Anche i bambini rom sono allontanati dai loro genitori

A differenza di quanto sostiene chi difende la coppia che vive in un bosco, gli interventi dei servizi sociali riguardano anche le comunità rom
ANSA
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Negli ultimi giorni, uno degli argomenti più usati da chi difende la coppia di genitori che vive in un bosco in Abruzzo, a cui il Tribunale per i minorenni dell’Aquila ha allontanato i tre figli, è l’idea che lo Stato sia intervenuto con durezza solo in questo caso, ignorando invece le condizioni di degrado in cui vivrebbero molti bambini rom.

Questa tesi è stata rilanciata con forza dalla Lega e dal suo segretario Matteo Salvini, che sui social si è chiesto dove siano «gli assistenti sociali, la Procura, il Tribunale dei minori e lo Stato», mostrando le immagini di una sua visita in un campo rom in Campania.

Senza entrare nel merito delle opinioni personali sul caso della “famiglia nel bosco”, è però un fatto che gli interventi dei servizi sociali non riguardano solo vicende come questa. Negli anni, anche nelle comunità rom, non sono mancati allontanamenti di minori quando sono state riscontrate condizioni di rischio analoghe.

Quanti sono i campi rom 

Prima di analizzare gli interventi dell’autorità giudiziaria, è utile chiarire che cosa si intenda quando si parla di “rom” e dei “campi rom”.

Il termine “rom” indica una minoranza etnica, originaria dell’Europa orientale, che nel corso dei secoli si è spostata in varie parti del continente europeo, dando vita a sottogruppi diversi. Non si tratta quindi di persone accomunate da una nazionalità, ma da una lingua condivisa (il romanes), e da alcune tradizioni e mestieri. Proprio per la loro storia migratoria, in Italia molte persone rom vivono in insediamenti temporanei creati negli anni dalle istituzioni locali per rispondere al bisogno abitativo: i cosiddetti “campi rom”.

«La creazione di questi insediamenti è stata promossa dalle istituzioni locali per rispondere alla domanda di abitazioni di queste persone, ma alla fine ha portato a ghettizzarle», ha spiegato a Pagella Politica Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, che da anni lavora su segregazione, discriminazione e tutela dei minori.

Il fenomeno affonda le sue radici negli anni Ottanta: nel 1985 la Regione Lazio approvò una legge regionale che per «evitare impedimenti al diritto al nomadismo» istituiva e regolava la costruzione dei campi nomadi. Misure analoghe furono introdotte negli anni successivi da regioni come Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte.

Stabilire con precisione quante persone rom vivano nei campi non è semplice. Secondo i dati raccolti dell’Associazione 21 luglio, oggi in Italia i rom e i sinti (un’altra popolazione nomade con provenienza analoga a quella rom) che abitano nei campi rom sono circa 11 mila, suddivisi in poco più di 100 insediamenti. 

Ma la maggior parte delle persone di etnia rom non vive nei campi. Un rapporto del 2024 della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) del Consiglio d’Europa ha stimato tra 120 mila e 180 mila le persone di origine rom in Italia, di cui il 60 per cento cittadini italiani. Queste persone provengono in prevalenza dall’ex Jugoslavia, dalla Romania e dalla Bulgaria. Considerando queste stime, chi vive nei campi rappresenta tra il 6 per cento e il 9 per cento del totale, dunque una minoranza numericamente ridotta.

Gli allontanamenti dei bambini rom

La precarietà abitativa dei campi rom, unita a episodi di microcriminalità, ha contribuito negli anni a radicare stereotipi e pregiudizi nei confronti di questa popolazione. Tra le convinzioni più diffuse c’è quella secondo cui molti bambini rom sarebbero coinvolti in attività come la mendicità o piccoli furti e, nonostante questo, lo Stato non interverrebbe. Da qui nasce l’idea che i minori rom non verrebbero quasi mai allontanati dalle loro famiglie, al contrario di quanto accaduto alla famiglia che vive nel bosco in Abruzzo.

