Manuale di autodifesa politica per le feste in famiglia

Abbiamo raccolto tutte le risposte da dare ai parenti che difenderanno il governo e a quelli che lo criticheranno
Ansa
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Siete pronti a una settimana di pranzi e cene da trascorrere in famiglia, tra parenti e amici? È proprio in questo periodo dell’anno che gli appuntamenti a tavola finiscono spesso per trasformarsi in accesi dibattiti politici, con i sostenitori del governo Meloni da un lato e quelli dei partiti all’opposizione dall’altro. 

Non disperate: abbiamo raccolto alcune dichiarazioni fuorvianti o scorrette che potreste sentire sia da chi vota i partiti di destra sia da quelli del cosiddetto “campo largo”. In questo modo arriverete più informati a eventuali discussioni e potrete controbattere con fatti e numeri a zii e cugini vari. Ma senza litigare.

Com’è messa l’economia

Partiamo dallo zio fan di Meloni, che magari esordisce dicendo: «Con tutto quello che succede nel mondo, l’Italia sta andando bene economicamente». Al di là dei conflitti e delle crisi internazionali, però, i dati più aggiornati, anche se ancora provvisori, raccontano una storia diversa. Nel 2025 l’economia italiana non è andata benissimo, contrariamente a quanto potrebbe sostenere un elettore di Fratelli d’Italia.

Secondo le stime dell’ISTAT, nel 2025 l’economia italiana dovrebbe crescere dello 0,5 per cento, un dato in lieve rallentamento rispetto allo 0,7 per cento del 2024. Se si guarda al confronto europeo, la performance italiana appare ancora più debole: tra i principali Paesi europei, la Francia è attesa crescere dello 0,7 per cento, la Spagna del 2,9 per cento e la Polonia del 3,2 per cento. Solo la Germania fa peggio, con una crescita stimata dello 0,2 per cento.
A completare il quadro ci sono altri indicatori economici. La produzione industriale è rimasta sostanzialmente stabile, senza mostrare una vera ripresa dopo il calo degli ultimi anni. I consumi delle famiglie sono invece attesi in crescita, anche se contenuta, grazie all’aumento delle retribuzioni e dell’occupazione. A pesare in negativo è soprattutto la domanda estera netta: le importazioni cresceranno più rapidamente delle esportazioni, frenando così l’espansione complessiva dell’economia.

Le promesse elettorali

Lo stesso zio potrebbe poi aggiungere: «Almeno questo governo sta rispettando le promesse fatte in campagna elettorale». È una valutazione ottimista, perché a tre anni dal suo insediamento molte promesse del programma del governo Meloni restano in larga parte da completare. In alcuni ambiti il governo ha effettivamente messo in campo provvedimenti coerenti con quanto annunciato, ma spesso solo in modo parziale. In altri casi, invece, sono state prese decisioni diverse da quelle promesse o che hanno finito per rendere più difficile il raggiungimento degli obiettivi fissati.
Nel dettaglio, delle 100 principali promesse contenute nel programma di governo per le elezioni politiche del 2022, l’attuale esecutivo ne ha completate 22. Tra queste rientrano il taglio del cuneo fiscale, la revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e l’abolizione del reddito di cittadinanza. Altre 59 promesse risultano ancora in corso, come la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati. Nel 2025 il numero delle promesse non mantenute si è ridotto, ma ne restano comunque di rilevanti. Per esempio la spesa delle risorse del PNRR continua a essere in ritardo rispetto al cronoprogramma, così come è lontano l’allineamento degli investimenti in ricerca ai parametri europei. In nove casi su 100, infine, il governo ha fatto l’opposto di quanto promesso.

Il giudizio dei mercati

Un altro argomento spesso citato è questo: «Il rating dell’Italia è aumentato e lo spread è ai minimi storici». È vero che negli scorsi mesi le principali agenzie di rating hanno migliorato il giudizio sull’Italia, cioè sulla sua capacità di ripagare il debito pubblico. Parlare però di un ritorno in «Serie A», come ha fatto Meloni ad Atreju, è esagerato

Ad aprile Standard & Poor’s ha alzato il rating dell’Italia da BBB a BBB+, lo stesso ha fatto Fitch a settembre, mentre a novembre Moody’s lo ha portato da Baa3 a Baa2. Si tratta di segnali positivi, ma che collocano ancora il nostro Paese diversi gradini sotto i livelli più alti delle scale di rating, lontani dalle valutazioni AA o AAA riservate agli Stati considerati più solidi.

Quanto allo spread, questo indicatore misura lo scarto tra il rendimento dei BTP decennali italiani e quello dei titoli tedeschi equivalenti, i Bund. Nel 2025 lo spread si è effettivamente ridotto, ma soprattutto perché sono aumentati i rendimenti dei titoli di Stato tedeschi, più che per una forte diminuzione di quelli italiani, che comunque c’è stata.

