Guida al dibattito sul Superbonus

Abbiamo fatto chiarezza sui temi più discussi, dai benefici per l’economia ai costi, passando per le ragioni che hanno spinto il governo a bloccare la cessione dei crediti d’imposta
ANSA
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In questi giorni si sta parlando molto del Superbonus e degli altri bonus edilizi, dopo che il 16 febbraio il governo Meloni ha bloccato con un decreto-legge la cessione dei crediti d’imposta. Da un lato c’è chi critica la scelta del governo difendendo il Superbonus per i benefici che ha generato a livello economico. Dall’altro lato c’è chi difende l’intervento dell’esecutivo, visto il costo ormai insostenibile raggiunto dalla misura.

Dai benefici economici agli oneri per lo Stato, passando per la questione della cessione dei crediti d’imposta e le ragioni del governo, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su che cosa c’è di vero e che cosa no nel dibattito in corso.

L’effetto moltiplicatore

Partiamo da una prima questione, quella relativa agli impatti sull’economia del Superbonus e di altri bonus edilizi. L’intervento pubblico nell’edilizia, per esempio per incentivare le ristrutturazioni e più di recente l’efficientamento energetico, ha una lunga storia nel nostro Paese. 

Come spiega un dossier della Camera, nel 1998 è stata introdotta per la prima volta la possibilità di vedersi restituire dallo Stato una parte delle spese di riqualificazione edilizia sotto forma di credito d’imposta, ossia uno sconto sulle tasse spalmato nel tempo. Nel corso degli anni le misure a sostegno dell’edilizia sono sempre state rinnovate e allargate, fino ad arrivare al Superbonus 110 per cento, introdotto dal secondo governo Conte con il decreto “Rilancio” a maggio 2020. Questo decreto ha inoltre esteso la possibilità di cedere i crediti d’imposta per tutti i bonus edilizi (sul funzionamento di questa misura torneremo meglio più avanti).

Ma perché investire nell’edilizia? Il motivo è semplice: il settore delle costruzioni ha il vantaggio di dare lavoro a persone con qualifiche molto varie, dall’ingegnere al geometra, dall’architetto al muratore. In più la spesa in edilizia permette sia di aumentare il Pil sia di generare ricchezza per i cittadini, in questo caso immobiliare. Si tratta quindi di un investimento: uno dei punti centrali del dibattito sui bonus è capire quale sia però il ritorno di questo investimento. 

A questo proposito politici e addetti ai lavori parlano spesso del cosiddetto “effetto moltiplicatore” degli interventi nell’edilizia. A maggio 2020 le associazioni del settore sostenevano che nei Paesi europei l’effetto moltiplicatore del settore varia tra 1,9 e 2,9, ossia che per ogni euro speso in edilizia il Pil cresce di un valore compreso tra 1,9 e 2,9 euro. In realtà possiamo dire con una certa sicurezza che un moltiplicatore così elevato sovrastima gli effetti del superbonus: questa stima fa infatti riferimento a quanto si produce in più investendo le risorse nell’edilizia. Quello che ci interessa, però, non è la produzione lorda, ma il valore aggiunto. Il moltiplicatore del valore aggiunto fornisce infatti una misura del valore effettivamente generato in più dai soldi messi nell’edilizia, essendo il valore aggiunto la differenza tra il valore della produzione e i suoi costi. 

Secondo le stime di Leonzio Rizzo, professore di Scienza delle finanze all’Università di Ferrara, il moltiplicatore del valore aggiunto per il Superbonus potrebbe essere inferiore o uguale a 1. Questo significherebbe che ogni euro speso con i bonus edilizi incrementerebbe il Pil al massimo di un valore pari alla spesa per l’investimento. Anche l’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), una delle principali associazioni del Paese per quanto riguarda l’edilizia, di recente ha calcolato per il Superbonus un moltiplicatore del valore aggiunto pari a 1,1.

Gli impatti sulla produzione

Alcuni dati mostrano che il Superbonus ha avuto un contributo importante nel sostenere la ripresa del settore delle costruzioni dopo la crisi economica causata dalla pandemia di Covid-19. Per esempio, secondo i dati Istat, da oltre due anni l’indice della produzione nelle costruzioni, che misura la variazione nel tempo della produzione in questo settore, è ben al di sopra dei livelli precedenti alla crisi. L’indice della produzione industriale fatica invece a riprendersi (Grafico 1).

