Il 4 giugno è uscito La mossa del cavallo (Marsilio Editori), il nuovo libro dell’ex presidente del Consiglio e leader di Italia Viva Matteo Renzi.
In un passaggio del libro, parlando di quanto fatto quando era al governo, Renzi scrive che «le statistiche e i numeri hanno un valore». Pagella Politica lo ha preso alla lettera (come già fatto per il libro precedente, Un’altra strada, uscito a febbraio 2019) analizzando dieci dichiarazioni contenute nelle 208 pagine del volume, per vedere se corrispondono al vero o meno.
L’emergenza coronavirus
1. Lo stop della crescita cinese
«Per la prima volta nella sua storia la Cina ha visto arrestarsi la crescita del Prodotto interno lordo»
Ad aprile l’Istituto nazionale di statistica della Cina ha annunciato che il Pil cinese si è contratto del 6,8 per cento nei primi tre mesi del 2020 (quelli maggiormente colpiti dall’emergenza coronavirus), rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Va però sottolineato che molti esperti nel settore hanno più volte messo in guardia sull’affidabilità dei dati macroeconomici cinesi.
In ogni caso, più che «per la prima volta nella sua storia», come dice Renzi, si tratta della prima volta dal 1992 – anno in cui la Cina ha iniziato a pubblicare i dati trimestrali sull’andamento del Pil – che il Paese asiatico registra un dato di questo tipo in negativo.
Secondo le stime più aggiornate del Fondo monetario internazionale, a fine 2020 il Pil della Cina registrerà una crescita dell’1,2 per cento (la Cina ha invece deciso di non fornire un obiettivo di crescita del proprio Pil per quest’anno).
2. Il Mes senza condizioni
«Si è arrivati a concedere per la sanità i soldi del Mes, con un prestito a condizioni molto favorevoli e privo di condizionalità»
Come abbiamo scritto di recente, è vero che l’Ue ha creato una nuova linea di credito – il Pandemic crisis support – all’interno del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), grazie al quale i Paesi dell’area euro possono ricevere prestiti, a tassi di interesse molto ridotti, fino a un massimo del 2 per cento del loro Pil per spese sanitarie dirette e indirette legate all’epidemia del nuovo coronavirus. Per l’Italia stiamo dunque parlando di una cifra massima di circa 36 miliardi di euro.
L’imprecisione di Renzi è che al momento l’assenza di condizioni per accedere al prestito – ossia la necessità di non dover attuare delle riforme in cambio dei soldi ricevuti – è sì stata confermata dall’Eurogruppo dell’8 maggio, dai vertici del Mes e da una lettera del 7 maggio del vice presidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis e dal commissario europeo Paolo Gentiloni, ma rimane un margine di incertezza.
Questi atti ufficiali infatti hanno valore più politico che giuridico. Anche se ad oggi è un’ipotesi estremamente improbabile, non è possibile escludere del tutto la possibilità che in futuro si presentino delle condizioni per l’accesso al Mes.
3. Orbán e i “pieni poteri”
«Viktor Orbán approfitta del virus per chiudere il Parlamento»
Il 30 marzo il Parlamento ungherese – controllato per oltre due terzi dal primo ministro Viktor Orbán – ha concesso poteri straordinari all’esecutivo, consentendogli di governare per decreto durante tutta la durata dello stato d’emergenza per il coronavirus. Al momento dell’approvazione della nuova legge, lo stato d’emergenza non aveva una data di scadenza, ma a fine maggio il governo ha annunciato che avrebbe revocato le misure straordinarie il prossimo 20 giugno.
Come abbiamo spiegato in un nostro fact-checking, è vero che i “pieni poteri” concessi a Orbán sono stati duramente criticati dall’opposizione ungherese, da politici europei e da attivisti per i diritti umani, ma non è del tutto corretto dire che il Parlamento ungherese sia stato «chiuso», come dice Renzi. È rimasto comunque aperto e doveva essere «informato» sui nuovi decreti speciali. Secondo i critici, è stato però privato dei pochi poteri che gli erano rimasti.
