Quanti miliardi costerà all’Italia l’aumento della spesa militare

L’impegno preso con la NATO di destinare il 5 per cento del PIL alla difesa richiederà un grosso sforzo economico. Ma di quali cifre stiamo parlando?
ANSA
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Nel vertice del 24 e 25 giugno a L’Aia, nei Paesi Bassi, gli Stati membri della NATO hanno ufficialmente stabilito che, entro il 2035, ciascuno dovrà destinare alla difesa una quota pari al 5 per cento del proprio Prodotto interno lordo (PIL).

Nei giorni precedenti, esponenti di vari partiti hanno fornito in Parlamento stime divergenti sul costo che l’Italia dovrà sostenere per adempiere a questo nuovo impegno. C’è chi ha parlato di poche decine di miliardi, chi di oltre 100 miliardi e chi, come la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, di oltre 400 miliardi «in più in dieci anni».

Al termine del vertice Nato, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ridimensionato lo sforzo economico richiesto, sostenendo che il nuovo obiettivo «non è distante» dall’impegno assunto dall’Italia nel 2014 – confermato da tutti i governi successivi – di portare la spesa militare italiana al 2 per cento del PIL. «Parliamo di un incremento delle spese in difesa dell’1,5 per cento in dieci anni», ha spiegato, ricordando che nel 2014 l’Italia partiva dall’1 per cento.

Ma quali sono i numeri esatti? Quanto dovrà effettivamente spendere l’Italia per rispettare l’intesa con gli alleati? Proviamo a fare chiarezza.

Le due parti del 5 per cento

Innanzitutto è necessario capire quali voci rientrano nel nuovo obiettivo del 5 per cento del PIL.

«Gli alleati si impegnano a destinare ogni anno il 5 per cento del PIL alle esigenze fondamentali della difesa [core defence, in inglese, ndr] e alle spese connesse alla difesa e alla sicurezza entro il 2035, per garantire i nostri obblighi individuali e collettivi», si legge nelle conclusioni del vertice dell’Aia.

In pratica, i Paesi hanno suddiviso l’impegno in due componenti principali: almeno il 3,5 per cento andrà alla spesa militare vera e propria, per soddisfare i «requisiti fondamentali della difesa» e gli «obiettivi di capacità della NATO». Il restante 1,5 per cento potrà essere usato, fra l’altro, per «proteggere le infrastrutture critiche», rafforzare la «resilienza civile» e sostenere l’innovazione e l’industria della difesa.

Gli obiettivi di capacità (capability targets, in inglese) indicano che cosa ogni Paese deve essere in grado di fare, dal punto di vista militare, per contribuire alla difesa collettiva. Non si tratta solo di avere soldati o armi, ma di coordinare vari elementi: come si è organizzati, come ci si addestra, quali tecnologie si usano, che tipo di strutture si possiedono e se tutto questo può integrarsi con le forze degli altri Paesi.

In altre parole, nel 3,5 per cento rientrano le spese strettamente militari previste dalla definizione ufficiale della NATO: le forze armate, l’addestramento, l’acquisto e la manutenzione di armi e mezzi, la logistica e altre voci, tra cui il supporto militare all’Ucraina. L’1,5 per cento comprende invece voci più ampie legate alla sicurezza, come la protezione delle infrastrutture critiche (porti, reti elettriche, ferrovie), la difesa delle reti informatiche, il rafforzamento della preparazione civile in caso di emergenze e il sostegno alla ricerca e innovazione nel settore.

L’accordo non impone aumenti annuali prefissati. Come spiegano le conclusioni del vertice, nel 2029 verrà fatta una valutazione della traiettoria di spesa degli alleati, che ogni anno dovranno comunque presentare una relazione sul percorso «credibile» e «incrementale» verso il 5 per cento.

Il punto di partenza

Quanto spende oggi l’Italia in difesa? La risposta cambia a seconda delle voci conteggiate. Se si considera il bilancio del Ministero della Difesa, sommato ad alcuni capitoli di spesa di altri dicasteri, emerge una cifra diversa da quella calcolata, per esempio, dall’Unione europea o dalla NATO. Qui utilizziamo le stime dell’alleanza militare, dato che l’aumento è stato concordato proprio in quel contesto.