Non è un caso se oggi anche esponenti del governo parlano di rating e spread. Dopo anni passati a criticare questi indicatori, considerati tecnicismi lontani dai bisogni delle persone, e ad attaccare le agenzie di rating, definite «inutili», la stessa Meloni ora cita i buoni risultati dell’Italia in questi ambiti per elogiare l’operato del suo esecutivo.

Il peso delle tasse

Sempre lo stesso zio potrebbe sostenere che, almeno, «il governo continua ad abbassare le tasse». Uno dei principali provvedimenti inclusi nella legge di Bilancio per il 2026 è effettivamente la riduzione dal 35 al 33 per cento della seconda aliquota dell’IRPEF, la principale imposta sui redditi. Poiché l’IRPEF funziona con aliquote progressive, ridurre un’aliquota significa alleggerire la tassazione per chi si colloca in quella specifica fascia di reddito.

Secondo le stime ISTAT, questa misura comporterà un risparmio medio annuo di circa 120 euro per impiegati e lavoratori autonomi, di 55 euro per i pensionati e di appena 23 euro per gli operai. Il beneficio medio per i dirigenti sarà invece di 408 euro. Sia l’ISTAT sia l’Ufficio parlamentare di bilancio concordano sul fatto che il taglio favorisca soprattutto i contribuenti con redditi medio-alti, anche se in generale il beneficio resta piuttosto contenuto per tutti.

L’avanzamento del PNRR

Un altro slogan ricorrente è: «Eravamo ultimi nella spesa dei fondi europei, adesso siamo primi in Europa nell’attuazione del PNRR». Pure in questo caso l’ottimismo è eccessivo. 

Il 1° dicembre la Commissione europea ha annunciato una valutazione positiva sull’erogazione all’Italia dell’ottava rata dei fondi del PNRR. Questo però non significa che l’Italia sia prima nella spesa di questi fondi

L’erogazione delle rate, infatti, dipende dal raggiungimento periodico di un determinato numero di traguardi e obiettivi. Da questo punto di vista, l’Italia è tra i Paesi più virtuosi, ma non il primo in classifica. Secondo i dati della Commissione Ue, a oggi l’Italia ha raggiunto il 58 per cento dei traguardi e obiettivi fissati dal PNRR. Cinque Paesi hanno percentuali più alte: Francia (82 per cento), Austria (74 per cento), Lussemburgo (68 per cento), Irlanda (62 per cento) e Danimarca (60 per cento).

Il raggiungimento degli obiettivi non ha direttamente a che fare con la spesa dei fondi europei, un tema sul quale l’Italia ha problemi da anni. Diversi organismi indipendenti, dall’Ufficio parlamentare di bilancio alla Corte dei conti, hanno infatti sottolineato che, nonostante l’erogazione delle rate nei tempi previsti e una recente accelerazione, l’Italia resta in ritardo nella spesa dei soldi del PNRR rispetto alla tabella di marcia.

L’aumento della pressione fiscale

Passando alla cugina hater del governo, una delle frasi che potreste sentire è: «Altro che ripresa, il governo ha alzato le tasse per tutti». Questa affermazione è stata ripetuta anche da diversi esponenti dell’opposizione, facendo spesso riferimento all’aumento della pressione fiscale, che nel 2025 dovrebbe raggiungere il 42,8 per cento. Ma un aumento della pressione fiscale non equivale automaticamente a un aumento delle tasse per tutti.
La pressione fiscale misura il rapporto tra tutte le imposte e i contributi versati e il valore complessivo del PIL. In altre parole, indica quanta parte della ricchezza prodotta in un anno finisce nelle casse pubbliche. Se questo rapporto cresce, non significa necessariamente che siano state introdotte nuove tasse o che tutti paghino di più. Può aumentare anche per ragioni indipendenti dalle scelte politiche.

Nel 2025, per esempio, l’aumento degli occupati e dei salari medi, dovuto anche ai rinnovi dei contratti nazionali, ha fatto crescere il gettito fiscale. Allo stesso tempo, però, il PIL non è aumentato in modo proporzionale, contribuendo così all’incremento della pressione fiscale. Questo non significa che tutti abbiano pagato più tasse, anche perché il governo è intervenuto più volte tagliando il cuneo fiscale e riducendo gli scaglioni dell’IRPEF.

