Quali sono i problemi di coperture per la legge di Bilancio

Il governo deve trovare i soldi per rinnovare misure come il taglio del cuneo fiscale, contenendo però il deficit
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
La scrittura della legge di Bilancio per il prossimo anno sembra particolarmente complicata per il governo Meloni: in estrema sintesi, le risorse a disposizione sono poche, mentre ci sono varie misure costose, finora solo temporanee, da rinnovare per il 2025. Per avere un ordine di grandezza, lo scorso aprile l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) – un organismo che vigila sui conti pubblici italiani – ha calcolato in un’audizione in Parlamento che le misure introdotte temporaneamente solo per il 2024 dall’ultima legge di Bilancio valgono più di 18 miliardi di euro. Per esempio il taglio del cuneo fiscale, ossia la riduzione della differenza tra il lordo e il netto in busta paga, ha un costo di oltre 10 miliardi euro, che sono stati finanziati con il ricorso a maggiore debito

Più in generale, non è ancora chiaro quante risorse avrà a disposizione il governo per la legge di Bilancio per il 2025, che dovrà essere presentata entro il 20 ottobre e approvata dal Parlamento entro la fine dell’anno.

Un deficit da contenere

Negli scorsi mesi ci sono state alcune entrate straordinarie, per esempio dalla vendita di partecipazioni pubbliche: a maggio il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha incassato 1,4 miliardi di euro ottenuti dalla cessione del 2,8 per cento dell’azienda petrolifera Eni. Si tratta però di entrate non ricorrenti e, peraltro, questa operazione ha comportato ricavi da una parte, ma anche mancati introiti dall’altra: lo Stato infatti non potrà più contare sulle entrate dai dividendi per quelle azioni. 

Quest’anno c’è stato pure un aumento delle entrate tributarie: secondo i dati più aggiornati del Ministero dell’Economia e delle Finanze, tra gennaio e agosto l’erario ha incassato 23,3 miliardi di euro in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. 

Non sappiamo nemmeno con certezza a quanto ammonterà nel prossimo anno il deficit, ossia la differenza tra le entrate e le uscite dello Stato, che si misura in percentuale al Prodotto interno lordo (PIL). Nel nuovo Piano strutturale di bilancio di medio termine, approvato dal Parlamento il 9 ottobre, il governo ha rivisto al ribasso la stima del deficit per il 2024, ora fissata al 3,8 per cento. L’obiettivo del governo è portare questa percentuale al 3,3 per cento nel 2025 e al 2,8 per cento nel 2026, sotto alla soglia del 3 per cento fissata dal Patto di stabilità e crescita. Questo patto è tornato operativo dopo che era stato sospeso a causa della pandemia di Covid-19, ed è stato riformato in primavera, con nuove regole.

Una riduzione del deficit di 0,5 punti percentuali all’anno nei prossimi due anni significa minori risorse a disposizione del governo per poco più di 10 miliardi di euro l’anno. La stretta promessa dal governo serve anche per uscire dalla procedura per deficit eccessivo avviata dall’Unione europea nei confronti dell’Italia. Nel 2023 il deficit del nostro Paese è stato pari al 7,4 per cento del Pil, la percentuale più alta di tutta l’Ue.

Salgono le tasse?

Un’opzione per trovare le coperture per le misure della prossima legge di Bilancio è aumentare le tasse, in modo da far crescere il gettito fiscale. Questa decisione è però impopolare e difficile da perseguire. Di recente la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha smentito che il governo voglia aumentare le tasse, nonostante il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti abbia parlato alcuni giorni prima della necessità di fare «sacrifici» da parte di tutti. 