– Leggi anche: I “pieni poteri” nella politica italiana. Un viaggio da da Mussolini a Star Wars
I numeri del governo Renzi
4. La spesa per interessi sul debito
«Per me era un punto d’onore aver diminuito quella voce [la spesa per interessi del nostro debito, ndr], passando da 77 miliardi di euro annui ai circa 60 previsti per la legge di bilancio 2020»
Di recente Pagella Politica ha raccolto e rielaborato in una tabella (qui consultabile) i dati Istat sulla spesa dello Stato in interessi passivi, ossia su quanto è costato al nostro Paese farsi prestare soldi sui mercati.
Nel 2014 – anno di insediamento del governo Renzi – l’Italia aveva speso circa 74,5 miliardi di euro di interessi sul debito (erano stati oltre 77,8 miliardi a fine 2013), scesi costantemente ogni anno fino ai 60,3 miliardi di euro di spesa per il 2019.
Il Documento di economia e finanza, approvato dal governo a fine aprile 2020, stima per il 2020 una spesa per interessi passivi di circa 60,6 miliardi di euro.
Le cifre indicate da Renzi, dunque, sono sostanzialmente corrette.
5. Il Jobs Act e il «milione di posti di lavoro»
«Il Jobs Act concorre a creare più di un milione di posti di lavoro in tre anni, di cui oltre la metà a tempo indeterminato, come certificato dai dati ufficiali Istat»
La “storia” del Jobs Act che ha creato «un milione di posti di lavoro in tre anni» è da tempo uno dei cavalli di battaglia di Renzi, che aveva rivendicato questo dato anche nel libro pubblicato nel 2019, Un’altra strada, e in diverse altre dichiarazioni pubbliche. Come abbiamo scritto più volte, però, le cose non stanno proprio come dice l’ex presidente del Consiglio. Vediamo in breve perché.
Il Jobs Act fa riferimento a una serie di misure – di cui alcune strutturali e altre temporanee – approvate dal 2014 in poi per far crescere l’occupazione e liberalizzare maggiormente il mercato. Calcolare con precisione le conseguenze di questo insieme di misure non è semplice: stiamo parlando infatti di diversi provvedimenti – come il “decreto Poletti”, diventato effettivo a marzo 2014 – con effetti diversi lungo i mesi e gli anni successivi.
Secondo i dati Istat, comunque, dal primo trimestre del 2014 (data di insediamento del governo Renzi) al primo trimestre 2018 (data delle successive elezioni politiche), il numero complessivo degli occupati in Italia è cresciuto da circa 22 milioni a 22,9 milioni: un aumento di circa 900 mila unità, simile al «milione di posti di lavoro» citato da Renzi. Questa statistica – così riportata – ha però almeno tre limiti.
Innanzitutto, l’ex presidente del Consiglio confonde la categoria degli occupati con quella dei posti di lavoro. Secondo la definizione dell’Istat, la prima è infatti più ampia della seconda, perché fa riferimento anche a impieghi occasionali e temporanei, e non solo a lavori continuativi e stabili (quelli che comunemente si intendono con i “posti di lavoro”).
Il secondo limite riguarda il periodo che si prende in considerazione. Come abbiamo visto, i provvedimenti del Jobs Act sono stati approvati in diversi momenti del governo Renzi. L’introduzione del contratto “a tutele crescenti”, per esempio, è del dicembre 2014: da quella data, fino alla fine della scorsa legislatura, l’aumento degli occupati è stato di circa 665 mila unità.
Il limite principale del confronto di Renzi riguarda però il nesso causa-effetto. Stimare gli effetti di un intervento legislativo non è per nulla facile ed è un lavoro da ricercatori: bisogna infatti valutare la differenza tra come sarebbero andate le cose in assenza di quel provvedimento e la realtà.
Non ci sono studi conclusivi sull’effetto delle misure sul lavoro del governo Renzi. Alcuni di essi, parziali e limitati, hanno trovato effetti ridotti. Un effetto rilevante sull’aumento degli occupati potrebbe venire, per esempio, dalle misure che hanno ritardato i pensionamenti volute dai governi precedenti a quello di Renzi, trattenendo quindi al lavoro molte persone.
