Che cosa c’è di vero, e cosa no, nel dibattito sui referendum

Abbiamo analizzato sei delle affermazioni che stanno circolando di più negli ultimi giorni, a favore o contro i quesiti
ANSA/MATTEO CORNER
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Domenica 12 giugno, dalle ore 7 alle ore 23, i cittadini in Italia saranno chiamati a votare per i cinque quesiti referendari sulla giustizia, promossi dalla Lega e dal Partito radicale. Nelle scorse settimane, abbiamo analizzato più nel dettaglio che cosa chiedono i quesiti, quali sono le posizioni dei partiti, dei favorevoli e dei contrari (anche in una puntata del nostro podcast), che cosa è successo in passato con gli altri referendum, e quali sono le dieci parole chiave da sapere. Abbiamo raccolto tutti i nostri approfondimenti in un ebook, scaricabile qui gratuitamente

In questo articolo ci concentreremo invece su sei dichiarazioni che circolano in questi giorni tra chi è a favore dei referendum e chi no, per cercare di capire, numeri e fatti alla mano, che cosa c’è di vero nelle ragioni dei due schieramenti.

È vero che si sta parlando poco del referendum?

Questa accusa è stata rilanciata negli ultimi giorni, tra gli altri, dal leader della Lega Matteo Salvini. Abbiamo analizzato che cosa dicono i dati più recenti del monitoraggio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ed effettivamente le televisioni stanno dando meno spazio ai referendum sulla giustizia rispetto a quanto avvenuto in passato per altri appuntamenti referendari. Tra il 28 maggio e il 4 giugno, i principali telegiornali e programmi extra-tg del nostro Paese hanno dedicato in media l’1,6 per cento del loro tempo all’argomento “referendum della giustizia”. Nel 2020, il referendum sul taglio dei parlamentari aveva ricevuto una percentuale pari al 4,5 per cento. 

Va comunque sottolineato che lo stesso Salvini, da metà febbraio a inizio maggio, non ha mai parlato sui social dei referendum sulla giustizia, facendo solo sporadiche dichiarazioni in tv o sui giornali, prima di avviare la campagna referendaria.

È vero che senza legge Severino i condannati potranno candidarsi o rimanere in carica?

Il primo quesito (scheda rossa) propone di eliminare la cosiddetta “legge Severino” del 2012, in base alla quale non possono essere candidati o decadono dalla carica di deputato, di senatore o di parlamentare europeo, le persone condannate in via definitiva per reati particolarmente gravi, come mafia o terrorismo; per reati contro la pubblica amministrazione, come peculato, corruzione o concussione; e per delitti non colposi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a quattro anni. Per gli amministratori locali, come i sindaci, la legge Severino prevede una sospensione temporanea del mandato, della durata massima di un anno e mezzo, anche in caso di condanna non definitiva. 

Se il quesito referendario dovesse raggiungere il quorum, ossia se andasse a votare la maggioranza degli aventi diritto di voto, e vincessero i sì, la legge Severino sarebbe abrogata e si tornerebbe alla legislazione precedente. In questo caso, non è vero che tutti i condannati potranno, per esempio, candidarsi a una carica politica. Un giudice avrà la facoltà di decidere, di condannato in condannato, se sia necessario applicare o meno l’interdizione dai pubblici uffici. Ricordiamo che, in base al codice penale, per i condannati a una pena di reclusione superiore ai cinque anni è già prevista automaticamente l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

È vero che il quesito sulle misure cautelari ha conseguenze sulla violenza di genere?

Il secondo quesito (scheda arancione) propone di modificare le basi su cui possono essere disposte le cosiddette “misure cautelari”, tra cui ci sono la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari. Queste misure possono essere disposte nei confronti di un indagato (o condannato con sentenza non definitiva) a fronte di gravi indizi di colpevolezza o nei casi in cui ci sia il pericolo di fuga, di inquinamento delle prove, di compimento di nuovi e gravi reati o della reiterazione del reato per cui si è accusati. In quest’ultimo caso, la custodia cautelare si può applicare solo se la pena massima prevista per il reato in questione è superiore a quattro anni o a cinque anni se il giudice intende disporre la custodia cautelare in carcere.

