Errori e omissioni di Meloni nel comizio per le regionali in Liguria

Abbiamo verificato sette dichiarazioni della presidente del Consiglio fatte a Genova per chiudere la campagna elettorale
ANSA/LUCA ZENNARO
ANSA/LUCA ZENNARO
Il 25 ottobre la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha chiuso a Genova la campagna elettorale per le elezioni regionali in Liguria, vinte poi dal candidato del centrodestra Marco Bucci. 

Nel suo discorso Meloni ha rivendicato una serie di risultati, dall’economia all’immigrazione, commettendo però alcuni errori e omettendo informazioni importanti.

La crescita del Pil

«L’Italia oggi cresce più della media dell’Eurozona, più della Francia, più della Germania»

Questa dichiarazione di Meloni è esagerata. Secondo Eurostat, nel 2023 il Prodotto interno lordo (Pil) dell’Italia è cresciuto dello 0,7 per cento rispetto al 2022. Questa percentuale è più alta della crescita media dell’area euro (+0,4 per cento) e di quella della Germania (-0,3 per cento), ma è più bassa della crescita della Francia (+0,9 per cento). L’anno scorso 14 Paesi su 27 dell’Unione europea sono cresciuti più dell’Italia, tra cui la Spagna (+2,7 per cento).

I dati più recenti di Eurostat sulla crescita registrata nel 2024 arrivano fino al secondo trimestre di quest’anno. Finora la crescita italiana è stata in linea con quella dell’area euro, leggermente più bassa di quella francese, ma più alta di quella tedesca. 

Le previsioni pubblicate il 22 ottobre dal Fondo monetario internazionale (FMI) mostrano che quest’anno il Pil italiano crescerà dello 0,7 per cento rispetto al 2023, una percentuale più bassa di quella francese (+1,1 per cento) e di quella media dell’area euro (+0,8 per cento), ma più alta di quella tedesca (+0 per cento).
Tabella 1. Le previsioni del Fondo monetario internazionale sulla crescita del PIL – Fonte: FMI
Tabella 1. Le previsioni del Fondo monetario internazionale sulla crescita del PIL – Fonte: FMI

L’attuazione del Pnrr

Anche questa dichiarazione, ripetuta spesso da Meloni, è esagerata. Fino a oggi l’Italia ha raggiunto 232 traguardi e obiettivi sui 617 concordati con l’Ue: in valore assoluto questo è il numero più alto, ma i 27 Paesi Ue hanno tutti concordato un numero diverso di traguardi e obiettivi.

In percentuale, finora l’Italia ha raggiunto il 37 per cento degli obiettivi e traguardi del suo piano. Secondo i dati della Commissione europea più aggiornati, quattro Paesi hanno percentuali di attuazione dei loro piani più alte: Francia, Danimarca, Lussemburgo e Malta.
Il problema principale dell’Italia è la spesa delle risorse del Pnrr, che continua a essere in ritardo. Al momento il nostro Paese ha speso 53,5 miliardi di euro di risorse del Pnrr: questa cifra equivale al 27,5 per cento dei 194,4 miliardi di euro di valore complessivo del piano e a quasi il 48 per cento dei circa 113 miliardi erogati finora dall’Ue. Dei soldi spesi, però, poco più della metà fa riferimento a misure già previste prima dell’approvazione del Pnrr, il cui finanziamento è stato poi parzialmente incluso nel Pnrr.

Le tasse nella nuova legge di Bilancio

«Abbiamo appena varato la nostra terza legge di Bilancio […] senza aumentare le tasse dei cittadini»

Questa dichiarazione rischia di essere fuorviante, visto che omette informazioni importanti. 

Il disegno di legge di Bilancio per il 2025, all’esame della Camera, contiene misure importanti sul fronte del fisco. Per esempio il governo è riuscito a rendere strutturale, e ad ampliare, il taglio del cuneo fiscale in vigore solo temporaneamente nel 2024, e la riduzione da quattro a tre del numero di aliquote dell’IRPEF (l’imposta sui redditi delle persone fisiche).

