La ricetta di Tajani per rispondere ai dazi è poco solida

Il ministro degli Esteri ha chiesto di abbassare i tassi di interesse per sostenere le economie europee colpite dalle tariffe di Trump. Ma la fa troppo semplice
ANSA
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Il 31 luglio, in un’intervista con Libero, il leader di Forza Italia Antonio Tajani ha chiesto l’intervento della Banca centrale europea (BCE) per sostenere l’economia europea e quella italiana, la cui stabilità è messa in discussione dai dazi imposti dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Secondo Tajani, la BCE dovrebbe agire su due fronti. Da un lato dovrebbe «continuare a far scendere il costo del denaro, come fece con il COVID». «Si può anche arrivare a zero», ha detto il ministro degli Esteri. Dall’altro lato «dovrebbe – vista la situazione – fare un quantitative easing, cioè comprare titoli di Stato dai vari Paesi, il cui ricavato potrà essere utilizzato per la difesa europea, per la politica industriale, per la sanità». In questo modo, ha aggiunto Tajani, «essendoci più denaro in circolazione si potrebbe far scendere il valore dell’euro».

L’idea del leader di Forza Italia, in poche parole, punta a dare slancio all’economia con misure per invertire la rotta in un momento complicato. Ma davvero la BCE potrebbe muoversi in questa direzione? E quali sarebbero le conseguenze di una scelta del genere? Proviamo a capire meglio quali sono i punti di forza e i rischi della proposta.

Perché abbassare i tassi aiuta l’economia

I tassi di interesse rappresentano il costo del denaro, cioè la somma aggiuntiva che siamo disposti a pagare per poter ottenere subito una certa quantità di fondi. Facciamo un esempio: se un prestito di un anno da 100 euro prevede interessi pari a 10 euro, significa che il tasso di interesse è del 10 per cento, poiché la cifra prestata dovrà essere restituita aggiungendo il 10 per cento al valore iniziale. Al momento, il tasso sui depositi della BCE, tra quelli considerati nel calcolo di tutti gli altri tassi, è al 2 per cento. Dopo aver raggiunto il picco del 4 per cento per contrastare l’inflazione nel settembre 2023, il costo del denaro è stato progressivamente abbassato a partire da giugno 2024, fino per l’appunto al 2 per cento di oggi.

Tutti i tassi di interesse applicati ai prestiti dipendono – in misura maggiore o minore – da un parametro di riferimento: il tasso fissato dalla banca centrale competente, che per noi italiani è la BCE. La banca centrale è l’istituzione che “stampa” la moneta e ne regola la quantità in circolazione. Se i tassi salgono, significa che la banca centrale vuole ridurre la quantità di denaro disponibile; se invece li abbassa, l’obiettivo è l’opposto, cioè aumentare la liquidità.

Ma perché è utile modificare la quantità di moneta? Perché se la disponibilità di denaro è elevata, le persone tenderanno a spendere con più facilità. Al contrario, se la moneta è scarsa, la propensione a spendere e, soprattutto, a investire sarà più bassa. Quando la banca centrale ritiene che l’economia sia in difficoltà, sceglie dunque di immettere più moneta in circolazione, “vendendola” a un prezzo più basso alle banche. In pratica, le banche ottengono fondi chiedendoli in prestito direttamente alla banca centrale, poniamo al 2 per cento, e utilizzano poi quei fondi per erogare mutui e finanziamenti ai cittadini, per esempio al 3 per cento in media, così da guadagnare sul cosiddetto “margine di interesse”. Per esempio, secondo la Federazione autonoma bancari italiani (FABI), a maggio 2025 i tassi medi applicati dalle banche sui mutui in Italia erano al 3,58 per cento, mentre i tassi offerti dalla BCE erano al 2,25 per cento, permettendo un margine di interesse di poco più di 1,3 punti percentuali.

Se le banche puntano a guadagnare un punto percentuale dai prestiti (come nell’esempio appena visto), la banca centrale ha quindi la possibilità di stimolare o frenare l’economia proprio attraverso il livello dei tassi. Immaginiamo che la BCE voglia favorire l’acquisto di case o automobili, così da spingere la produzione e le vendite. In quel caso deciderà di abbassare i tassi: chi prima riteneva troppo costoso indebitarsi con un tasso del 3 per cento, potrebbe ora convincersi a chiedere un prestito a condizioni più vantaggiose. Il suo acquisto stimolerà a sua volta il venditore, che grazie all’aumento del fatturato avrà più risorse da spendere, innescando un circolo virtuoso.

