Perché i bambini della “famiglia del bosco” non possono ancora rientrare a casa

Abbiamo esaminato nel dettaglio le motivazioni della nuova ordinanza della Corte d’appello dell’Aquila
ANSA/ANTONELLA SALVATORE
ANSA/ANTONELLA SALVATORE
La vicenda della cosiddetta “famiglia nel bosco” si è arricchita di una nuova tappa giudiziaria. Il 18 dicembre la Corte di appello dell’Aquila si è pronunciata sul reclamo presentato dai genitori contro l’ordinanza del Tribunale per i minorenni dell’Aquila, che il 20 novembre aveva disposto l’allontanamento delle tre figlie con cui la coppia viveva in una piccola casa nel bosco, in provincia di Chieti, in Abruzzo. I giudici d’appello hanno confermato l’allontanamento momentaneo in un casa-famiglia e l’impianto di fondo del primo provvedimento, introducendo però alcune precisazioni.

Anche questa decisione, come già accaduto nelle scorse settimane, ha suscitato reazioni politiche. Diversi esponenti di partito hanno criticato l’operato dei giudici. «È una vergogna», ha dichiarato il 21 dicembre il leader della Lega Matteo Salvini, ospite della trasmissione Zona Bianca su Rete4. «È una roba che non è comprensibile: è veramente una cattiveria gratuita».

Abbiamo potuto leggere il testo integrale dell’ordinanza della Corte d’appello, che al momento non risulta pubblicamente disponibile. Il provvedimento consente di ricostruire nel dettaglio le motivazioni giuridiche e fattuali alla base della decisione e di verificare quanto siano fondate le critiche politiche rivolte ai giudici.

Dalla gestione sanitaria dei bambini alle condizioni abitative, fino all’istruzione e alla socializzazione, l’ordinanza affronta punto per punto i nodi più controversi del caso, offrendo una ricostruzione molto diversa da quella circolata nel dibattito pubblico.

La strategia difensiva dei genitori

Per capire come si è sviluppato il procedimento di appello è necessario partire dalla strategia difensiva adottata dai genitori, che si è mossa su due fronti distinti ma intrecciati: da un lato la contestazione del corretto svolgimento del processo in primo grado, dall’altro la difesa nel merito delle scelte sanitarie, abitative ed educative contestate dal Tribunale per i minorenni.

Il primo fronte riguarda la presunta lesione dei diritti processuali in primo grado, in particolare la «violazione del diritto all’assistenza linguistica». I genitori – il padre di origine britannica, la madre di origine australiana – hanno sostenuto di possedere una conoscenza «solo elementare della lingua italiana», tale da non consentire loro di comprendere appieno atti giudiziari complessi, caratterizzati da «tecnicismi giuridici». 

Pur essendo stato inserito nel decreto di convocazione l’invito a nominare un interprete di fiducia, la difesa ha affermato che tale indicazione fosse rimasta disattesa, proprio perché i genitori non erano in grado di comprendere il documento che la conteneva. Da qui, secondo la loro ricostruzione, sarebbe derivato un pregiudizio al diritto a un equo processo.

Nel merito – spostando l’attenzione dal piano procedurale alle valutazioni sostanziali che avevano motivato l’intervento del Tribunale – sul piano sanitario i genitori hanno respinto l’accusa di negligenza, definendo la ricostruzione del Tribunale «manchevole e non aderente al dato fattuale». Hanno sostenuto di aver seguito le prescrizioni mediche, pur ponendo condizioni economiche specifiche, ossia i 150 mila euro complessivi per l’effettuazione di esami ritenuti invasivi, in particolare la visita neuropsichiatrica. 

A loro avviso, tali accertamenti non erano necessari per bambini considerati «perfettamente sani e gioviali». In questo quadro, la richiesta di «50 mila euro per ogni minore» avanzata ai servizi sociali non sarebbe stata un rifiuto né un tentativo di estorsione, ma una «sorta di cauzione», ispirata alle «polizze fideiussorie tipiche e usuali nel diritto anglosassone», finalizzata a tutelarsi nel caso di «ripercussioni psicofisiche» derivanti da procedure percepite come «vessatorie» e  «opprimenti».