Le stime più aggiornate, riferite al 2024, indicano che lo scorso anno l’Italia ha speso in difesa circa l’1,5  per cento del proprio PIL, una quota superiore all’1,1 per cento del 2014, ma non abbastanza da rispettare l’impegno del 2 per cento. Il Paese con la spesa più alta era la Polonia (4,1 per cento), seguita dall’Estonia (3,4 per cento) e dagli Stati Uniti (3,3 per cento). Secondo alcuni osservatori, la soglia del 3,5 per cento è stata scelta proprio per allineare la spesa di tutti i membri della NATO a quella statunitense.
In valori assoluti, secondo la NATO, nel 2024 l’Italia ha speso 32 miliardi di euro in difesa. Ne consegue che un punto di PIL italiano vale circa 21 miliardi di euro.

Nelle scorse settimane, il governo ha più volte ribadito che, nel 2025, la spesa in difesa raggiungerà il 2 per cento del PIL. Ad aprile, in un’audizione parlamentare, il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha spiegato che l’obiettivo sarebbe stato centrato non con nuovi stanziamenti, ma includendo voci finora escluse (per esempio, Guardia costiera, Guardia di Finanza e spese per la cybersicurezza). Meloni ha successivamente confermato il ricorso a questo espediente contabile in altri interventi.

Al momento però non esistono documenti ufficiali della NATO che certifichino il raggiungimento di quella soglia. Se lo si desse per acquisito, l’Italia spenderebbe quest’anno circa 42 miliardi di euro in difesa.

Quanto manca all’obiettivo

Per stimare il costo del nuovo accordo con la NATO, la prima tentazione è questa: se con 32 miliardi spesi in difesa l’Italia si colloca all’1,5 per cento del PIL, per arrivare al 5 per cento il governo dovrebbe più che triplicare la spesa, portandola a circa 105 miliardi l’anno, oltre 70 miliardi in più. Se invece si prendono per buoni i 42 miliardi del 2 per cento, la differenza scenderebbe a poco più di 60 miliardi.

C’è però un primo problema: l’obiettivo del 5 per cento è suddiviso in due traguardi diversi, come abbiamo visto. La spesa strettamente militare dovrà salire al 3,5 per cento. Dunque, l’incremento non sarebbe di 3,5 punti di PIL (5 meno 1,5), ma di 2 punti, o di 1,5 punti se partissimo dal 2 per cento. Si tratta di un aumento tra i 32 e i 42 miliardi, che tuttavia non andranno stanziati in un solo anno.

L’Italia, infatti, ha dieci anni per raggiungere il 3,5 per cento del PIL destinato alla difesa. Così, ogni anno, il governo di turno dovrà trovare in media tra i 3 e i 4 miliardi aggiuntivi rispetto all’anno precedente per aumentare gradualmente la spesa militare e rispettare l’obiettivo del 3,5 per cento entro il 2035. Nel complesso, la spesa aggiuntiva accumulata in dieci anni per raggiungere l’obiettivo del 3,5 per cento sarà tra i 165 e i 220 miliardi di euro.

Perché le stime sono incerte

Lo scenario descritto finora è semplificato, perché non considera un fattore importante: la crescita del PIL. L’impegno della NATO si basa su un indicatore – il Prodotto interno lordo – che non è fisso, ma varia di anno in anno. Poiché nel rapporto tra spesa militare e PIL quest’ultimo si trova al denominatore, un aumento del PIL fa scendere automaticamente la spesa militare in percentuale.

Di conseguenza, nei prossimi dieci anni non basteranno 3 o 4 miliardi in più all’anno: servirà anche compensare la diminuzione del rapporto con ulteriori risorse per la difesa. Il problema è che prevedere l’andamento dell’economia italiana da qui al 2035 è molto difficile, e quindi lo è anche stimare con precisione quanto sarà necessario investire in termini assoluti.

Questo però potrebbe non rappresentare un ostacolo. Se il PIL crescerà, i cittadini tendenzialmente avranno redditi più alti, pagheranno più tasse e lo Stato potrà permettersi di spendere di più, anche in difesa. Quello che conta è che, nei prossimi dieci anni, lo Stato italiano dovrà destinare alla difesa risorse il cui valore, in termini odierni, equivale a una cifra compresa tra i 165 e i 220 miliardi di euro. Se l’anno prossimo il PIL e i prezzi raddoppiassero, anche raddoppiando la spesa in termini assoluti si tratterebbe comunque dello stesso sforzo economico in termini reali.

