La storia del Superbonus non è finita

Il governo lamenta di avere meno margine di spesa per colpa del bonus, mentre il Movimento 5 Stelle dice che non incide sulla legge di Bilancio. Abbiamo verificato chi ha ragione
Ansa
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La presentazione del disegno di legge di Bilancio per il 2026 ha riportato al centro del dibattito politico il peso del Superbonus sui conti pubblici italiani. Secondo alcuni, il Superbonus ha prosciugato risorse che avrebbero potuto finanziare nuove misure, mentre per altri il bonus edilizio non riduce davvero la capacità di spesa del governo per il prossimo anno. Questa contrapposizione è emersa nelle scorse settimane, mentre il disegno di legge ha iniziato il suo percorso in Senato.

In diverse occasioni la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito che lo Stato dovrà spendere 40 miliardi di euro nel 2026 a causa del bonus edilizio. A suo avviso, questa spesa ha così ridotto le risorse disponibili per la nuova legge di Bilancio. Questa tesi è stata giudicata una «fesseria» dal presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte. Ospite il 6 novembre a Porta a Porta su RAI1, Conte ha detto che la legge di Bilancio «non viene assolutamente intaccata» dal Superbonus e che «semmai è il debito che viene gravato».

Il 26 novembre, sempre a Porta a Porta, c’è stato un botta e risposta simile tra un altro esponente del Movimento 5 Stelle, Stefano Patuanelli, e il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Galeazzo Bignami. Patuanelli ha affermato che, senza Superbonus, non ci sarebbe «un euro in più per questa manovra», perché i suoi effetti riguardano il debito e non il deficit. Bignami ha riconosciuto che ciò è «tecnicamente vero», precisando però che il Superbonus «incide sul fabbisogno» e riduce la disponibilità di cassa. 

Ma davvero, se non fosse mai esistito il bonus edilizio, oggi il governo Meloni avrebbe 40 miliardi di euro in più da spendere in sanità, difesa o istruzione? Oppure no? Facciamo un po’ di chiarezza.

Da dove nasce il costo del Superbonus

Il potenziamento dei bonus edilizi deciso per rilanciare l’economia dopo la prima ondata della pandemia di COVID-19 ha inciso profondamente sui conti dello Stato. Il Superbonus, in particolare, prevedeva una detrazione pari al 110 per cento del valore dei lavori, restituendo di fatto ai contribuenti una somma superiore a quella spesa, attraverso uno sconto sul pagamento delle imposte (le cosiddette “detrazioni”) spalmato su più anni. In questo modo, chi ha usufruito del bonus ha maturato un credito nei confronti dello Stato (che per un certo periodo poteva essere anche ceduto alle imprese edilizie o alle banche).

Secondo i dati più aggiornati dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA), i costi a carico dello Stato riconducibili agli oneri del Superbonus ammontano a circa 128 miliardi di euro. Per avere termine di paragone, il reddito di cittadinanza – rimasto in vigore tra il 2019 e il 2023 – è costato circa 34 miliardi di euro.

La conseguenza è stata un aumento significativo sia del debito, cioè il totale delle risorse prese a prestito dallo Stato, sia del deficit, ossia la differenza in negativo tra entrate e uscite annuali dello Stato (quando la differenza è positiva si ha un “surplus”).
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Dunque, il Superbonus poteva incidere sui conti pubblici in due modi: aumentando il debito complessivo, che l’Italia deve prima o poi restituire, e riducendo il margine di spesa nei singoli anni, perché il deficit deve rispettare limiti stabiliti a livello europeo. Ogni anno, il disegno di legge di Bilancio viene inviato alla Commissione europea, che può chiedere modifiche se ritiene che il livello del deficit non sia sostenibile. Nel caso dell’Italia, l’obiettivo del governo – che, salvo sorprese, sarà raggiunto proprio nel 2026 – era riportare il valore del deficit sotto al 3 per cento in rapporto al Prodotto interno lordo (PIL). Aggiungere nuove spese, come quelle legate al Superbonus, significa aumentare la necessità di indebitarsi, sottraendo risorse ad altre politiche pubbliche. 

Questo tema era già emerso nel 2023, quando il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti sottolineò che il rapporto tra deficit e PIL per quell’anno fosse di 0,8 punti percentuali più alto rispetto a quanto inizialmente previsto, proprio a causa del peso del Superbonus sui conti pubblici. All’epoca un’importante decisione contabile della Commissione europea (attraverso Eurostat, l’istituto di statistica dell’Ue) permise al nostro Paese di ottenere una maggiore flessibilità sui conti. La questione riguardava come contabilizzare i crediti del Superbonus: bisognava decidere se il nuovo deficit accumulato a causa del bonus sarebbe dovuto essere contabilizzato nell’anno in cui i crediti erano stati concessi o negli anni in cui questi crediti dovevano essere restituiti ai contribuenti, incassando meno soldi dalle imposte. 