Per contestare l’accusa di inidoneità abitativa, i genitori hanno prodotto una relazione di verifica statica per dimostrare che la casa dove vivono «non presenta pericolo per l’incolumità pubblica». Secondo la difesa, l’assenza di agibilità non comporterebbe un «automatico e rigido automatismo della pericolosità», in mancanza di «lesioni strutturali pregiudizievoli». A sostegno della volontà di superare le criticità logistiche, è stata inoltre documentata la disponibilità a trasferirsi in una nuova abitazione, avendo sottoscritto un «contratto di comodato d’uso gratuito» per una «normale abitazione», dotata di utenze.

Infine, sul piano scolastico, la difesa ha prodotto un certificato di idoneità alla classe terza elementare per la figlia maggiore, rilasciato dalla scuola Novalis Open School di Brescia. Secondo i legali, il documento dimostrerebbe l’efficacia dell’istruzione parentale, intesa come «potenziamento di un approccio naturale e personalizzato». 

I genitori hanno poi respinto l’accusa di isolamento dei minori, sostenendo che la loro vita fosse «all’insegna della natura e al riparo dalle influenze mediatiche» e caratterizzata da relazioni con il gruppo dei pari, senza «alcun segno di isolamento».

La replica della Corte d’appello

La Corte d’appello dell’Aquila ha esaminato queste argomentazioni in un provvedimento di 23 pagine che non si limita a confermare l’ordinanza di primo grado, ma affronta in modo analitico le tesi difensive, respingendole una per una.

Il primo punto chiarito dai giudici riguarda la presunta barriera linguistica, definita «privo di pregio». La Corte ha osservato che i genitori erano stati «sin da subito assistiti da un legale di fiducia» e che il decreto di fissazione dell’udienza conteneva l’invito esplicito a «indicare un interprete». Il mancato utilizzo di questa facoltà in primo grado, seguito dalla sua contestazione solo in appello, è stato interpretato come un comportamento strumentale. 

A sostegno di questa valutazione, i giudici hanno richiamato anche il fatto che i genitori si fossero rapportati con giornalisti locali e nazionali, «rilasciando interviste, comprendendo esattamente il senso delle domande», oltre a una «missiva datata 31 luglio 2025» dalla quale emerge una piena comprensione degli atti e una posizione espressa «con fermezza e convinzione». Da qui la conclusione che la mancata collaborazione con i servizi sociali non fosse frutto di un equivoco, ma di una «scelta del tutto consapevole».

Lo stato di salute dei bambini

Sul piano sanitario, la Corte ha ritenuto che la condotta dei genitori fosse andata oltre la semplice adesione a pratiche di medicina alternativa, configurando una forma di negligenza attiva e di ostruzionismo che ha messo a rischio l’incolumità dei bambini. Nonostante la responsabilità genitoriale fosse stata già limitata, essendo state affidate ai servizi sociali nei mesi scorsi le decisioni sanitarie, i genitori hanno mantenuto un atteggiamento di chiusura, impedendo di fatto l’esecuzione degli accertamenti prescritti.

I giudici hanno rilevato che i minori «non sono stati sottoposti agli esami ematochimici ed alla visita neuropsichiatrica prescritti dalla pediatra», richiesti sulla base della «storia clinica e familiare» e ritenuti necessari per una «globale valutazione psicologica e comportamentale dei bambini» e dello «stato immunitario vaccinale». La richiesta di 50 mila euro per ciascun minore è stata qualificata come una pretesa «provocatoriamente» avanzata, una «sorta di cauzione» priva di fondamento, volta a ostacolare accertamenti richiesti «a tutela della loro salute».

A smentire ulteriormente la tesi difensiva secondo cui i bambini sarebbero stati in perfette condizioni di salute, la Corte ha sottolineato un dato emerso al momento dell’allontanamento. Durante la visita medica successiva all’inserimento nella casa-famiglia, una delle figlie minori è risultata affetta da bronchite acuta con broncospasmo «non segnalata e non curata dai genitori». Per i giudici, questo elemento dimostra che la gestione domestica della salute non era solo alternativa, ma inefficace e pericolosa, configurando una vera e propria «mancanza di cure».

La Corte ha quindi preso atto del fallimento delle misure intermedie adottate in precedenza. Pur avendo attribuito ai servizi sociali il «potere esclusivo di decidere […] sulle questioni di maggior rilevanza in materia sanitaria», tale potere era rimasto inattuato a causa dell’opposizione dei genitori, tanto che i bambini non avevano «completato il ciclo vaccinale». Di fronte a questo «muro di diffidenza», i giudici hanno ritenuto inevitabile l’allontanamento come unica misura in grado di garantire il diritto alla salute dei minori.

