Da anni, una delle misure di bandiera della Lega – e del centrodestra italiano in generale – è l’introduzione della cosiddetta flat tax, ossia un sistema di tassazione che applica una singola aliquota fiscale a tutti i livelli di reddito.
A dire il vero, nel Contratto di governo siglato prima dell’insediamento del governo Conte M5s e Lega si sono accordati su qualcosa di un po’ diverso da una vera e propria “tassa piatta”: e cioè due aliquote al 15 per cento e al 20 per cento per persone fisiche, partite Iva, imprese e famiglie.
A oggi non sono comunque ancora del tutto chiare le intenzioni dell’esecutivo Conte in materia. Secondo fonti di stampa, a luglio 2019 Lega e M5s hanno avanzato l’ipotesi di introdurre con la legge di Bilancio per il 2020 un’aliquota del 15 per cento da applicare solo ai redditi incrementali (ossia agli aumenti di reddito di un anno rispetto al precedente).
Secondo la Lega, uno dei vantaggi principali della flat tax – e in generale dell’abbassamento delle tasse – sarebbe la riduzione dell’evasione fiscale: aliquote più basse incentiverebbero i contribuenti a pagare le tasse.
È un concetto che il leader della Lega Matteo Salvini ripete spesso. Per esempio, il 24 maggio 2019, ospite a Otto e mezzo su La7 (min. 7:30), Salvini ha dichiarato che «l’evasione fiscale ovunque si combatte se riduci la pressione fiscale». Il 7 luglio, in un’intervista a IlMessaggero, il sottosegretario leghista dell’Economia Massimo Bitonci ha detto che un’aliquota del 15 per cento anche solo sui redditi incrementali avrebbe «un impatto positivo nella lotta all’evasione fiscale».
Ma è davvero così? Meno tasse vogliono dire meno evasione, e in concreto più entrate per lo Stato? Abbiamo verificato e le cose non sono così semplici come sembra.
Alla ricerca della tassa perfetta
A livello teorico, l’idea “pagare meno per pagare tutti” è sostenuta da un famoso grafico, elaborato negli anni Settanta dall’economista Arthur Laffer (che a giugno è stato premiato da Donald Trump con la Medaglia presidenziale per la libertà, evento celebrato su Facebook anche da Salvini).
Secondo Laffer, il rapporto tra il livello della tassazione e quanto incassa lo Stato ha una tipica forma a curva (o meglio, a campana): con un’aliquota dello zero per cento, lo Stato incassa zero, perché i guadagni restano tutti in mano ai cittadini. Ma con un’aliquota del 100 per cento, lo Stato incassa comunque zero, perché il cittadino è completamente disincentivato a lavorare e produrre ricchezza.
In concreto, secondo Laffer, se le tasse superano un certo livello di aliquota e sono troppo alte, le persone tendono a evadere il fisco o a lavorare meno, gli investimenti calano, e così dunque anche le entrate per lo Stato. Se viceversa le tasse si abbassano, il gettito fiscale cresce.
Alla fine degli anni Settanta il concetto della “curva di Laffer” ottenne un grande successo, tanto da arrivare a influenzare i tagli fiscali del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan durante i primi anni Ottanta.
Come spiega l’economista e premio Nobel Robert Shiller in un paper del 2017, questa fama è dovuta principalmente al fatto che la curva è davvero semplice non solo da capire, ma anche da comunicare.
Insomma, è uno strumento estremamente seduttivo per i politici, tanto che si racconta – sulla base di un articolo del National Affairs del 1978 – che la curva sia stata disegnata nel 1974 da Laffer su un tovagliolo di carta durante una cena con Dick Cheney e Donald Rumsfeld, futuri vicepresidente degli Stati Uniti e segretario alla Difesa durante la presidenza di George W. Bush.
Nonostante il suo apparente buon senso, l’idea di Laffer ha però due grossi problemi di fondo.
Che cosa non torna nella curva di Laffer
«Questa tesi contiene un’ovvietà per quanto riguarda il livello di gettito agli estremi della curva, ma di per sé non dice la cosa che più ci interessa», ha spiegato a Pagella Politica Francesco Daveri, professore di macroeconomia all’Università Bocconi di Milano. «Nessuno è mai stato in grado di stabilire quale fosse il punto in cui c’è l’aliquota ottimale, ossia dove lo Stato riesce a massimizzare le sue entrate, prima di cominciare a vederle decrescere».
Un working paper della Banca centrale europea pubblicato nel 2010 ha stimato, sulla base di un modello matematico, come cambierebbe il gettito fiscale negli Stati Uniti e in 14 Paesi Ue se si cambiasse il livello delle imposte sul lavoro e sul reddito da capitale.
Lo studio ha rilevato che solo Paesi come Danimarca e Svezia, di fatto, sono sul lato “sbagliato” della curva di Laffer per quanto riguarda le imposte sul reddito da capitale. Questi Paesi non vedrebbero insomma un aumento delle entrate aumentando le aliquote.