A differenza di quanto sostenuto dalla presidente del Consiglio, però, il disegno di legge di Bilancio propone di aumentare alcune imposte. Per esempio, il testo vuole estendere la cosiddetta web tax, un’imposta applicata sulle vendite dei servizi digitali, anche a tutte le imprese che in Italia offrono questi servizi, e non solo alle più grandi. Un altro esempio di imposta aumentata riguarda le criptovalute: la manovra finanziaria propone di portare dal 26 per cento al 42 per cento l’aliquota che si paga sulle plusvalenze che si realizzano vendendo o comprando criptovalute. In più, il disegno di legge di Bilancio per il 2025 vuole ridurre ai contribuenti con un reddito superiore ai 75 mila euro le detrazioni fiscali, ossia le agevolazioni che permettono di ridurre le tasse da pagare allo Stato. In concreto, se il testo fosse approvato, questo si tradurrà in un aumento delle tasse per le fasce di reddito superiori.

In generale, nel Documento programmatico di bilancio (DPB) lo stesso governo Meloni ha previsto che nel 2025 la pressione fiscale, ossia il rapporto tra tasse incassate e PIL, non calerà, ma rimarrà ai livelli del 2024, ossia al 42,3 per cento. Questa percentuale è frutto di un aumento rispetto al 2023, quando la pressione è stata pari al 41,5 per cento.

La riforma del “premierato”

«Con il premierato dicono che noi vogliamo mettere tutto il potere nelle mani di una persona sola, ma noi non tocchiamo i poteri del premier»

Qui Meloni fa una ricostruzione troppo semplicistica del contenuto della riforma del premierato (ora all’esame della Camera), con cui il governo vuole introdurre l’elezione diretta del presidente del Consiglio. 

In base alla riforma, il presidente della Repubblica non «nomina» più il presidente del Consiglio, ma «conferisce al presidente del Consiglio eletto l’incarico di formare il governo», e su sua proposta «nomina e revoca» i ministri. In parole semplici, il presidente della Repubblica “conferisce” l’incarico, e non nomina più il presidente del Consiglio come avviene oggi, e in più può revocare su richiesta di quest’ultimo un ministro. In questo modo il ruolo del presidente del Consiglio acquisterà più peso rispetto a quello del presidente della Repubblica, che tra le altre cose non potrà più incaricare un tecnico per formare e guidare un governo, come avvenuto con Mario Draghi o Mario Monti.

Il presidente del Consiglio acquista un ruolo diverso anche nelle crisi di governo. Con la riforma, entro dieci giorni dalla sua formazione, il governo deve ottenere la fiducia della Camera e del Senato. Se non ci riesce, il presidente della Repubblica ridà un nuovo incarico al presidente del Consiglio eletto dagli elettori di formare un governo. Se anche questo tentativo fallisce e il governo non ottiene la fiducia di Camera e Senato, il presidente della Repubblica scioglie il Parlamento e si torna al voto. Si va a votare anche nel caso in cui uno tra il Senato e la Camera revoca la fiducia al presidente del Consiglio. 

Se il presidente del Consiglio decide di dimettersi, si aprono due ipotesi. Entro sette giorni il presidente del Consiglio può chiedere al presidente della Repubblica di sciogliere il Parlamento e di andare al voto. Se decide di non esercitare questa facoltà per vari motivi (tra cui il suo «impedimento permanente»), il presidente della Repubblica può incaricare il presidente del Consiglio dimissionario di formare un nuovo governo o può dare l’incarico a un «altro parlamentare eletto in collegamento con il presidente del Consiglio». Questo però può avvenire solo una volta nel corso di una legislatura.

Il dibattito sull’immigrazione

«Quando noi siamo arrivati si parlava di immigrazione, si parlava solamente di come redistribuire i migranti. Oggi si parla solamente di come fermare l’immigrazione illegale di massa»

Già negli scorsi mesi la presidente del Consiglio ha esagerato i risultati ottenuti dal governo italiano sull’immigrazione. Come abbiamo spiegato in altri fact-checking, nelle conclusioni di vari Consigli europei, prima della partecipazione del governo Meloni, i Paesi Ue hanno sottolineato più volte l’importanza di contrastare gli arrivi illegali di migranti via mare.

Al di là dell’iperbole, resta esagerato dire che oggi in Europa si discute «solamente» di come fermare le partenze illegali. Per esempio, dopo trattative durate anni, lo scorso maggio è stata approvata la riforma del “Regolamento di Dublino”, che prevede un meccanismo di ridistribuzione dei richiedenti asilo tra i vari Paesi Ue, che si attiverà in caso di circostanze eccezionali.

