Il mito del “si ripaga da solo”

Dal ponte sullo Stretto alla flat tax, dal Superbonus al salario minimo, spesso i partiti nascondono i costi delle misure dietro a questo slogan
Pagella Politica
Quando nel 2018 la Juventus acquistò Cristiano Ronaldo, garantendogli uno stipendio da oltre 30 milioni di euro netti all’anno e versando oltre 100 milioni di euro al Real Madrid, in molti sostennero che l’investimento si sarebbe “ripagato da solo”, tra merchandising, sponsor e aumento dei ricavi per la società. Le cose non andarono così: negli ultimi anni l’acquisto del calciatore portoghese ha pesato sulle forti perdite di bilancio della Juventus, complice la pandemia di Covid-19 e i risultati deludenti sul campo.

Da tempo questa idea che alcuni investimenti si possano finanziare “da soli” fa parte anche del mondo della politica e con tutta probabilità farà parlare di sé nelle prossime settimane, durante la scrittura della prossima legge di Bilancio. Per vari partiti, lungo tutto l’arco parlamentare, trovare le coperture economiche per finanziare provvedimenti più disparati sarebbe un problema secondario, dal momento che questi stessi provvedimenti genererebbero maggiori entrate nelle casse dello Stato, permettendo così di far fronte alla spesa.

Per esempio giovedì 31 agosto, in un’intervista con Il Sole 24 Ore, il viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Galeazzo Bignami (Fratelli d’Italia) ha dichiarato che il ponte sullo Stretto di Messina è «un’opera che si finanzia da sé». Il motivo è apparentemente semplice: visto che il fatto di essere un’isola causa svantaggi economici alla Sicilia, il ponte li annullerebbe e permetterebbe di recuperare risorse per la sua costruzione. In realtà, a oggi, non esiste ancora un progetto esecutivo dell’opera e manca un’analisi che valuti nel complesso i suoi costi e i suoi benefici. Ad aprile scorso il governo Meloni ha stimato nel Documento di economia e finanza (Def) in 13,5 miliardi di euro il costo aggiornato del ponte sullo Stretto di Messina. «A oggi non esistono coperture finanziarie disponibili a legislazione vigente», si legge nel Def. «Pertanto, queste dovranno essere individuate in sede di definizione del disegno di legge di Bilancio».
Lo stesso discorso vale per altre promesse elettorali, diventate famose negli ultimi anni, ma non concretizzatesi. Prendiamo l’esempio della flat tax, ossia l’introduzione di un’imposta sui redditi composta da un’unica aliquota. Secondo Forza Italia e la Lega, questo provvedimento si finanzierebbe da solo per un motivo apparentemente intuitivo: se si abbassano le imposte, i contribuenti sono incentivati a pagarle, si riduce l’evasione fiscale e il gettito fiscale aumenta. Finora gli studi economici hanno mostrato che questa teoria non ha basi solide. E un esempio recente ha dimostrato la scarsa solidità di questa ipotesi: nella scorsa campagna elettorale il leader della Lega Matteo Salvini ha ripetuto che l’estensione del regime forfetario al 15 per cento per le partite Iva con ricavi fino a 65 mila euro si sarebbe pagata «da sola». La legge di Bilancio per il 2023 ha introdotto questa estensione, ma ha anche dovuto trovare oltre un miliardo di euro per finanziarla a causa della perdita di gettito stimata tra il 2023 e il 2025.
Negli scorsi mesi il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte ha difeso il Superbonus 110 per cento e la cessione dei crediti per i bonus edilizi dichiarando che i benefici generati da questi incentivi superassero i costi. Non è andata così: il Superbonus ha sì contribuito alla crescita del Pil dopo il crollo registrato nel 2020 (seppure in misura minore rispetto a quanto detto dai suoi sostenitori), ma gli oneri per lo Stato hanno superato i 120 miliardi di euro, una cifra parecchio più alta di quanto rientrato nelle casse dell’erario. Tra l’altro, a sostegno del Superbonus e degli altri bonus edilizi, sono spesso state citate stime realizzate da organizzazioni ed enti con potenziali conflitti di interesse con queste misure.
Anche sul reddito di cittadinanza erano circolate teorie simili. A marzo 2018 Pasquale Tridico, che poi sarebbe stato nominato presidente dell’Inps dal primo governo Conte, aveva scritto sul Blog delle Stelle che il sussidio sarebbe potuto «finanziarsi interamente grazie ai suoi effetti sul tasso di partecipazione della forza lavoro». I risultati occupazionali del reddito di cittadinanza, costato oltre 20 miliardi di euro tra il 2020 e il 2023, sono stati parecchio deludenti rispetto alle aspettative, mentre il sussidio ha contribuito a contenere l’aumento della povertà durante il periodo più intenso della pandemia di Covid-19. Discorso analogo vale per l’altra misura approvata insieme al reddito di cittadinanza. Con “quota 100” vari esponenti del primo governo Conte avevano promesso che ogni pensionato uscito in anticipo dal mercato del lavoro sarebbe stato sostituito da uno o più giovani. In questo modo i costi per le nuove pensioni anticipate sarebbero stati coperti dai nuovi occupati. Numeri alla mano, il tasso di ricambio è stato inferiore
Infine una versione alternativa dello slogan “si finanzia da solo” è quella secondo cui una misura non avrebbe costi per lo Stato. Di recente il responsabile economia del Partito Democratico Antonio Misiani ha dichiarato che il salario minimo «non costa un euro allo Stato» e che «sono i datori che devono retribuire dignitosamente i lavoratori sottopagati». Misiani ha omesso almeno due informazioni importanti: da un lato i partiti di opposizione propongono la creazione di un fondo che compensi gli aumenti dei costi delle imprese, finanziato con risorse pubbliche; dall’altro lato non è da escludere che una parte delle imprese, una volta introdotto il salario minimo, decida di ricorrere di più al lavoro irregolare o di ridurre il numero di dipendenti, facendo perdere gettito allo Stato.

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