A una politica di riduzione dei tassi si possono affiancare anche misure “non convenzionali”, come il Quantitative easing (Qe) citato da Tajani. Il Qe è stato introdotto nell’Unione europea nel 2015 per stimolare ulteriormente l’economia. In realtà, il mandato della BCE è garantire la stabilità dei prezzi e non direttamente la crescita, ma le due dimensioni sono collegate. Questa decisione straordinaria era nata dal fatto che, neppure con tassi a zero, si riusciva a rilanciare davvero il Prodotto interno lordo (PIL) né ad aumentare l’inflazione fino a poco sotto il 2 per cento, che è l’obiettivo ufficiale della BCE. Perciò l’allora presidente della BCE Mario Draghi decise di iniziare ad acquistare direttamente alcuni titoli sui mercati finanziari, così da mantenere bassi non solo i tassi fissati dalla banca centrale, ma anche quelli “secondari”, cioè applicati da banche, imprese e Stati. Grazie all’aumento della domanda, chi emetteva i titoli poteva finanziarsi offrendo un interesse più basso, alleggerendo così le proprie finanze. Nella proposta di Tajani, dunque, il Quantitative easing non servirebbe tanto a mettere direttamente fondi nei conti dello Stato, quanto più a rendere meno costoso l’indebitamento, in modo da liberare risorse che finirebbero altrimenti nella spesa per interessi. Al momento, l’Italia è il Paese che spende di più in interessi sul debito in percentuale al PIL in tutta l’Unione europea: ridurre il costo dell’indebitamento e, di conseguenza, le spese sul debito, renderebbe effettivamente disponibili altri fondi per il settore pubblico, per esempio per la sanità o per la difesa, come sostiene Tajani.

In ogni caso, il Qe resta una misura eccezionale: era stato istituito dopo anni di discussioni (negli Stati Uniti la Federal Reserve lo aveva adottato già dal 2008) e dovrebbe essere utilizzato soltanto quando i tassi sono già a zero e i tagli tradizionali non bastano a ottenere risultati concreti.

Il rischio inflazione

A prima vista, dunque, la proposta di Tajani almeno per quanto riguarda i tassi di interesse sembra comunque avere senso: perché interrompere un processo che stimola l’economia? Si potrebbe pensare che convenga mantenere i tassi sempre a zero. C’è però un primo ostacolo non da poco: l’inflazione.

Il meccanismo descritto in precedenza non solo sostiene la crescita, ma alla lunga tende anche a “surriscaldare” l’economia. In altre parole, sempre più persone finiscono per spendere sempre di più. Se tutti vogliono comprare, il rischio è che l’offerta non sia sufficiente a soddisfare la domanda. In questo modo un eccessivo stimolo monetario genera un aumento dei prezzi, perché con il denaro che costa meno le persone si sentono relativamente più “ricche” e sono disposte a pagare di più. Lo stesso tipo di effetto si avrebbe con il Qe, che può gonfiare i mercati finanziari e, di conseguenza, trasferire pressioni inflazionistiche anche sull’economia reale. Ciò avverrebbe perché oggi ci troviamo in un contesto diverso rispetto a quando era stato applicato il Qe: questo strumento, in linea di massima, dovrebbe essere usato innanzitutto per uscire dalla deflazione, ossia da una situazione in cui i prezzi non aumentano e, addirittura, si riducono, come nel 2015; ma l’aumento dei prezzi nell’Unione europea è in questo momento moderato (a luglio è stimato al 2 per cento) e, come abbiamo visto, l’economia è ancora in crescita, anche se un po’ a rilento. 

In questo contesto, il Qe potrebbe risultare una misura eccessiva, che aumenterebbe la speculazione sui mercati e rischierebbe di far aumentare l’inflazione. Come avevamo spiegato in passato, il Qe applicato da Draghi nel 2015 non aveva avuto come effetto automatico l’aumento della domanda dei cittadini privati – e quindi i prezzi – perché molto del denaro iniettato nell’economia è stato tenuto dalle banche come riserva per garantirsi maggiore stabilità.