Una tabella contenuta nel Piano strutturale di bilancio mostra che la pressione fiscale, ossia il rapporto tra le entrate tributarie e il Pil, aumenterà dal 42,3 per cento nel 2024 al 42,8 per cento nel 2025. Ma queste percentuali sono “a legislazione vigente”, ossia non considerano, tra le altre cose, il rinnovo del taglio del cuneo fiscale che il governo vuole rendere strutturale, ossia ricorrente per i prossimi anni. Nel Piano strutturale di bilancio il governo ha scritto anche di voler rendere strutturale la riduzione delle aliquote dell’Irpef (l’imposta sui redditi delle persone fisiche), che quest’anno sono passate da quattro a tre, a fronte di uno stanziamento temporaneo di circa 4 miliardi di euro.

In queste settimane si sta così discutendo con insistenza di varie nuove fonti di entrata, sebbene nulla di ufficiale sia ancora stato deciso. Una fonte potrebbe essere l’allineamento del valore delle accise che pesano su benzina e diesel: le accise sul diesel, infatti, sono più basse e se il loro valore fosse portato a quello della benzina, lo Stato potrebbe incassare oltre 3 miliardi di euro l’anno. Durante un’audizione in Parlamento, Giorgetti ha confermato la volontà di alzare le accise sul diesel, aggiungendo però che l’allineamento – se fatto – avverrebbe ribassando le accise sulla benzina, con una conseguente riduzione del gettito per lo Stato da questo carburante.
Si è parlato poi di nuovo di una possibile tassa straordinaria sugli “extraprofitti” delle banche, su cui i partiti al governo sono divisi (così come quelli all’opposizione), e di una modifica dell’Ires, l’imposta che le imprese pagano sui loro redditi, per aumentarne il gettito. Al momento l’aliquota dell’Ires è pari al 24 per cento.

Le spese da rinnovare

Come detto, una delle sfide principali per il governo sarà non aumentare le tasse: questo significa che il governo non solo non dovrà introdurre nuove imposte, ma dovrà rinnovare le misure fiscali già introdotte in via temporanea. Per esempio, se non si trovassero le coperture per rifinanziare il taglio del cuneo fiscale per il 2025, milioni di dipendenti riceverebbero una busta paga con un netto più basso. Come abbiamo spiegato in passato, il taglio del cuneo fiscale può avere effetti positivi per i lavoratori, ma se finanziato a debito rischia di non essere sostenibile. 
Il rinnovo degli sgravi sul costo del lavoro è la voce più corposa tra le misure che il governo deve rinnovare per l’anno prossimo, ma ce ne sono altre. Tra queste, ci sono gli incentivi per le assunzioni di giovani lavoratori nelle regioni del Mezzogiorno e gli incentivi per l’ammodernamento tecnologico delle imprese: nel primo caso i risultati non sono sempre stati quelli sperati, mentre nel secondo caso c’è stata finora poca trasparenza sui benefici. In ogni caso, decidere di non rinnovare queste misure potrebbe avere un impatto negativo sul consenso politico.
Quanto è a portata di mano l’obiettivo fissato dal governo di raggiungere un deficit pari al 3,3 per cento del Pil nel 2025? La risposta è: dipende, appunto da quante misure il governo riuscirà a rinnovare. Lo stesso Ufficio parlamentare di bilancio ha sottolineato che se agli 18 miliardi di euro di valore delle misure da rinnovare, si aggiungono «altre spese solitamente inserite nelle politiche invariate, quali gli oneri per il prossimo triennio contrattuale dei dipendenti pubblici (2025-2027) e il rifinanziamento di alcuni fondi, inclusi alcuni destinati agli investimenti», l’impatto sul deficit supererebbe le previsioni del governo. 

Ricordiamo poi che stiamo parlando di un rapporto, tra il valore del deficit e il valore del Pil: se il Pil cresce, si riduce il rapporto. Senza entrare nel merito delle stime sulla crescita per il prossimo anno, nelle scorse settimane i dati sulla crescita economica di quest’anno si sono fatti via via meno ottimistici. Il governo aveva previsto che nel 2024 il Pil sarebbe cresciuto dell’1 per cento rispetto al 2023, ma negli scorsi giorni le revisioni della crescita di Istat hanno reso meno facile il raggiungimento di questo obiettivo, per stessa ammissione del governo.

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