Viceversa, nello scenario del working paper Paesi come Germania, Francia, Italia e Spagna dovrebbero aumentare il livello di tassazione, se volessero aumentare il gettito.
I tagli di Reagan e di Trump
Il secondo problema è che della validità della curva di Laffer, così come dello slogan “Abbassare le tasse causa sempre un aumento di gettito fiscale”, non ci sono grandi prove.
Un sondaggio condotto nel 2012 dalla Booth School of Business di Chicago ha raccolto l’opinione di 40 economisti di fama internazionale sul fatto che un taglio delle aliquote per la tassazione sui redditi possa far aumentare le entrate per lo Stato. Nessuno degli intervistati ha detto che esistono evidenze empiriche a favore di questa affermazione.
«Tutti i Paesi che hanno tagliato le tasse, se intendiamo Paesi normali, come Francia, Spagna, Germania e Regno Unito, hanno visto diminuire le entrate fiscali, senza particolari effetti sull’evasione», aggiunge Daveri.
Come ha ricostruito un articolo del New York Times di giugno 2019, questo discorso vale anche per gli Stati Uniti, in particolare se si va a vedere che cos’era successo nei primi anni Ottanta.
«I tagli di Reagan del 1981 sono stati seguiti da una diminuzione delle entrate fiscali, nel 1982 e nel 1983», spiega Daveri. «Naturalmente sono successe tante cose nell’economia americana dell’epoca, non solo i tagli fiscali. Nell’82 l’economia statunitense aveva una coda di recessione, quindi è normale che le entrate fiscali scendano in una recessione, ma nel 1983 hanno continuato a diminuire nonostante l’economia fosse ripartita».
In effetti, come evidenziato da un rapporto del 2013 del Dipartimento del Tesoro statunitense, la riforma fiscale del 1981 ha causato una perdita di gettito fiscale del 9 per cento nei due anni successivi.
E la stessa dinamica è stata registrata a gennaio 2019 a proposito dei tagli alle tasse introdotti da Trump a fine 2017: il gettito fiscale federale è diminuito, e non aumentato, come invece aveva previsto il presidente degli Stati Uniti.
Insomma, a una prima approssimazione quello che è accaduto abbassando le tasse è stata la cosa più banale: sono arrivati meno soldi nelle casse dello Stato.
Per quanto riguarda la flat tax in particolare – che altro non è che un caso particolare di abbassamento delle tasse – uno studio del Fondo monetario internazionale del 2006 ha evidenziato che nei Paesi che l’hanno applicata non è stato rilevato alcun “effetto Laffer”. Le entrate per l’erario non sono aumentate.
Un’altra idea intuitiva…
Non ci sono prove dell’aumento del gettito, insomma. Ma si potrebbe rispondere che una cosa è l’aumento delle tasse pagate, un’altra l’andamento dell’evasione fiscale. Il primo fenomeno può verificarsi perché meno tasse portano maggiori investimenti, maggiore produttività e un aumento della ricchezza da tassare, anche se il secondo fenomeno potrebbe rimanere invariato. D’altro canto, però, sembra essere sensato pensare che, se si riduce la pressione fiscale, un cittadino è meno motivato a evadere il fisco.
Vediamo allora che cosa si può dire del fenomeno dell’evasione e del suo collegamento con le maggiori o minori tasse.
A partire dagli anni Settanta, gli economisti hanno cercato di modellizzare il comportamento dei contribuenti sulla base di un’assunzione che, come vedremo più avanti, può essere utile a livello teorico, e meno a livello di politiche fiscali.
Nella scelta di pagare o meno le tasse, un cittadino deve soppesare i costi e i benefici per arrivare a una decisione finale: tra i primi, c’è l’entità delle tasse da versare e la possibilità di essere scoperti e puniti (ad esempio con una multa); tra i secondi, c’è la possibilità di tenersi quanto dovuto all’erario.
Abbassare le tasse, dunque, andrebbe ad agire sia sui costi che sui benefici: da un lato, costerebbe meno per le tasche di un contribuente rispettare la legge; dall’altro, se il cittadino evade, ci guadagna meno di prima. Fermo restando il rischio di essere scoperti.
…ma con due problemi
Non siamo così tanto razionali
Negli ultimi decenni le letteratura scientifica in ambito economico ha messo in dubbio che il modello di contribuente “razionale”, che soppesa costi e benefici, sia utile sul piano pratico per contrastare i comportamenti in tema di evasione.
Come ha riassunto in una pubblicazione scientifica di aprile 2019 James Alm, professore di economia comportamentale alla Tulane University di New Orleans (Stati Uniti), le ricerche sull’evasione fiscale mostrano che se effettivamente i contribuenti facessero un calcolo costi-benefici per decidere se pagare o meno le tasse, i livelli di evasione sarebbero più alti di quelli invece registrati oggi.
Questa discrepanza tra teoria ed evidenza empirica è spiegata dal fatto che altri fattori concorrono nella decisione di un cittadino di pagare o no le tasse. Nel corso dei decenni, il modello classico è stato così integrato con varie estensioni, tra cui i risultati prodotti dall’economia comportamentale, che integra i modelli economici con quelli della psicologia cognitiva e sociale.
