totale. Con tutta probabilità è alla differenza tra il numero totale dei contratti collettivi (circa mille) e quelli sottoscritti dai sindacati confederali (poco più di 200) a cui ha fatto riferimento il segretario della Cgil dicendo che in Italia esistono «800 contratti pirata».

In realtà lo stesso report del Cnel specifica che i circa 800 contratti in archivio non stipulati dalle principali sigle sindacali non sono tutti “contratti pirata”: 407 contratti nazionali (il 43 per cento sul totale) infatti sono stati sottoscritti da altre sigle sindacali come Ugl, Cisal, Confsal e Ciu. Sono sindacati meno grandi per numero di iscritti rispetto a Cgil, Cisl e Uil, ma sono comunque rappresentativi di alcuni settori di lavoratori. Per esempio il sindacato Cisal rappresenta gli impiegati pubblici, mentre Ciu quelli delle professioni intellettuali. Alla stipula di 22 dei 208 Ccnl sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil hanno aderito anche alcune categorie di lavoratori di Ugl, Cisal e Confsal. 

I lavoratori coperti

Il fatto che i contratti nazionali sottoscritti dai tre sindacati principali siano quasi la metà di quelli sottoscritti dai sindacati “minori” non significa che la maggior parte dei lavoratori italiani sia coperta da questi ultimi. Tra i Ccnl firmati da Cgil, Cisl e Uil ci sono i principali contratti collettivi italiani, come i contratti per i dipendenti nel settore del commercio e dei servizi, e quello per i metalmeccanici. Secondo i dati Cnel, i Ccnl sottoscritti dai sindacati confederali coprono quasi 12,5 milioni di lavoratori dipendenti nel settore privato, più del 97 per cento del totale. 

Al netto dell’importanza dei contratti fatti da Cgil, Cisl e Uil per i lavoratori italiani, rimane comunque scorretto affermare che tutti i Ccnl che non appartengono a queste tre sigle siano “contratti pirata”, come ha fatto Landini. Il report del Cnel rileva che 347 contratti nazionali sono stati sottoscritti da sindacati che non hanno nessuna rappresentanza all’interno del consiglio del Cnel, ed è quindi più probabile che contengano al loro interno minori tutele per i lavoratori, oltre a salari più bassi. Ma questi contratti rappresentano appena 44 mila lavoratori, lo 0,3 per cento dei quasi 13 milioni totali.

I “contratti pirata”

Non è poi detto che tutti questi 347 Ccnl siano automaticamente “contratti pirata” e che siano sconvenienti per i dipendenti. A dire il vero, lo stesso concetto di “contratto pirata” risulta poco chiaro e si presta a essere utilizzato in maniera fuorviante. 

I dati mostrano in ogni caso che i Ccnl depositati al Cnel sono aumentati dell’80 per cento negli ultimi dieci anni, come evidenziato dagli economisti Andrea Garnero e Claudio Lucifora su lavoce.info ad aprile 2022. I due economisti hanno spiegato che «non tutti i nuovi contratti sono “pirata”», e che in alcuni casi «si tratta più semplicemente di un frazionamento della categoria, che potrebbe essere visto come una forma particolare di “decentramento” contrattuale». Ma al tempo stesso è indubbio che molti dei nuovi Ccnl siano stati firmati proprio per fissare condizioni salariali più basse rispetto a quelle degli altri contratti nazionali. I motivi per cui vengono stipulati questi Ccnl “pirata” sono molti, ma spesso il motivo principale è quello di garantire nuovi vantaggi ai datori di lavoro, che possono effettuare nuove assunzioni a salari più bassi rispetto a quelli garantiti dai contratti nazionali standard. L’effetto positivo è quello di creare nuovi posti di lavoro, quello negativo è che i nuovi dipendenti avranno salari più bassi e meno tutele rispetto ai vecchi contratti.

L’attuale sistema italiano della contrattazione collettiva presenta un problema: la scadenza e il mancato rinnovo dei contratti. I Ccnl, da quelli sottoscritti dalle tre sigle confederali a quelli considerabili come “pirata”, hanno una durata limitata nel tempo, scaduta la quale devono essere aggiornati e sottoscritti di nuovo. Questo avviene per permettere ai sindacati di adeguare i contratti all’aumento dell’inflazione, garantendo quindi ai lavoratori lo stesso (o quasi) potere d’acquisto anche in periodi di alta inflazione. Molti dei Ccnl attivi e presenti nell’archivio del Cnel, però, sono scaduti da anni e non sono quindi adeguati all’inflazione attuale, tra l’altro cresciuta molto negli ultimi due anni. Per fare un esempio, l’attuale contratto collettivo per i giornalisti è scaduto a marzo 2016 e non viene aggiornato da sette anni, ma anche contratti molto diffusi, come quello del commercio e dei servizi, che comprende milioni di lavoratori, non vengono rinnovati da anni.

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