Il referendum interviene proprio sulla possibilità di disporre misure cautelari se si pensa che l’indagato possa ricommettere lo stesso reato. Se vincessero i sì, un giudice potrebbe disporre la custodia cautelare in carcere, per esempio, solo se – a fronte di gravi indizi di colpevolezza ma in assenza di pericolo di fuga o inquinamento delle prove – ritenesse ci sia il concreto pericolo che l’indagato possa commettere reati con l’uso di armi o altri mezzi di violenza personale, con la criminalità organizzata o contro l’ordine costituzionale. Non, per esempio, se ritenesse ci sia il concreto pericolo che venga reiterato un reato, come lo spaccio aggravato o la corruzione.

Che cosa succederebbe dunque per i soggetti che commettono un reato di violenza di genere, come lo stalking? I contrari al secondo quesito sostengono che, senza la giustificazione della reiterazione del reato, sarà più difficile disporre misure cautelari nei confronti di questi soggetti. È vero che tra le motivazioni per disporre di misure cautelari resta il rischio che l’indagato possa fare ricorso ad altri mezzi di violenza personale, ma la decisione dipenderebbe dalla valutazione interpretativa del singolo giudice, come già comunque accade oggi per la reiterazione del reato.

È vero che l’Italia è tra i Paesi europei che ricorre di più alla custodia cautelare?

Secondo i dati dell’ultimo rapporto “Space I”, pubblicato della Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej), al 31 gennaio 2021 l’Italia era il settimo Paese tra i 27 membri dell’Unione europea con la più alta percentuale di detenuti in Italia in attesa di una sentenza definitiva, dunque considerabili in “custodia cautelare” (31,5 per cento). Nel complesso, la Cepej ha piazzato l’Italia tra i Paesi con un valore “molto alto” di detenuti nelle carceri in attesa di una sentenza definitiva.

Secondo i dati del Ministero della Giustizia più aggiornati, a fine maggio 2022 la percentuale dei detenuti negli istituti penitenziari italiani in attesa di una condanna definitiva è scesa sotto il 30 per cento.

È vero che i magistrati cambiano più volte funzione nel corso della carriera?

Sul sito dei promotori dei referendum sulla giustizia si legge che «nel corso della carriera, gli stessi magistrati passano più volte dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa» e «si alternano nelle diverse funzioni». In Italia i giudici svolgono la cosiddetta “funzione giudicante” ed emettono le sentenze, mentre l’accusa nel processo è rappresentata dai pubblici ministeri (pm), che fanno le indagini e svolgono la cosiddetta “funzione requirente”. Le carriere di giudici e pm non sono separate: fanno entrambi dello stesso corpo giudiziario e, in base a una legge del 2006, i giudici possono diventare pm, e viceversa, nel corso della stessa carriera, con alcuni vincoli (per esempio, non si può cambiare funzione all’interno dello stesso distretto giudiziario). Ma quanto frequenti i cambi di funzione? Sono la norma o l’eccezione?

I numeri più aggiornati del Consiglio superiore della magistratura (Csm) mostrano che la maggioranza dei magistrati in Italia non sceglie di cambiare funzione nel corso della carriera. Fino al 2018, oltre il 74 per cento di un campione di 12.212 magistrati (il 98 per cento di quelli assunti tra il 1965 e il 2017) non aveva fatto alcun cambio di funzione, mentre il 26 per cento circa ne aveva fatto almeno uno. Più nel dettaglio, il 16 per cento si era fermato a un cambio e meno del 10 per cento ne aveva fatti almeno due.

È vero che solo in Italia non c’è la separazione delle carriere dei magistrati?

Confrontare in modo esaustivo come funzionano le carriere dei magistrati nelle grandi democrazie del mondo non è un compito semplice. Semplificando un po’ e restringendo l’ambito di indagine, possiamo dire che l’Italia non è un’eccezione, almeno tra i principali Paesi dell’Unione europea.

Come abbiamo spiegato in passato, in Francia c’è un corpo giudiziario unico, che comprende la magistratura giudicante e quella requirente, e prevede espressamente la possibilità per i magistrati di svolgere entrambe le funzioni nel corso della loro carriera.

La situazione in Germania è in parte diversa: qui giudici e pm rivestono funzioni distinte e godono di un diverso status. Le due carriere però hanno alcuni punti in comune, come il percorso formativo, la retribuzione e il sistema di promozione. Anche se in linea di principio le carriere rimangono separate, i passaggi di funzione non sono esclusi.

Infine, in Spagna le due carriere dei magistrati sono separate.

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