Questa rappresentazione, però, è scorretta: le autorità intervengono anche nei confronti delle famiglie rom in presenza di condizioni che mettono a rischio i minori. Per esempio, il 1° ottobre 2024 dieci bambini che vivevano nel campo rom di via Selvanesco a Milano sono stati trasferiti in comunità protette. La polizia locale aveva accertato che, in assenza di acqua corrente ed elettricità, non erano garantite le condizioni igieniche minime previste dalla legge. Il trasferimento è avvenuto in accordo con i servizi sociali del Comune di Milano. La decisione presa dall’autorità è stata frutto di una serie di accertamenti dopo che ad agosto uno dei bambini che abitavano nel campo rom, alla guida di un’auto rubata insieme ad altri compagni, aveva investito e ucciso una donna di 73 anni. 

In passato sono stati documentati altri casi di bambini rom allontanati dalle loro famiglie, ma non legati a fatti simili.

Anche alcune ricerche confermano che gli allontanamenti avvengono. Uno studio del 2008 dell’Università di Verona ha registrato oltre 200 minori rom e sinti dichiarati adottabili dai tribunali. Un altro rapporto, condotto dall’Associazione 21 luglio, ha stimato che nel Lazio, tra il 2006 e il 2012, sono stati dichiarati adottabili 117 bambini rom, circa un decimo del totale.

«Abbiamo mostrato che i bambini e le famiglie rom non sono esenti all’allontanamento, anzi spesso scontano una situazione di degrado che li rende ancora più facilmente soggetti a questo provvedimento rispetto agli altri bambini», ha dichiarato Stasolla. «Ma dovrebbero essere le istituzioni a impegnarsi a superare questa situazione, superare il modello dei campi rom, e dare la possibilità a queste famiglie di vivere alla pari delle altre».

Gestire gli affidamenti dei bambini rom, peraltro, non è sempre semplice. Melita Cavallo, già presidente del Tribunale per i minorenni di Roma, ha raccontato nel 2021 al quotidiano Domani che nella sua esperienza ha esaminato diversi casi di allontanamento di bambini rom dalla loro famiglia, riscontrando problemi per via dell’atteggiamento delle famiglie, non sempre collaborative con la giustizia.

Un discorso fuorviante

Secondo Carla Solinas, professoressa di Diritto privato all’Università di Roma Tor Vergata, il parallelismo tra il caso della “famiglia nel bosco” e le famiglie rom resta comunque fuorviante. 

«Nel diritto di famiglia e nella gestione dei casi che riguardano la responsabilità genitoriale ogni caso è a sé stante. Non è possibile generalizzare sostenendo che, se i bambini sono stati tolti a questa famiglia, allora bisogna toglierli per forza anche alle famiglie rom», ha spiegato Solinas a Pagella Politica. «Il processo che porta all’eventuale allontanamento di un bambino dalla propria famiglia parte sempre da una segnalazione che i servizi sociali fanno all’autorità giudiziaria, in particolare al pubblico ministero. In seguito inizia un percorso di collaborazione tra Tribunale per i minorenni, servizi sociali e famiglia, per correggere le eventuali problematiche e consentire al minore di vivere nelle migliori condizioni, ma si tratta di una valutazione caso per caso e non generalizzabile». 

Questo percorso graduale è stato seguito dal Tribunale dei minori dell’Aquila anche nel caso della famiglia che vive nel bosco. L’allontanamento temporaneo dei figli è stato disposto dal giudice solo dopo diversi passaggi e dopo aver constatato la mancata collaborazione della famiglia a diverse richieste. La difesa della famiglia ha già annunciato che farà ricorso.

È quindi fuorviante far passare l’idea che gli allontanamenti dalle famiglie avvengono in automatico e che debbano essere applicati per forza in modo uniforme anche a tutte le famiglie rom. «Gli allontanamenti dei bambini rom ci sono stati e avvengono ancora. Il punto fondamentale della questione è che il diritto di famiglia in linea di principio impone ai giudici di garantire, per quanto possibile, sempre la permanenza del minore nella famiglia, qualsiasi essa sia», ha concluso Solinas.

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