Il taglio del cuneo fiscale è davvero una buona idea?

A prima vista la risposta sembra essere “assolutamente sì”, ma se si analizzano i dettagli sorgono alcuni dubbi 
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
La misura più costosa del disegno di legge di bilancio per il 2024, ora all’esame del Senato, è il rinnovo del taglio del cuneo fiscale per il prossimo anno. Solo nel 2024 questo provvedimento costerà infatti circa 10 miliardi di euro allo Stato, che dovrà mettere di tasca propria una parte dei contributi pensionistici a carico di circa 14 milioni di lavoratori. L’obiettivo di questa misura è chiaro: aumentare le buste paga dei dipendenti per colmare, in parte, la perdita del potere d’acquisto causata dal forte aumento dell’inflazione registrato negli ultimi due anni. In campagna elettorale il taglio del cuneo fiscale era stato promesso non solo dalla coalizione di centrodestra, ma anche dal Partito Democratico.

A prima vista questo provvedimento sembra avere solo vantaggi: ma è davvero così? In realtà le cose sono più complesse: il taglio del cuneo fiscale ha alcune caratteristiche che possono metterne in dubbio la bontà.

Che cos’è il cuneo e perché tagliarlo

Come prima cosa capiamo brevemente che cos’è il cosiddetto “cuneo fiscale” (chiamato tax wedge in inglese). Detto in parole semplici, il cuneo fiscale è la differenza tra il valore lordo della busta paga e il suo valore netto, ossia quello effettivamente percepito dal lavoratore. Il cuneo fiscale è composto dalle imposte e dai contributi pensionistici, a carico in parte del lavoratore e in parte del datore di lavoro, che sommati sono sottratti dal lordo in busta paga per ottenere il netto. Quando si parla di “taglio del cuneo fiscale” si può fare riferimento a tre cose: alla riduzione delle imposte, alla riduzione dei contributi, o alla riduzione di entrambe le voci insieme. Semplificando un po’, il risultato è comunque lo stesso: un cuneo fiscale ridotto porta più soldi in busta paga ai lavoratori.

Da anni in Italia si parla della necessità di ridurre il cuneo fiscale perché la differenza tra il lordo e il netto nelle buste paga dei lavoratori nel nostro Paese è tra le più alte al mondo. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), nel 2022 il cuneo fiscale italiano era il quinto più alto tra i Paesi considerati più sviluppati. Valeva in media il 45,9 per cento della retribuzione lorda, contro una media dei Paesi Ocse pari al 34,6 per cento.
Questa statistica fa riferimento allo stipendio medio di un lavoratore single, senza figli. Per capirci, in Italia un contribuente di questo tipo ogni 100 euro di retribuzione lorda riceve 54,1 euro netti. 

È però importante capire perché il cuneo fiscale in Italia sia così alto, così come nei quattro Paesi sopra al nostro (Belgio, Germania, Francia e Austria). Uno dei motivi principali è il livello elevato di protezione sociale che c’è nel nostro Paese e di conseguenza l’elevata spesa pubblica per il welfare. Le economie con un cuneo fiscale più basso tendono invece ad avere livelli di privatizzazione dei servizi pubblici più alti, come la sanità. Per esempio non è un caso che gli Stati Uniti abbiano un cuneo fiscale più basso della media Ocse.

I vantaggi del taglio del cuneo fiscale

Il taglio del cuneo fiscale è considerato una misura così importante dai partiti perché porta vantaggi innegabili sia sul piano politico sia su quello economico. 

Innanzitutto partiamo dal vantaggio più concreto, già accennato: grazie al taglio del cuneo fiscale un lavoratore si trova più soldi in busta paga. Nel disegno di legge di Bilancio per il 2024, che deve ancora essere approvato dal Parlamento, il governo Meloni ha proposto di rinnovare solo per il prossimo anno un taglio di 7 punti percentuali dei contributi a carico dei lavoratori con una retribuzione annua pari a 25 mila euro lordi, e un taglio di 6 punti percentuali per quelli che guadagnano fino a un massimo di 35 mila euro. Questo taglio è già stato in parte in vigore nel 2022, introdotto dal governo Draghi, ed è attualmente in vigore quest’anno, dopo che è stato confermato e ampliato dal governo Meloni.

In questi giorni circolano stime diverse sui benefici che i lavoratori interessati dal taglio del cuneo fiscale avranno in busta paga, che – ribadiamo – sono perlopiù una conferma dei benefici che già hanno oggi. Le differenze nelle stime sono dovute ai vari calcoli utilizzati, basati su simulazioni che poggiano su premesse diverse.