E qui c’è un’altra distinzione fondamentale da tenere a mente. Finora abbiamo parlato di PIL in termini nominali, non reali. In parole semplici, il PIL nominale include l’inflazione, il PIL reale invece la esclude e misura solo la crescita effettiva dell’economia. Perché questa differenza è importante? Perché se il costo degli armamenti crescerà più della media dei prezzi, l’Italia finirà per acquistare meno armi del previsto: i prezzi più alti faranno aumentare la spesa militare più velocemente. Al contrario, se i prezzi cresceranno poco, sarà più facile raggiungere il 3,5 per cento (o il 5 per cento, a seconda del parametro considerato) ottenendo una quantità maggiore di armamenti.

L’altra metà dell’impegno

Tutto ciò che è stato detto finora riguarda la spesa in difesa intesa come core defence. Ma entro il 2035 un’ulteriore quota pari all’1,5 per cento del PIL dovrà essere destinata a un altro tipo di spesa: quella «connessa» alla difesa e alla sicurezza. In questa categoria, secondo le indicazioni fornite finora dalla NATO, sembra possa rientrare una varietà piuttosto ampia di voci.

Nelle ultime settimane, alcune fonti stampa hanno riportato che il governo italiano vorrebbe includere tra le spese conteggiate per la NATO anche la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, il cui costo stimato è di 13,5 miliardi di euro, comprese le opere collegate. 

Al momento, non è possibile sapere con certezza a che punto sia oggi l’Italia rispetto a questa soglia dell’1,5 per cento, né quanto sia vicina o lontana dal raggiungerla. Insomma, non sappiamo quanti dei circa 32 miliardi di euro di questo obiettivo vengono già spesi dall’Italia.

Non è inoltre chiaro se, tra le spese che il governo ha detto di aver conteggiato per arrivare quest’anno a una spesa in difesa pari al 2 per cento del PIL, ci siano voci che, secondo il nuovo accordo, dovrebbero essere incluse tra quelle connesse alla difesa e alla sicurezza, e non nella difesa vera e propria.

Se così fosse, una parte dei miliardi che finora sono stati conteggiati come spesa per la difesa andrebbero in realtà spostati nell’altro capitolo. E questo implicherebbe che la spesa aggiuntiva necessaria per raggiungere il 3,5 per cento sarebbe più alta di quanto previsto.

Dove prendere i soldi

Miliardo più, miliardo meno, il problema di fondo resta: dove troveranno le risorse il governo Meloni e i governi futuri per rispettare l’impegno preso con la NATO?

In estrema sintesi, ci sono quattro principali fonti da cui è possibile reperire fondi. La prima è tagliare altre voci di spesa e destinare i risparmi alla difesa. È quanto è avvenuto nel 2023, quando una parte dei soldi risparmiati con la revisione del reddito di cittadinanza è stata utilizzata per finanziare gli aiuti all’Emilia-Romagna dopo le alluvioni. In un punto stampa al termine del vertice, Meloni ha promesso che il governo non distoglierà «neanche un euro dalle priorità del governo a difesa e a tutela degli italiani».

La seconda opzione è aumentare le tasse e usare il gettito extra per coprire le nuove spese militari. Un esempio recente: lo scorso maggio l’accisa sul gasolio è salita di 1,5 centesimi al litro (e continuerà ad aumentare nei prossimi anni fino a raggiungere +5 centesimi). Con queste entrate il governo ha promesso di finanziare il trasporto pubblico locale.

In terzo luogo, il governo potrebbe puntare sulle privatizzazioni, vendendo per esempio le proprie quote in alcune società pubbliche. Il problema è che, in passato, le privatizzazioni non hanno portato a risultati significativi e, anche se questa volta andassero meglio, si tratterebbe comunque di entrate una tantum, non permanenti.

Infine, resta la possibilità di finanziare l’aumento della spesa in difesa ricorrendo al debito.

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Il ruolo dell’Europa

Negli scorsi mesi è stato approvato il ReArm Europe Plan/Readiness 2030, il piano promosso dalla Commissione europea per sostenere l’aumento delle spese militari nei 27 Paesi dell’Ue. Tra le varie misure previste, tra il 2025 e il 2028 questo piano consente agli Stati membri di aumentare la spesa in difesa senza violare le regole europee sui vincoli di bilancio, in particolare quelle che riguardano il rapporto tra debito pubblico e PIL e tra deficit (cioè la differenza negativa tra entrate e uscite) e PIL.

Nel gergo tecnico, si dice che i Paesi Ue possono chiedere di attivare la cosiddetta “clausola di salvaguardia”. Finora, almeno 16 Stati – tra cui la Germania – hanno scelto di usare questa opzione.