L’inadeguatezza della casa

Anche sul piano abitativo la Corte ha confermato l’inadeguatezza della precedente sistemazione. Pur non essendo a rischio crollo, l’immobile risultava «privo dei servizi igienici interni, degli impianti» e caratterizzato da carenze tali da renderlo «inidoneo a garantire condizioni minime di abitabilità», soprattutto per bambini così giovani (una ha otto anni, gli altri due sono gemelli e hanno sei anni). 

La disponibilità di una nuova casa è stata quindi considerata un fatto successivo, che potrà essere valutato nel giudizio di merito, ma che non cambia la valutazione sulla correttezza dell’allontanamento nel momento in cui è stato deciso.

Il problema della socializzazione

Lo scarto più netto tra la narrazione dei genitori e le valutazioni dei giudici è emerso però sul terreno dell’istruzione e della socializzazione. Il certificato della Novalis Open School è stato ritenuto inconciliabile con quanto osservato dopo l’inserimento in casa-famiglia, dove è emersa una situazione definita «drammatica». La figlia maggiore di otto anni «non sa leggere e scrivere, né in inglese né in italiano, e a stento scrive il proprio nome sotto dettatura». Di fronte a questo quadro, la Corte ha considerato irrilevanti le attestazioni formali.

Sul piano relazionale, lettere di supporto e fotografie non sono state ritenute sufficienti a smentire la valutazione del Tribunale per i minorenni. I giudici hanno confermato che i bambini vivevano in un «rapporto esclusivo con i genitori», senza scuola né attività ricreative o sportive, e hanno ribadito che «l’assidua frequentazione e il costante confronto con i pari» sono elementi essenziali per lo sviluppo della personalità. L’isolamento è stato quindi qualificato come una «deprivazione della socialità» e non come una legittima scelta educativa.

Un passaggio specifico è dedicato infine alla gestione mediatica della vicenda. La Corte ha stigmatizzato l’esposizione televisiva e giornalistica delle minori, ritenendola un «esercizio strumentale della responsabilità genitoriale contrario all’interesse dei minori» e «del tutto incompatibile» con le esigenze di tutela della loro età. Secondo i giudici, i genitori avrebbero tentato di ottenere un vantaggio processuale «invocando pressioni dell’opinione pubblica», utilizzando le figlie come strumento e violando il loro diritto alla riservatezza.

Le prossime tappe

In conclusione, la Corte d’Appello ha ritenuto giusto e inevitabile l’allontanamento dei tre bambini dai genitori. Le criticità sanitarie, abitative ed educative risultano «puntualmente confermate dalle risultanze documentali» e costituiscono «gravi rischi per la salute fisica e psichica dei bambini», si legge nella decisione della Corte d’appello. I giudici hanno sottolineato che si tratta dell’esito di un lungo periodo di osservazione, durato circa un anno, nel quale le «misure meno incisive» non hanno «sortito l’effetto sperato» a causa della mancata collaborazione dei genitori.

La vicenda torna ora al Tribunale per i minorenni, chiamato a valutare nel giudizio di merito gli «apprezzabili sforzi di collaborazione» eventualmente compiuti dopo l’allontanamento. Se i genitori dimostreranno un cambiamento concreto, il provvedimento potrà essere modificato o revocato, nel rispetto dell’«obbligo positivo di adottare misure per agevolare il ricongiungimento familiare». 

Nel frattempo, i rapporti familiari proseguono in una forma protetta. Non vi è stata una «rottura dei legami familiari»: la madre può trascorrere con le figlie tre momenti al giorno nella struttura e il padre le può incontrare due volte a settimana. È una cornice che, secondo i giudici, mantiene aperta la possibilità di un futuro ricongiungimento familiare.

Resta infine un passaggio decisivo: una nuova audizione dei bambini. La Corte d’appello ha rilevato criticità nella precedente audizione, svolta con la madre come interprete, e ha disposto che il nuovo ascolto avvenga «con la partecipazione di un interprete» neutrale e solo quando i bambini saranno in grado di «esprimersi liberamente al riparo da potenziali condizionamenti». 

La strada verso un eventuale rientro in famiglia è dunque tracciata, ma subordinata a un «impegno continuativo e concreto» da parte dei genitori.

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