Secondo la Banca d’Italia, nei primi nove mesi del 2022 gli investimenti nell’edilizia sono cresciuti del 40 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019, mentre il valore aggiunto e l’occupazione nel settore sono aumentati del 27 e del 18 per cento.
Non tutta la crescita del settore delle costruzioni è comunque imputabile al Superbonus. Secondo stime preliminari della stessa Banca d’Italia, la metà circa degli investimenti che hanno beneficiato del Superbonus si sarebbero verificati anche in assenza dell’incentivo.

Sugli impatti positivi del Superbonus circolano da tempo anche le stime di enti di ricerca e società di consulenza, che vanno prese con molta cautela visto il potenziale conflitto di interesse di queste realtà con il settore dei bonus edilizi. Tra le società più citate c’è Nomisma, che realizza consulenze e ricerche di mercato per imprese, associazioni e istituzioni pubbliche. Secondo le stime più aggiornate di Nomisma, pubblicate il 21 febbraio, il Superbonus avrebbe avuto un impatto di 195,2 miliardi di euro sulla produzione tra effetti diretti, indiretti e sull’indotto. 

Per quanto riguarda il potenziale conflitto di interessi con i bonus edilizi, un discorso analogo vale anche per il Censis, un istituto di ricerca socioeconomica che si occupa anche di consulenza e assistenza tecnica, i cui rapporti sono molto citati in questi giorni e in passato.

I costi del Superbonus

Al di là delle diverse stime, se si guardasse solo ai risultati ottenuti con il Superbonus lo si potrebbe definire un successo. Ma il problema è l’efficienza dell’investimento: la misura genera sì benefici, ma a fronte di un costo molto alto.

Secondo i dati più aggiornati, alla fine di gennaio 2023 gli oneri a carico dello Stato per gli investimenti del Superbonus ammontavano a oltre 71 miliardi di euro, circa 35 miliardi di euro in più rispetto a quelli stimati inizialmente. La cifra supera i 120 miliardi di euro se si considerano anche altri bonus edilizi, tra cui il “bonus facciate”. 

Chi è favorevole al Superbonus obietta che una parte di questi soldi rientra comunque nelle casse dello Stato attraverso imposte come l’Irpef e l’Iva o attraverso i contributi previdenziali. Come abbiamo visto, è innegabile che il Superbonus abbia contribuito alla crescita economica e che abbia comportato nuove entrate per lo Stato sotto forma di imposte. Ma queste entrate addizionali, secondo le stime più attendibili, non basterebbero in ogni caso neppure a coprire la metà dei costi.

Discorso analogo vale per i risultati in termini ambientali. Secondo Nomisma la misura avrebbe ridotto le emissioni degli edifici di oltre 1,4 milioni di tonnellate di CO2. In valore assoluto può sembrare una cifra elevata, ma corrisponde più o meno allo 0,5 per cento delle emissioni di CO2 prodotte in Italia in un anno. Secondo uno studio di ottobre 2022 della Banca d’Italia, il 2067 sarà l’anno in cui, nelle migliori delle ipotesi, i benefici generati dal Superbonus 110 per cento in termini di riduzione delle emissioni di CO2 pareggeranno i costi della misura.

Ricapitolando: quanto scritto finora può riassumersi in una frase pronunciata il 21 febbraio in un’audizione in Senato dal capo del servizio Assistenza e Consulenza fiscale della Banca d’Italia Giacomo Ricotti. «Anche tenendo conto delle imposte e dei contributi sociali versati a fronte dell’aumento dell’attività del settore, gli oneri della misura per il bilancio pubblico restano comunque ingenti», ha dichiarato Ricotti.

Il blocco della cessione dei crediti

La scarsa efficienza dei bonus edilizi e il numero di frodi (a febbraio 2022 l’Agenzia delle entrate parlava di 4,4 miliardi di euro di crediti inesistenti, solo per il 3 per cento riconducibili però al Superbonus) avevano già spinto il precedente presidente del Consiglio Mario Draghi a intervenire, limitando la cessione dei crediti. I partiti della maggioranza che lo sostenevano, dal Movimento 5 stelle al Partito democratico, passando per la Lega e Forza Italia, erano però favorevoli a una proroga del Superbonus, approvata fino alla fine del 2022. In seguito c’è stato un ulteriore rinnovo fino al 2025, con una percentuale rimborsabile dei lavori via via più bassa, dal 90 al 65 per cento.

Come anticipato, l’importante novità di cui si discute in questi giorni è la decisione del governo di eliminare la possibilità di cedere il proprio credito d’imposta a un istituto finanziario o di ottenere direttamente lo sconto in fattura da chi effettua i lavori edilizi.