Facciamo un esempio semplice per capirci meglio. Immaginiamo che lo Stato abbia concesso nel 2020 un credito da 1.000 euro, che potrà essere recuperato in quattro rate nei quattro anni successivi. Come va contabilizzato questo credito? Le opzioni sono due: o aggiungendo 1.000 euro di spese statali in più nel 2020, oppure dividendo il credito in 250 euro l’anno tra il 2021 e il 2024. La scelta, apparentemente tecnica, ha conseguenze rilevanti sulla gestione del bilancio. 

Meloni ha parlato di 40 miliardi di spesa in più nel 2026 a causa del Superbonus, un numero confermato anche dalle stime del governo. 

Alla fine, la Commissione Ue stabilì che i crediti andassero contabilizzati nell’anno in cui erano stati concessi. Di conseguenza, il rapporto tra deficit e PIL negli anni tra il 2020 e il 2023 è aumentato in modo retroattivo (da qui, l’extra-deficit di cui abbiamo parlato sopra), ma il governo ha avuto uno spazio di manovra un po’ più ampio. In parole semplici, è come se fosse stato “liberato” dello spazio contabile: negli anni successivi il peso dei crediti del Superbonus non è stato messo a bilancio, perché era stato contabilizzato negli anni precedenti. Per questo motivo, il livello del deficit di quest’anno e del 2026 non è influenzato dal Superbonus, o perlomeno non dalle detrazioni concesse negli scorsi anni. Tuttavia, sarebbe sbagliato sostenere che il Superbonus non abbia un impatto sui conti pubblici.

Il peso che resta

Il peso del Superbonus, infatti, continua a farsi sentire, anche se non influisce direttamente sul deficit. Lo Stato ha accumulato oltre 100 miliardi di debito aggiuntivo e dovrà gradualmente far fronte a una raccolta delle tasse più bassa mano a mano che i crediti da ripagare maturano. È vero che lo Stato non deve più “scrivere” che ha speso un certo numero di miliardi in più, perché lo ha già fatto nel momento in cui ha concesso il credito. Ma questo non toglie che è proprio quest’anno che dovrà rinunciare a delle risorse dal punto di vista finanziario a causa delle mancate entrate fiscali.

Facciamo un’analogia per rendere più chiara la questione. È un po’ come se oggi una persona contraesse un debito da pagare nel 2030, ma, dato che tanto dovrebbe ripagarlo tra cinque anni, decidesse di spendere subito tutti i soldi che ha. Tanto il problema di ripagare il debito è futuro. In teoria non dovrà tirare fuori un euro fino al 2030, ma non mettere da parte nulla in vista di quel pagamento è davvero la scelta responsabile da fare?

In questo caso entra in gioco la differenza tra due concetti tecnici, ma centrali nel dibattito di queste settimane: il “fabbisogno” e la “cassa”. Il fabbisogno indica le necessità economiche nel momento in cui si presentano: il governo ha contabilizzato i crediti negli scorsi anni, quando ha concesso gli sconti fiscali ai contribuenti, impegnandosi a pagarli in futuro. Il suo fabbisogno, dunque, è aumentato negli anni in cui sono stati contabilizzati quei crediti. La cassa, invece, indica la disponibilità effettiva di denaro: negli anni in cui i crediti sono stati contabilizzati, il governo non ha speso nulla, per cui il saldo di cassa non è diminuito, ma negli anni successivi sì, dal momento che man mano questi crediti venivano utilizzati dai contribuenti. 

Insomma, è vero – come ha detto Patuanelli – che in teoria il Superbonus non influenza direttamente il deficit di quest’anno, ma è anche vero che ignorare il peso della misura sui conti pubblici nel medio-lungo periodo sarebbe una scelta fortemente irresponsabile. Questo perché ci si limiterebbe a giocare con i conti, sfruttando il fatto che il fabbisogno è più basso in questi anni, ma ignorando gli effettivi movimenti di cassa per ripagare il debito, sperando che sia un governo successivo a occuparsi del problema.

Il governo ha deciso quindi di fare una scelta prudente, preferendo mantenere più basso il deficit sapendo che in futuro questo risparmio aiuterà a ridurre almeno in parte il peso ereditato del Superbonus. Non sappiamo se questa presa di responsabilità sia “spontanea” o se derivi da pressioni dell’Ue e dei mercati per tenere più in ordine i conti pubblici, ma rappresenta l’ennesima scelta moderata del governo Meloni in campo economico, contrariamente a quanto molti si sarebbero aspettati al momento dell’insediamento, ormai tre anni fa.

In definitiva, se il Superbonus non fosse mai stato approvato o se fosse stato interrotto a un minore livello di spesa, oggi avremmo a disposizione più risorse per sanità, sicurezza, difesa e qualsiasi altra politica. Questo perché, anche se il peso contabile è concentrato sugli scorsi anni, alla fine lo Stato deve comunque incassare meno adesso, riducendo il saldo di cassa di circa 40 miliardi. Ribaltando la prospettiva, è l’equivalente di spendere di più, andando a sottrarre risorse che, potenzialmente, potevano essere utilizzate per la manovra di quest’anno.

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