Che cosa prevede la riforma del premierato approvata dal Senato

Il testo, che contiene l’elezione diretta del presidente del Consiglio, ora passerà alla Camera. Il suo percorso è ancora lungo
ANSA
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Nel pomeriggio di martedì 18 giugno l’aula del Senato ha approvato il disegno di legge di riforma costituzionale sul cosiddetto “premierato”, che contiene l’introduzione in Costituzione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio. Ora il testo passa alla Camera dei deputati e in caso di approvazione dovrà essere votato di nuovo un’altra volta da entrambe le aule. 

La riforma è stata presentata in Parlamento dal governo Meloni a novembre 2023 e nel corso dell’esame in Commissione Affari costituzionali del Senato, durato circa cinque mesi, il contenuto della riforma – poi approvata dall’aula – è un po’ cambiato. 

Punto per punto, vediamo che cosa prevede la riforma (qui è disponibile il testo ufficiale) e come potrebbe cambiare in futuro la Costituzione.

L’elezione diretta del presidente del Consiglio

La modifica principale contenuta nella riforma riguarda l’articolo 92 della Costituzione. A oggi questo articolo prevede che il governo italiano è composto dal presidente del Consiglio e dai ministri: il presidente della Repubblica «nomina» entrambi, ma i ministri su «proposta» del presidente del Consiglio. 

In base alla riforma, il presidente del Consiglio è invece eletto «a suffragio universale e diretto», per un mandato di cinque anni, ma non per «più di due legislature consecutive». È comunque prevista un’eccezione: se un presidente del Consiglio ricopre l’incarico per meno di sette anni e sei mesi (magari perché un suo governo è caduto prima della scadenza naturale), può governare per tre legislature consecutive. Il presidente del Consiglio è eletto «contestualmente» alle elezioni di Camera e Senato ed è eletto nella camera dove ha presentato la candidatura.

Il Parlamento dovrà poi approvare una specifica legge elettorale per regolare il sistema per l’elezione del Parlamento e del presidente del Consiglio, assegnando ai partiti che sostengono il presidente del Consiglio eletto un numero di seggi sufficiente per avere la maggioranza in Parlamento. Questo numero di seggi si chiama “premio di maggioranza” e dovrà essere assegnato «nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche».

In base alla riforma, il presidente della Repubblica non «nomina» più il presidente del Consiglio, ma «conferisce al presidente del Consiglio eletto l’incarico di formare il governo», e su sua proposta «nomina e revoca» i ministri. In parole semplici, il presidente della Repubblica “conferisce” l’incarico, e non nomina più il presidente del Consiglio come avviene oggi, e in più può revocare su richiesta di quest’ultimo un ministro. In questo modo sarà impedito al presidente della Repubblica di incaricare un tecnico a formare e guidare un governo, come avvenuto con Mario Draghi o Mario Monti.

Le regole sulla caduta dei governi

La riforma propone poi di cambiare l’articolo 94 della Costituzione. I primi due commi di questo articolo non sono modificati e prevedono che il governo «deve avere la fiducia» della Camera e del Senato, ossia la maggioranza dei voti a favore in entrambe le camere, che possono accordare o revocare la fiducia al governo con una «mozione motivata e votata per appello nominale».

Con la riforma cambia invece il terzo comma dell’articolo 94. Entro dieci giorni dalla sua formazione, il governo deve ottenere la fiducia della Camera e del Senato. Se non ci riesce, il presidente della Repubblica ridà un nuovo incarico al presidente del Consiglio eletto dagli elettori di formare un governo. Se anche questo tentativo fallisce e il governo non ottiene la fiducia di Camera e Senato, il presidente della Repubblica scioglie il Parlamento e si torna al voto. Si va a votare anche nel caso in cui uno tra il Senato e la Camera revoca la fiducia al presidente del Consiglio. 

Se il presidente del Consiglio decide di dimettersi, si aprono due ipotesi. Entro sette giorni il presidente del Consiglio può chiedere al presidente della Repubblica di sciogliere il Parlamento e di andare al voto. Se decide di non esercitare questa facoltà per vari motivi (tra cui il suo «impedimento permanente»), il presidente della Repubblica può incaricare il presidente del Consiglio dimissionario di formare un nuovo governo o può dare l’incarico a un «altro parlamentare eletto in collegamento con il presidente del Consiglio». Questo però può avvenire solo una volta nel corso di una legislatura.

Questa norma è stata ribattezzata dai giornali e dai politici la “norma anti-ribaltoni” perché vuole evitare che si formino nella stessa legislatura governi supportati da maggioranze molto diverse tra loro.

Come cambia l’elezione del presidente della Repubblica

Attualmente, in base all’articolo 83 della Costituzione, il presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento con voto segreto e in seduta comune, ossia con deputati e senatori insieme ai 58 delegati dei Consigli regionali.  L’elezione avviene a maggioranza dei due terzi dell’assemblea, ma dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta, ossia la metà più uno dei membri dell’assemblea. La riforma sul premierato propone di far scattare questa possibilità non dopo il terzo scrutinio, ma dopo il sesto. 

In più la riforma vuole modificare il cosiddetto “semestre bianco”, il periodo che corrisponde agli ultimi sei mesi del mandato del presidente della Repubblica. In base all’articolo 88 della Costituzione, il presidente della Repubblica non può sciogliere il Parlamento negli ultimi sei mesi del suo mandato, a meno che questi non coincidano «in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura». La riforma approvata dal Senato propone di sostituire quest’ultimo inciso con il seguente: «salvo che lo scioglimento costituisca atto dovuto».

La proposta di riforma costituzionale chiede di modificare anche un altro punto dell’articolo 88, quello in base al quale il presidente della Repubblica «può, sentiti i loro presidenti, sciogliere le camere o anche una sola di esse». La proposta è eliminare la possibilità di sciogliere una sola delle due camere del Parlamento.

Niente più senatori a vita

La riforma costituzionale propone poi di togliere al presidente della Repubblica il potere di nominare i senatori a vita, sancito dall’articolo 59 della Costituzione. I cinque senatori a vita che sono attualmente in carica non perderebbero comunque il loro seggio al Senato, se in futuro la riforma dovesse essere approvata definitivamente, ma rimarrebbero in carica.

Un’ultima modifica alla Costituzione contenuta nella riforma riguarda l’articolo 89. In base a questo articolo, «nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità». In più «gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal presidente del Consiglio dei ministri».

La riforma propone di cambiare questo articolo in modo tale che non debbano più essere controfirmati da esponenti del governo alcuni atti, tra cui la nomina del presidente del Consiglio e quella dei giudici della Corte Costituzionale, la concessione della grazia, il decreto per indire le elezioni e i referendum, e il rinvio delle leggi al Parlamento.

Un percorso ancora lungo

L’approvazione della riforma da parte del Senato è una delle tappe del lungo percorso che il testo dovrà percorrere prima di essere approvato eventualmente in via definitiva. 

Ora il disegno di legge di riforma costituzionale dovrà essere esaminato alla Camera, prima nelle commissioni parlamentari competenti e poi in aula, dove potrà eventualmente essere modificato. A distanza di tre mesi da ognuna delle due approvazioni da parte del Senato e della Camera, il testo dovrà di nuovo essere approvato con lo stesso contenuto da entrambe le camere. Se nella seconda votazione sia il Senato sia la Camera approvano il testo a maggioranza dei due terzi dei componenti (a oggi un’ipotesi altamente improbabile), la proposta di riforma si considera definitivamente approvata, altrimenti può essere sottoposta a un referendum in cui gli elettori potranno approvarla o bocciarla.

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