Poco margine di manovra in futuro

C’è poi un altro problema: se i tassi sono troppo bassi, perché prestare il proprio denaro? È vero che la banca centrale sceglie di offrire fondi a basso costo e che questo influenza i mercati, ma i risparmiatori potrebbero non accettare rendimenti così bassi. Questo li spingerebbe a cercare soluzioni più rischiose e speculative. L’enorme crescita delle criptovalute negli ultimi dieci anni, per esempio, sembra legata anche alla scarsità di opportunità di investimento più sicure e redditizie, dovuta al lungo periodo di tassi bassi.

Esiste un’altra ragione per cui abbassare i tassi potrebbe non essere la scelta ideale: più i tassi scendono, meno margine rimane per tagliarli in futuro. Oggi, per esempio, l’Italia sta registrando una crescita ridotta, ma comunque positiva: la crescita acquisita del PIL, cioè quanto già realizzato negli scorsi mesi, è pari a +0,5 per cento nella prima metà del 2025. Se ora i tassi venissero portati a zero e a settembre si verificasse una nuova crisi finanziaria, simile a quella del 2008, la BCE non avrebbe più la possibilità di abbassarli ulteriormente. Sarebbe ancora peggio se nel frattempo venisse introdotto anche il Qe: in quel caso, oltre a non poter usare lo strumento tradizionale dei tassi, verrebbe meno anche la possibilità di ricorrere alla politica monetaria non convenzionale come risorsa straordinaria.

Si tratta comunque di scenari estremi, legati a un taglio molto forte dei tassi, che oggi non sembra imminente. Il fatto che esistano conseguenze negative non significa che i tassi bassi non siano utili: restano uno strumento importante da considerare. Tuttavia, se nonostante la crescita stagnante degli ultimi anni i tassi non sono stati portati a zero, una ragione c’è. Al momento, la BCE preferisce concentrarsi sull’obiettivo della stabilità dei prezzi, evitando scelte che possano alimentare l’inflazione.

Inoltre, mantenere i tassi più alti può essere interpretato come un segnale di fiducia rivolto agli investitori: dopo un decennio di tassi a zero, il rischio di tornare a lungo a livelli troppo bassi potrebbe spingerli a cercare rendimenti migliori altrove, abbandonando gli investimenti nell’economia europea. Infine, decidere oggi di usare tutto il margine disponibile abbassando i tassi a zero significherebbe non avere più spazio di manovra nel caso esplodesse una nuova crisi, costringendo subito a ricorrere a strumenti straordinari, ammesso che non siano già stati messi in campo.

La svalutazione dell’euro

C’è ancora un ultimo aspetto da considerare: la svalutazione dell’euro. In generale, più alto è il tasso di interesse stabilito da una banca centrale, maggiore è il potere d’acquisto della valuta rispetto alle altre, a parità di condizioni. Un cambio forte, infatti, consente di acquistare dall’estero più facilmente. Per fare un esempio: se ieri un euro valeva quanto un dollaro e oggi vale due dollari, il potere d’acquisto dei beni americani raddoppia.

Negli ultimi mesi, il dollaro ha perso molto valore e questo pesa sul nostro export: se da un lato un euro forte rende i prodotti statunitensi relativamente più convenienti, dall’altro rende più cari i prodotti europei per i consumatori americani. Con i dazi già destinati ad aumentare i prezzi dei beni europei negli Stati Uniti, un dollaro più debole rischia di ridurre ulteriormente la domanda di prodotti europei. Una possibile risposta sarebbe svalutare l’euro abbassando i tassi di interesse. Ma anche qui ci sono pro e contro: un euro più debole favorisce le esportazioni, ma allo stesso tempo rende più costosi i beni e i servizi che importiamo, in particolare quelli energetici.

La soluzione proposta da Tajani, dunque, potrebbe stimolare l’economia e attenuare in parte l’impatto dei dazi, ma deve essere valutata con cautela, perché comporta anche conseguenze negative di non poco conto.
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