Per esempio, un elemento da sempre sottostimato nella ricerca sull’evasione fiscale riguarda la sfera sociale e culturale: indifferentemente dal livello delle aliquote, studi hanno mostrato che un cittadino è portato a pagare le tasse sulla base del comportamento dei suoi concittadini. Anche se le tasse fossero abbassate, l’evasione non diminuirebbe se fosse ancora diffusa la percezione che questo comportamento sia la norma, e non l’eccezione.
L’importanza dei controlli
«L’equazione “meno tasse uguale meno evasione fiscale”, messa così, non sta in piedi. Dipende da molti altri fattori, e non solo dall’altezza delle aliquote», ha spiegato a Pagella Politica Dario Stevanato, avvocato e professore di diritto tributario all’Università di Trieste.
«In particolare, sono importanti i controlli che vengono messi in campo dallo Stato o da altri strumenti di tipo normativo, come il reverse charge, lo split payment nell’Iva, l’elenco clienti-fornitori, la fattura elettronica e così via. Dipende molto da questo e dalla percezione dei rischi di controllo».
Anche assumendo con un certo grado di approssimazione che effettivamente un contribuente soppesi costi e benefici prima di decidere di non pagare le tasse, questo dovrebbe comportare maggiore attenzione nel far percepire come reali i rischi che si corrono.
Tagliare le tasse senza agire sulla prevenzione e il contrasto all’evasione sembra essere dunque inutile.
«Se ho pagato zero di tasse fino a oggi e non ho un rischio credibile della probabilità di essere acchiappato domani, mi conviene non cambiare comportamento», sottolinea Daveri.
«Il rischio di fare emergere il proprio vero reddito, per uno che magari è riuscito a tenerlo un po’ nascosto al fisco, è che poi il fisco prende nota di te. Oggi ho un governo che mi abbassa le tasse al 15 per cento, ma che cosa succede se domani arriva un governo che me le ritira su al 20 o al 25 per cento? Ormai sono finito nei database dell’Agenzia delle entrate e la probabilità di prendermi un accertamento e di ricevere le attenzioni dell’erario diventa molto più elevato, in caso volessi ritornare a evadere in futuro».
Non solo. Abbassare le tasse potrebbe portare al risultato paradossale di incentivare – in un certo senso – l’evasione.
«Se la multa nel caso si sia scoperti è proporzionale alle tasse che si sarebbe dovuto pagare (come è attualmente in Italia) – ha sottolineato ad esempio l’Osservatorio Conti pubblici italiani dell’Università Cattolica in un approfondimento di gennaio 2018 sui potenziali effetti di una flat tax in Italia – una riduzione di imposta implica una multa minore, che a sua volta potrebbe incoraggiare una maggiore evasione per via della penale inferiore».
Il caso della Russia
Nel caso specifico della flat tax, sono state fatte poche ricerche empiriche sugli effetti di questo genere di politica fiscale sull’evasione.
Uno studio del 2005 – pubblicato dal Fondo monetario internazionale – ha quantificato i benefici dell’introduzione della “tassa piatta” al 13 per cento in Russia nel 2001 sull’evasione fiscale, calcolando un’effettiva riduzione del fenomeno.
Il problema però, spiegano gli autori, è che non è possibile sapere se l’aumento del gettito sia legato alla riforma fiscale o più semplicemente alle nuove norme di contrasto all’evasione.
«C’è una grossa differenza tra quello che ha fatto Putin e quello che vuole fare per esempio Salvini», sottolinea Daveri. «Putin, quando ha introdotto la flat tax, ha messo in carcere gli oligarchi e ha spiegato a tutti che da lì in avanti sarebbe stato necessario pagare le tasse per i grandi evasori. Invece l’Italia è un po’ diversa dalla Russia perché il nostro non è solo un Paese di grandi evasori: ci sono tanti piccoli evasori che contribuiscono per una quota all’evasione complessiva, e l’Italia è un Paese di piccolissime imprese individuali, che danno un loro contributo».
In conclusione
«La letteratura scientifica è concorde nel dire che non basta tagliare le tasse se si vuole aumentare il gettito e incentivare i contribuenti a non evadere», spiega Stevanato. «In definitiva, non esistono evidenze empiriche sull’automatismo: “Basta ridurre le aliquote per alzare il gettito”».
Promettere meno tasse non sembra dunque essere un meccanismo credibile per recuperare la base imponibile e ridurre l’evasione fiscale.
Da un lato, le idee intuitive che stanno alla base di questa ipotesi – come la curva di Laffer – non hanno dato buona prova di sé di fronte ai fatti.
Dall’altro lato, gli unici tentativi efficaci di riduzione dell’evasione fiscale supportati dall’evidenza empirica sono quelli che agiscono parallelamente su un inasprimento dei controlli e sui metodi di pagamento delle tasse.
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