Il finanziamento alla sanità

«Nella storia d’Italia nessun governo ha mai messo sulla sanità quanto questo governo»

Con questa dichiarazione, Meloni fa riferimento al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, che con il nuovo disegno di legge di Bilancio per il 2025 cresce ancora nei prossimi anni. Ma come abbiamo spiegato in un recente fact-checking, per almeno due motivi è fuorviante usare le cifre in valore assoluto del finanziamento al Servizio sanitario nazionale per cercare di dimostrare, come fa Meloni, che l’attuale governo ha messo più risorse dei suoi predecessori sulla sanità.

Quando parla di finanziamento al Servizio sanitario nazionale, la presidente del Consiglio parla del valore di risorse espresso in termini nominali. Il valore del finanziamento del Servizio sanitario nazionale in termini nominali rappresenta l’importo totale assegnato senza tenere conto dell’inflazione o del potere d’acquisto nel tempo. In altre parole, è la cifra espressa nei prezzi correnti dell’anno in cui viene calcolata. Salvo rari casi, dal 2000 al 2024 il finanziamento al Servizio sanitario nazionale è sempre aumentato in valori nominali.

Discorso diverso vale se si considera il valore del finanziamento del Servizio sanitario nazionale in termini reali. Questo valore tiene conto dell’inflazione e riflette il potere d’acquisto effettivo della somma assegnata al fondo. In parole semplici, esprime quanto denaro sarebbe equivalente in un anno di riferimento con un livello di prezzi costante, permettendo di valutare l’effettivo potere di spesa del Servizio sanitario nazionale nel tempo. Come mostra il grafico, in vari anni c’è stato un calo in termini reali del finanziamento del Servizio sanitario nazionale, dal momento che gli aumenti non hanno tenuto il passo dell’inflazione.
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Un altro modo per quantificare quante risorse mette uno Stato sulla sanità è rapportare il valore di queste risorse al PIL, ossia – semplificando un po’ – alla ricchezza prodotta dal Paese. Come si vede sempre dal grafico sopra, nonostante in valori assoluti le risorse per il Servizio sanitario nazionale siano quasi sempre aumentate, il rapporto con il PIL è sceso in vari periodi, da ultimo gli anni successivi al 2020, quando è iniziata la pandemia di Covid-19, che ha fatto crollare il PIL, oltre a spingere i governi a stanziare più risorse sulla sanità. Durante una conferenza stampa, il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha ammesso che la nuova legge di Bilancio mantiene «invariata» la percentuale rispetto al PIL per quanto riguarda il finanziamento al Servizio sanitario nazionale. Stiamo parlando di una percentuale intorno al 6,3 per cento del PIL.

La classifica dell’export

«Per la prima volta noi siamo diventati la quarta nazione esportatrice al mondo»

La fonte di questa dichiarazione è un articolo di Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison ed ex consigliere economico di Matteo Renzi quando era presidente del Consiglio, pubblicato il 25 agosto dal Sole 24 Ore. Secondo i calcoli di Fortis, tra gennaio e giugno 2024 le esportazioni italiane hanno raggiunto un valore di 316 miliardi di euro: questo è il quarto dato più alto al mondo, dietro a Cina, Stati Uniti e Germania, e davanti al Giappone, fermo a 312 miliardi di euro.

Questi numeri vanno letti però con attenzione, per almeno due motivi. In primo luogo, quando si confrontano i dati delle esportazioni tra Paesi diversi, per poter fare paragoni diretti spesso si convertono i valori nella stessa valuta. In questo caso i valori in yen (la valuta giapponese) sono stati convertiti in euro. Ma se il tasso di cambio tra yen ed euro è cambiato negli ultimi mesi, questo può avere avuto un effetto sul confronto tra i due Paesi. E in effetti è quello che è avvenuto, con lo yen che ha perso valore nei confronti dell’euro.  

In secondo luogo, i numeri che abbiamo appena visto non ci dicono qual è stato l’andamento delle esportazioni italiane. Come ha sottolineato lo stesso Fortis nel suo articolo, nei primi sei mesi di quest’anno il valore delle esportazioni italiane è calato dell’1,1 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Secondo Istat, nella prima metà del 2024 c’è stato anche un calo in volumi delle esportazioni dell’Italia. Di questo calo Meloni non ne ha parlato durante il suo comizio. Il calo in volumi è confermato anche dai dati più recenti di Istat sul commercio internazionale, che arrivano fino al mese di agosto.

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