Davvero solo l’1 per cento dei magistrati cambia carriera?

Lo ha detto il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte contro la riforma sulla seperazione delle carriere. Abbiamo verificato se è vero
Ansa
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Il 27 gennaio il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte si è collegato in diretta Facebook per discutere dei principali temi del dibattito politico e rispondere alle domande di alcuni utenti. Nel corso della diretta, Conte ha criticato (min. 17:05) la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, da poco approvata per la prima volta dalla Camera. In merito alla riforma, il presidente del Movimento 5 Stelle ha detto che attualmente «il passaggio delle carriere» tra giudici e pubblici ministeri «corrisponde a circa l’uno per cento» dei magistrati. «È questo il problema della nostra giustizia?» si è chiesto l’ex presidente del Consiglio.

Abbiamo verificato e secondo i dati più recenti è vero che solo una piccola percentuale di magistrati passa dalla funzione requirente a quella giudicante, e viceversa, nel corso della sua carriera.

Le due funzioni dei magistrati

Come abbiamo già spiegato in un nostro approfondimento, in Italia i magistrati possono svolgere due funzioni: quella giudicante e quella requirente. In un procedimento giudiziario, i magistrati giudicanti svolgono la funzione di giudice, mentre quelli requirenti corrispondono ai pubblici ministeri (i cosiddetti “Pm”), e rappresentano l’accusa. Tutti i magistrati seguono lo stesso percorso formativo e nel corso della carriera possono decidere di cambiare funzione, passando dal ruolo di giudice a quello di Pm al massimo una volta, ed entro i primi dieci anni della loro attività. Fino al 2022 i cambi di funzione potevano essere al massimo quattro, ma il limite è stato per l’appunto abbassato con la riforma voluta dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia.

In breve, l’obiettivo della riforma è separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, obbligando i magistrati a scegliere la funzione giudicante o quella requirente all’inizio delle loro carriere, senza possibilità di cambiamenti successivi. Secondo i sostenitori della riforma, il divieto di passaggio da una funzione all’altra garantirebbe una maggiore indipendenza dei giudici. A detta loro, un magistrato che per anni si è occupato di formulare l’accusa nei processi, nel ruolo del Pm, rischierebbe di non essere imparziale nel caso in cui passasse alla funzione di magistrato giudicante. Secondo i critici della riforma, invece, la separazione delle carriere contribuirebbe a indebolire i magistrati stessi, esponendoli a una maggiore influenza del potere politico.

Al netto delle opinioni politiche, quanti magistrati cambiano carriera stando ai dati più recenti?

I cambi di carriera

I dati pubblici più aggiornati sulla separazione delle carriere risalgono al 2019 e sono stati pubblicati dal Consiglio superiore della magistratura (CSM), l’organo di autogoverno della magistratura in Italia. La ricerca è basata su un campione di 12.212 magistrati, che corrispondono al 98 per cento dai magistrati assunti dal 1965 al 2017. Una sezione dello studio è dedicata proprio all’analisi dei cambiamenti dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti, e viceversa.

Fino al 2018, il 74,1 per cento dei magistrati (9.048) presi in esame non aveva fatto alcun cambio di funzione, mentre il 25,9 per cento (3.164) ne aveva fatto almeno uno. In questa percentuale però sono compresi magistrati assunti anche 60 anni fa, quando non esistevano limiti al cambio di funzione, o comunque ne erano previsti di meno. L’analisi del CSM permette comunque di andare più in profondità nei dati. Per esempio, il numero maggiore di magistrati che ha cambiato funzione da requirente a giudicante, e viceversa, è stato assunto dal 1985 al 1994. In questo periodo di tempo, i magistrati che hanno cambiato funzione sono stati 1.072 sui 3.194 assunti all’epoca. Tra i 2.517 magistrati assunti tra il 2005 e il 2017, invece, quelli che hanno deciso di cambiare funzione sono stati appena 45. In poche parole, negli ultimi 12 anni presi in considerazione dallo studio, meno del due per cento dei magistrati è passato dalla funzione giudicante a quella requirente, e viceversa.

Come suggerisce lo studio del CSM, è probabile che su questa dinamica abbia in parte influito l’inserimento progressivo di vincoli ai cambi di funzione. In questo senso, le ulteriori restrizioni alla possibilità di cambiare carriera introdotte nel 2022 sembrano aver contribuito a far scendere ulteriormente le già basse percentuali di magistrati che optano per questa possibilità.

Il dato di Conte

Il 23 luglio 2024, in un’audizione durante l’esame della riforma sulla separazione delle carriere alla Camera, la prima Presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano ha detto (min. 1:48:05) che «in seguito alle modifiche del 2022, di fatto la strada del pubblico ministero e quella del giudice si sono allontanate professionalmente», tanto che, «negli ultimi cinque anni è pari allo 0,83 per cento la percentuale di pubblici ministeri che sono passati a funzioni giudicanti e allo 0,21 per cento la percentuale dei giudici che sono passati a funzioni requirenti». Questi dati riportati da Cassano sono vicini al dato dell’1 per cento citato da Conte nella diretta Facebook.

Ricapitolando: secondo Giuseppe Conte il passaggio delle carriere tra giudici e pubblici ministeri è effettuato solo dall’1 per cento dei magistrati. Questa percentuale è sostanzialmente in linea con i dati più aggiornati pubblicamente disponibili.

«Un problema culturale»

Percentuali così esigue di magistrati che passano dalla funzione requirente a quella giudicante, e viceversa, potrebbero far porre dei legittimi dubbi sull’utilità della riforma sulla separazione delle carriere. La stessa Cassano, durante l’audizione, ha dichiarato che a suo parere la riforma «ha un valore simbolico più che realmente incidente sull’assetto complessivo della magistratura».

Sul tema è intervenuto in questi mesi pure il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto (Forza Italia), che lo scorso dicembre ha definito la questione «un problema culturale». «La figura geometrica più propria è il triangolo isoscele, alla cima di questo triangolo c’è il giudice; ai due lati, stessa distanza, devono esserci l’accusa e la difesa», ha spiegato Sisto. «La stessa distanza che c’è tra il giudice e la difesa deve esserci tra il giudice e l’accusa. Si è mai visto un arbitro della stessa città delle due squadre che scendono in campo? Mai», ha aggiunto. 

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