Lo scorso maggio l’Ue ha inoltre lanciato il programma SAFE (acronimo di Security Action for Europe). Questo «strumento di azione per la sicurezza dell’Europa» prevede uno stanziamento di 150 miliardi di euro per progetti industriali nel settore della difesa, a condizione che siano realizzati congiuntamente da almeno due Paesi Ue. Anche in questo caso si tratta di prestiti a lungo termine, concessi a tassi competitivi, che dovranno poi essere rimborsati dai Paesi beneficiari. In altre parole, i fondi previsti da SAFE non sono contributi a fondo perduto, ma prestiti.

Alcuni esponenti del governo italiano, tra cui il ministro degli Esteri Antonio Tajani, hanno già chiarito che l’Italia non chiederà l’attivazione della “clausola di salvaguardia” e che la priorità dell’Italia è uscire dalla procedura per deficit eccessivo avviata dall’Ue. 

Al termine del vertice NATO, Meloni ha dichiarato che il governo ha già fatto i suoi calcoli e che nel 2026 non sfrutterà la possibilità di sforare le regole sul debito per finanziare la spesa militare. «Poi chiaramente per gli anni a venire si valuterà sulla base di quella che è la situazione economica», ha aggiunto la presidente del Consiglio, lasciando intendere che in futuro potrebbe comunque essere presa in considerazione questa strada per reperire nuove risorse.

Più spesa, più crescita?

Secondo la presidente del Consiglio, un aumento della spesa per la difesa può innescare un «circolo virtuoso», una «politica economica espansiva che produce risorse». In teoria è possibile. Ma nella pratica, la spesa militare italiana finora non si è rivelata particolarmente produttiva.

Nel 2024, l’Italia era il Paese della NATO che destinava la quota più alta della sua spesa in difesa al personale: quasi il 60 per cento. Se anche i nuovi investimenti dovessero concentrarsi soprattutto sui costi del personale, anziché sulla ricerca e sviluppo nel settore militare, è probabile che l’impatto sulla crescita del PIL resti limitato.

Va poi considerato un altro aspetto: le importazioni. Molti armamenti verranno acquistati all’estero, ma queste spese non contribuiscono al PIL. Anzi, le importazioni lo riducono, perché acquistare un bene o un servizio dall’estero sottrae valore alla produzione interna.

Di recente, l’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) – l’organismo indipendente che vigila sui conti pubblici italiani – ha elaborato due scenari per stimare l’impatto sul PIL di un aumento della spesa militare, tenendo conto sia delle importazioni sia della spesa per il personale. Secondo l’UPB, l’effetto sulla crescita dell’economia italiana non appare particolarmente rilevante.

Tiriamo le somme

Torniamo ora alle dichiarazioni citate all’inizio dell’articolo, alla luce di quanto abbiamo visto finora.

Secondo Meloni, il nuovo impegno sottoscritto con la NATO «non è distante» da quello del 2014, quando l’Italia spendeva l’1,1 per cento del PIL in difesa e si era impegnata a raggiungere il 2 per cento nel giro di dieci anni. Ma la presidente del Consiglio appare troppo ottimista: per arrivare al nuovo obiettivo del 3,5 per cento del PIL destinato alla core defence, l’Italia dovrà aumentare la spesa non di un solo punto percentuale, ma di almeno uno e mezzo o due, a seconda di quale sia la base di partenza.

A questo va aggiunto l’1,5 per cento di PIL che dovrà essere destinato alle spese connesse alla difesa e alla sicurezza. Ma – come detto – al momento non sappiamo con certezza a che punto sia l’Italia rispetto a questo secondo traguardo.

Schlein, dal canto suo, parla di una spesa di oltre 400 miliardi di euro «in più» in difesa nell’arco di dieci anni. Questa cifra si ottiene considerando l’intero impegno previsto dall’accordo con la NATO, cioè l’obiettivo complessivo del 5 per cento. Come detto, però, non sappiamo che cosa sarà conteggiato dall’Italia nell’1,5 per cento di spesa «connessa» alla difesa e alla sicurezza e quanto di questa spesa sarà sicuramente aggiuntiva.

Al netto delle dichiarazioni politiche, i numeri mostrano che l’impegno preso con la NATO rappresenta un obiettivo ambizioso, che richiederà all’Italia uno sforzo economico significativo e costante nei prossimi dieci anni. Resta da vedere con quali strumenti verranno trovate le risorse necessarie, come sarà valutata la qualità della spesa e se davvero una parte consistente di questi investimenti potrà tradursi, come promesso, in benefici per l’economia e la sicurezza del Paese.

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