Perché si parla poco dei referendum sulla giustizia

In tv i quesiti hanno avuto un terzo dello spazio dedicato al taglio dei parlamentari. Le cause dello scarso interesse sono diverse e coinvolgono i partiti
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Negli ultimi giorni la Lega e il Partito radicale, i due principali promotori dei referendum sulla giustizia, hanno denunciato più volte il poco spazio dato dai mezzi di informazione sul voto referendario del 12 giugno. Il 31 maggio l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), l’autorità indipendente che si occupa della regolamentazione in ambito comunicativa, ha evidenziato una critica simile, richiamando la «Rai e tutti i fornitori di servizi di media audiovisivi e radiofonici» a garantire «un’adeguata copertura informativa» sui referendum, rispettando l’imparzialità nei confronti dei favorevoli e dei contrari.

Abbiamo analizzato che cosa dicono i numeri più recenti e, rispetto al passato, è vero che la tv – il principale mezzo di informazione nel nostro Paese – ha dedicato meno spazio ai referendum. Le cause dello scarso interesse sui referendum sono diverse e riguardano, tra gli altri, anche la politica e i partiti.

Lo spazio dei referendum in tv

L’8 giugno l’Agcom ha pubblicato il monitoraggio più aggiornato sullo spazio che la tv in Italia ha dedicato ai cinque quesiti sui referendum della giustizia. I dati sono relativi alla settimana tra il 29 maggio e il 4 giugno, la penultima settimana prima del voto. Nella sua analisi, l’Agcom ha monitorato telegiornali e programmi extra-tg di 14 emittenti televisive, dalla Rai a Mediaset, passando per La7 e Sky.

Secondo le elaborazioni di Pagella Politica, i principali telegiornali e programmi extra-tg del nostro Paese hanno dedicato in media l’1,6 per cento del loro tempo all’argomento “referendum della giustizia”, con grandi differenze tra le diverse reti. Tra il 29 maggio e il 4 giugno, il Tg2 ha per esempio dedicato il 7 per cento del suo tempo ai referendum, mentre il tg di La7 lo 0,1 per cento

Un confronto con quanto avvenuto in passato mostra che lo spazio dedicato dalla tv ai referendum sulla giustizia sembra essere in effetti più basso rispetto a precedenti voti referendari.

Secondo le elaborazioni di Pagella Politica, nelle due settimane prima del voto sul referendum costituzionale del taglio dei parlamentari, ossia tra il 30 agosto e il 12 settembre, i principali telegiornali e programmi extra-tg italiani avevano dedicato ai quesiti in media il 4,5 per cento circa del loro tempo: quasi il triplo di quanto dedicato ai referendum sulla giustizia tra il 29 maggio e il 4 giugno.

Le cause dello scarso interesse

Le cause di questo minore interesse sui referendum della giustizia, rispetto a precedenti referendum, sono diverse: da mesi l’attenzione mediatica è concentrata sulla guerra in Ucraina e sulle conseguenze economiche del conflitto, ma gli stessi promotori dei referendum hanno le loro responsabilità. 

Prendiamo l’esempio di Matteo Salvini, il leader della Lega, che l’anno scorso ha promosso la raccolta delle firme per il referendum ed è il segretario del principale partito in Parlamento a sostegno dei cinque sì ai rispettivi quesiti. Il 7 giugno, ospite a Mattino 5 su Canale 5, Salvini ha parlato di «censura» sui referendum, accusando i mezzi di informazione di «nascondere» il voto del 12 giugno. In realtà, il primo a non essersi occupato per lungo tempo dei referendum è stato lo stesso Salvini. Dal 16 febbraio – giorno in cui la Corte costituzionale ha ammesso i cinque quesiti referendari – a inizio maggio, il leader della Lega sui propri profili social non ha mai parlato dei referendum, dedicando invece spazio a messaggi contro i cinghiali per le strade di Roma o a sostegno di cuccioli di cane maltrattati. In un’intervista con il Corriere della Sera, il 14 aprile Salvini aveva motivato così il suo silenzio e quello del suo partito sui referendum: «I primi cinque titoli dei tg sono sulla guerra, il sesto e sul Covid, il settimo sulle bollette. Parlare di separazione delle carriere dei magistrati è difficile: per questo preferisco parlare di casa, di risparmi e magari flat tax. Ma io spero di arrivare a maggio con il Covid archiviato e la guerra ferma». Fino ad oggi, né le pagine ufficiali Facebook e Instagram di Salvini e della Lega hanno sponsorizzato contenuti per promuovere il voto ai referendum, ma hanno speso soldi per chiedere il sostegno al 2xmille o contro l’«immigrazione incontrollata».

Secondo alcuni commentatori, il poco impegno della Lega sulla comunicazione dei referendum sarebbe motivato dal timore, supportato dai sondaggi, che i quesiti probabilmente non raggiungeranno il quorum, ossia la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto di voto, e che quindi non saranno ritenuti validi. Esponendosi meno del previsto, in questo modo la Lega dovrebbe poi fare meno i conti con una sconfitta, strategia smentita però da diversi esponenti del partito. 

Anche gli altri principali partiti in Parlamento non si sono spesi in particolar modo per incentivare gli elettori ad andare a votare per i referendum. Il Movimento 5 stelle è contrario, mentre il segretario del Partito democratico Enrico Letta non ha dato indicazioni di voto, atteggiamenti che non incentivano il raggiungimento del quorum. Tra gli altri partiti di centrodestra, Forza Italia è favorevole a tutti e cinque i quesiti, mentre Fratelli d’Italia a tre su cinque. La coalizione di centrodestra dunque non è unita: in questo contesto, compattare gli elettori per convincerli a votare diventa ancora più difficile e, in ogni caso, una vittoria dei referendum rischia di essere vista di riflesso come una vittoria della Lega, a scapito proprio di Forza Italia e Fratelli d’Italia.

Infine, sullo scarso interesse verso i referendum sulla giustizia sta probabilmente pesando il giudizio di febbraio scorso della Corte costituzionale, che ha dichiarato inammissibili il quesito sull’eutanasia, quello sulla cannabis legale e quello sulla responsabilità diretta dei magistrati. I cinque requisiti sulla giustizia dichiarati ammissibili hanno contenuti particolarmente tecnici e meno di facile comprensione rispetto a quelli dichiarati inammissibili.

In generale, i numeri del passato mostrano che negli ultimi 25 anni le richieste dei referendum sono passate solo quando c’è stato un forte interesse sull’argomento nell’opinione pubblica e quando anche i partiti si sono schierati apertamente in campagna elettorale a favore di una posizione.

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