I giovani in fuga

Un’altra accusa frequente è: «Il governo ha fatto scappare dall’Italia mezzo milione di giovani». Questa frase non è inventata e di recente è stata pronunciata anche dalla segretaria del Partito Democratico Elly Schlein. È però un’affermazione molto esagerata

Il dato di oltre mezzo milione di giovani emigrati si riferisce a un periodo di tredici anni, dal 2011 al 2023, e descrive un fenomeno strutturale che ha coinvolto governi di ogni colore politico. Attribuire questa cifra a soli due anni di governo Meloni significa trasformare una tendenza di lungo periodo in un presunto effetto immediato.
Secondo i dati più aggiornati, nei primi due anni del governo Meloni sono emigrati complessivamente circa 270 mila italiani di tutte le età: 114 mila nel 2023 e 156 mila nel 2024. Il forte aumento del 2024 non è però legato a specifiche scelte del governo, ma all’entrata in vigore di una sanzione per chi, vivendo all’estero, non si iscrive all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE). Molti italiani già emigrati da tempo si sono quindi registrati per evitare la multa, facendo crescere artificialmente il numero degli espatri.

La crescita dell’occupazione

Vostra cugina potrebbe poi aggiungere: «Altro che record di occupazione, ad aumentare sono stati solo i contratti precari». È vero che il governo Meloni rivendica spesso il record di occupati, ma per i critici questo aumento sarebbe dovuto solo alla crescita del lavoro precario. I dati, però, raccontano altro.

Secondo ISTAT a settembre di quest’anno in Italia c’erano circa 19 milioni di occupati dipendenti, e solo il 13 per cento aveva un contratto a termine. A ottobre 2022, quando si è insediato il governo Meloni, questa percentuale era più alta, pari al 16,4 per cento. In termini assoluti, gli occupati a termine sono diminuiti da circa 3 milioni a quasi 2,5 milioni, mentre quelli a tempo indeterminato sono aumentati, passando da 15,3 milioni a 16,5 milioni.
Questo non significa però che il merito sia tutto del governo. L’aumento dell’occupazione era iniziato prima del suo insediamento, ha riguardato gran parte dei Paesi europei e ha interessato soprattutto le fasce di lavoratori più anziani.

L’educazione sessuale a scuola

Un altro tema caldo è quello dell’educazione sessuale, spesso riassunto così nelle ultime settimane: «La destra ha vietato l’educazione sessuale nelle scuole». 

La questione è tornata al centro del dibattito dopo la presentazione, da parte del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, di un disegno di legge «in materia di consenso informato in ambito scolastico». La proposta prevede che le scuole debbano ottenere il consenso informato preventivo dei genitori, o degli studenti se maggiorenni, prima di svolgere attività che trattino temi legati alla sessualità. Inoltre stabilisce che nella scuola dell’infanzia e primaria siano escluse attività di questo tipo. Un emendamento della Lega aveva inizialmente esteso il divieto anche alle scuole medie, ma dopo le polemiche è stato ritirato.

In sintesi, è sbagliato dire che il governo abbia vietato l’educazione sessuale a scuola, ma è corretto affermare che ne abbia limitato l’insegnamento: niente attività su questi temi all’asilo e alle elementari, e consenso informato necessario alle medie e alle superiori. Va anche ricordato che non esistono regole europee univoche sull’educazione sessuale: in 19 Paesi UE è obbligatoria, mentre in altri otto, tra cui l’Italia, resta facoltativa.

L’affidabilità dei sondaggi

Infine, un’ultima accusa frequente è: «Altro che 30 per cento nei sondaggi: Fratelli d’Italia alle ultime regionali non è arrivato al 20 per cento». I dati citati sono corretti, ma il confronto non lo è

A novembre si sono tenute elezioni regionali in Campania, Veneto e Puglia. In Campania Fratelli d’Italia ha ottenuto l’11,9 per cento dei voti, in Veneto e in Puglia il 18,7 per cento. Nei sondaggi nazionali, però, il partito di Meloni è stabile sopra il 30 per cento.

Il motivo della differenza è metodologico. I risultati di elezioni regionali in singole aree non sono comparabili con i sondaggi nazionali, perché riflettono dinamiche locali e pesi elettorali diversi. Inoltre Veneto, Campania e Puglia sono regioni storicamente sfavorevoli a Fratelli d’Italia, e il risultato di novembre è comunque migliore rispetto a cinque anni fa. Nelle regionali, poi, la presenza di liste civiche legate ai candidati presidenti sottrae voti ai partiti, abbassando le percentuali. Anche l’affluenza, più bassa rispetto alle elezioni politiche, rende il confronto ancora meno significativo.

In conclusione, vostra cugina dovrà frenare gli entusiasmi: i risultati delle regionali non dimostrano che il 30 per cento attribuito a Fratelli d’Italia dai sondaggi nazionali sia gonfiato o irrealistico.
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