Per esempio secondo la Banca d’Italia, in media nel 2024 una famiglia avrà un reddito più alto di 600 euro l’anno, dunque circa 50 euro in più al mese, rispetto alle norme attuali, che al momento nel 2024 non prevedono il taglio del cuneo fiscale. Due terzi di questi 600 euro sono attribuibili alla riduzione dei contributi, mentre l’altro terzo alla rimodulazione temporanea delle aliquote dell’Irpef, che il governo Meloni vuole ridurre da quattro a tre. A seconda degli scenari considerati, le stime dell’Istat cambiano, così come quelle dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb). 

In secondo luogo tagliare le imposte e i contributi sul lavoro significa tagliare le tasse e questo ha quasi sempre un effetto positivo sull’economia. Un metodo fondamentale per stimolare la crescita è infatti quello di aumentare la spesa pubblica o ridurre la tassazione. Questo avviene perché in entrambi i casi c’è un’iniezione di nuove risorse nell’economia: se si tagliano le tasse, il lavoratore avrà a disposizione più denaro e potrà spenderlo per consumi o per investimenti, che in entrambi i casi daranno lavoro ad altre persone. Secondo una ricerca pubblicata nel 2017 dalla Banca centrale europea (Bce), circa la metà del “bonus 80 euro” introdotto dal governo Renzi nel 2014 è stato speso per consumi, mentre il resto è stato risparmiato.

Gli svantaggi del taglio del cuneo fiscale

Come abbiamo visto, la riduzione di tasse e contributi tende ad avere un effetto positivo sull’economia, per cui non esistono veri e propri svantaggi da questa operazione, anche se esistono almeno un paio di problemi e alcune obiezioni di carattere più generale.

Il primo problema: la riduzione dei contributi pensionistici si traduce in un aumento del reddito su cui è calcolata l’Irpef, ossia l’imposta sui redditi delle persone fisiche. Detta altrimenti, con il taglio del cuneo fiscale c’è un aumento del netto in busta paga, ma una parte di questo aumento – che varia a seconda dei lavoratori – finisce per tornare allo Stato con il corrispondente aumento dell’Irpef. Per questo motivo le stime sui benefici del taglio del cuneo fiscale variano: alcune tengono conto di questo aumento dell’Irpef, altre no, altre ancora considerano i benefici della revisione temporanea dell’Irpef voluta dal governo, che dovrebbe limitare l’effetto paradossale del taglio del cuneo fiscale.

Il secondo problema: come ha spiegato in audizione in Parlamento l’Ufficio parlamentare di bilancio, il taglio del cuneo fiscale così come concepito dal governo Meloni «comporta una trappola della povertà in corrispondenza delle due soglie» su cui è applicato, ossia 25 mila euro e 35 mila euro di retribuzione. «L’incremento della retribuzione di un solo euro oltre la soglia comporta, all’uscita dalla prima fascia, una riduzione dello sconto (e quindi una riduzione del reddito disponibile) di circa 150 euro», ha sottolineato l’Upb. «La riduzione del reddito disponibile risulta invece molto maggiore (circa 1.100 euro) se la retribuzione lorda supera la soglia di 35 mila euro». Se il taglio del cuneo fiscale dovesse diventare da temporaneo a permanente, ossia rimanesse in vigore anche negli anni successivi al 2024, si rischierebbe di introdurre un «forte disincentivo al lavoro» e questo «renderebbe più complesso il raggiungimento degli accordi di rinnovo contrattuale». A un lavoratore potrebbe infatti convenire guadagnare sotto i 35 mila euro per beneficiare del taglio del cuneo. 

Più in generale una domanda da farsi è se i quasi 10 miliardi di euro stanziati per questo tipo di misura, tra l’altro solo temporaneamente per il 2024, non possano essere utilizzati in maniera più efficace. Va infatti considerato che questi soldi sono stati ottenuti con un nuovo scostamento di bilancio: in concreto il taglio del cuneo fiscale sarà finanziato facendo più debito. Indebitarsi non è per forza un male: se l’investimento che si compie ripagherà, non sarà un problema restituire il denaro. Ma con i tagli delle tasse di solito non va così, come dimostra il fatto che il governo ha dovuto stanziare più di un miliardo di euro per finanziare l’estensione del regime forfettario alle partite Iva con ricavi fino a 85 mila euro. Così facendo infatti il governo ha smentito lo slogan che la flat tax “si ripaga da sola”.  

Infine va ricordato che il taglio del cuneo fiscale non è una soluzione per aumentare gli stipendi lordi, cioè quanto effettivamente si viene pagati dal datore di lavoro. Questo tipo di aumento si ottiene, tra le altre cose, aumentando la produttività delle imprese, per esempio spingendole a investire, magari con incentivi pubblici, o favorendo quelle di più grandi dimensioni, che tendono ad avere una produttività più alta.

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