La cessione del credito permetteva a chi beneficiava del Superbonus di incassare immediatamente l’intero ammontare del credito d’imposta, anziché ottenere indietro il proprio denaro tramite una riduzione delle tasse diluita su più anni. Per farlo bastava cedere il proprio credito a un altro soggetto, per esempio una banca, che ha interesse ad acquistare il credito a un prezzo scontato e utilizzarlo per pagare le tasse. Il cittadino, invece, aveva così la possibilità di ottenere subito indietro buona parte dei soldi spesi per la ristrutturazione.

Lo sconto in fattura eliminava invece questa intermediazione: non solo il beneficiario del bonus poteva ottenere immediatamente indietro i soldi, ma non doveva nemmeno spenderli. Lo sconto in fattura, come suggerisce il nome, prevedeva una riduzione del prezzo direttamente al momento del pagamento dei lavori. In quel caso lo Stato “pagava” la differenza tra prezzo effettivo e prezzo scontato fornendo un credito d’imposta all’impresa costruttrice anziché al proprietario dell’immobile.

Entrambi questi meccanismi sono stati bloccati dal governo per disincentivare il ricorso al Superbonus e agli altri bonus edilizi. Dal 16 febbraio scorso è rimasta solo la possibilità di utilizzare il credito d’imposta per pagare le proprie tasse. 

Qui sorge però un primo problema dell’intervento del governo: molti cittadini non hanno abbastanza tasse da pagare per poter compensare i costi degli interventi edilizi con i crediti di imposta. Secondo un’analisi pubblicata il 17 febbraio su lavoce.info, per recuperare in quattro anni il costo dei lavori per un intervento da 50 mila euro, un lavoratore dipendente dovrebbe dichiarare un reddito annuo di almeno 43 mila euro (solo il 9 per cento dei dipendenti guadagna una cifra pari o superiore). L’intervento del governo ha dunque ridotto l’accesso al Superbonus soprattutto alle famiglie meno abbienti, mentre quelle con maggiori opportunità economiche potranno continuare a beneficiarne con i crediti d’imposta. Tra l’altro una delle critiche iniziali mosse al Superbonus era di non richiedere alcuna soglia di reddito per accedere al bonus fiscale.

Ci sono poi quelli che alcuni giornali chiamano gli “esodati del Superbonus”. Molte famiglie infatti hanno iniziato le pratiche per accedere al Superbonus ma ora si sono viste cambiare le regole in corso. Al momento il governo sta studiando misure per venire incontro a queste famiglie e alle imprese coinvolte.

Perché è intervenuto il governo

Il costo ritenuto troppo elevato non è l’unica ragione che ha spinto il governo a bloccare la cessione dei crediti d’imposta relativi ai bonus edilizi. Dietro alla scelta del governo Meloni c’è anche un problema di natura contabile

A oggi infatti non è ancora chiaro se il debito fiscale generato con i crediti di imposta debba essere contabilizzato nel bilancio pubblico nel momento in cui è stato emesso, ossia negli anni tra il 2020 e il 2022, oppure se debba essere considerato solo una volta che il credito d’imposta sarà utilizzato, ossia a partire da quest’anno. Nel primo caso il credito d’imposta sarebbe uno strumento definito “cedibile” (in inglese payable), mentre nel secondo caso sarebbe considerato “non cedibile” (in inglese non payable).

Quella che sembra una distinzione squisitamente tecnica in realtà ha conseguenze molto concrete. Sulla distinzione tra “cedibile” e “non cedibile” si gioca infatti lo spazio di azione economica futuro del governo Meloni. Se i crediti saranno contabilizzati negli scorsi anni, saranno inseriti all’interno del deficit passato (il deficit, semplificando, è la differenza tra le uscite e le entrate dello Stato), con conseguenze limitate. Se invece i crediti d’imposta dovessero essere contabilizzati nel deficit del 2023, il governo dovrebbe mettere da parte risorse per compensare le minori entrate fiscali, togliendole per esempio alla legge di Bilancio per il prossimo anno o ad altre misure. Se si concretizzasse il secondo scenario, il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha già detto che il governo dovrebbe «rinunciare al rinnovo di qualunque misura sociale» per il resto del 2023.

Su questo punto è attesa la decisione finale di Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, che tra le altre cose si occupa di definire i criteri di contabilità degli Stati europei. La decisione è attesa a giorni, ma secondo vari osservatori il blocco della cessione dei crediti d’imposta introdotto dal governo può essere letto come un segnale per spingere Eurostat a considerare i crediti di imposta come uno strumento “cedibile”.

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