Insomma, anche se durante i governi Renzi e Gentiloni c’è stato un aumento degli occupati, non si può dire che siano “posti di lavoro” a tutti gli effetti, e il collegamento tra l’aumento e le misure legislative è molto più dubbio di quanto non lasci intendere l’ex presidente del Consiglio.
6. I soldi per il contrasto alla povertà
«Quando il governo Renzi si è insediato, l’ammontare delle somme stanziate per il fondo sulla povertà era di 20 milioni di euro; nel momento in cui abbiamo lasciato Palazzo Chigi era diventato di 2,7 miliardi»
Anche questo risultato è stato più volte rivendicato in passato da Renzi, ma va un po’ ridimensionato.
Prima dell’insediamento del governo Letta, in Italia si spendevano circa 50 milioni di euro in via sperimentale per il contrasto alla povertà (e non 20 milioni), attraverso il cosiddetto “Sostegno di inclusione attiva” (Sia). Letta ha poi aumentato i fondi con 250 milioni per il solo 2014 e 120 milioni da spalmare nel triennio 2014-2016.
Il governo Renzi ha a sua volta stanziato ulteriori risorse nel contrasto alla povertà, con oltre 730 milioni di euro nel 2016.
I 2,7 miliardi di euro di cui parla Renzi fanno riferimento allo stanziamento (2,75 miliardi di euro, a essere precisi) previsto per il 2020 dal successivo governo Gentiloni per finanziare il Reddito di inclusione (Rei), introdotto nel 2018 con risorse per circa 2 miliardi di euro.
Ma quei soldi erano le risorse promesse per il futuro. Il cambio di governo ha portato, naturalmente, a una parziale modifica. Con il governo Conte I, infatti, il Rei è stato sostituito nel marzo 2019 dal reddito di cittadinanza.
Le critiche al governo Lega-M5s
7. Le “giravolte” del M5s
«Il Movimento 5 stelle ha già cambiato idea […] sulla Tav, sul Tap»
Renzi ha sostanzialmente ragione quando dice che il M5s su queste due opere ha di fatto deciso per una marcia indietro.
A gennaio 2020 Luigi Di Maio si è dimesso da capo politico del M5s, tenendo un lungo discorso in cui ha cercato di giustificare le mancate promesse del Movimento, tra le altre cose, sul blocco della linea ferroviaria Tav Torino-Lione e del gasdotto Tap.
Come abbiamo scritto in un nostro approfondimento sul tema, nonostante per anni il M5s avesse ripetuto di volere e potere bloccare la realizzazione della Tav e del Tap una volta andato al governo, la realtà dei fatti ha dimostrato che fermare quelle opere era molto difficile, se non praticamente impossibile. Da un lato, per gli accordi presi dal nostro Paese, dall’altro lato per gli altissimi costi in caso di recesso dai contratti.
8. Salvini e i rimpatri
«Vale ricordare che i rimpatri effettuati sotto la gestione Salvini sono stati meno numerosi di quelli del suo predecessore, Marco Minniti, ovvero circa 7 mila persone»
A febbraio 2020 Pagella Politica ha ottenuto dal Ministero dell’Interno (grazie a una richiesta di accesso civico) e rielaborato i dati sui rimpatri forzati fatti dall’Italia dal 2017 al 2019.
Dal 1° giugno 2018 al 4 settembre 2019, ossia nei 460 giorni con Matteo Salvini ministro dell’Interno, sono stati fatti in totale oltre 8.300 rimpatri – un numero più alto di quello indicato da Renzi – pari a circa 18,2 rimpatri al giorno. Nello stesso periodo a cavallo degli anni precedenti (con Marco Minniti al Viminale fino al 31 maggio 2018) i rimpatri erano stati anche in questo caso oltre 8.300.
Forse Renzi fa riferimento ai dati relativi a tutto il 2018, quanto i rimpatri furono oltre 6.800 (i «circa 7 mila» indicati nel libro), in aumento però del 4,7 per cento rispetto agli oltre 6.500 di tutto il 2017 (con Minniti ministro).
Altri temi
9. I 120 miliardi di Italia Shock
«Il Piano Italia Shock [può] liberare in un triennio circa 120 miliardi di euro»
Da novembre 2019 Renzi, in più occasioni, ha ripetuto che il nostro Paese deve sbloccare «120 miliardi di euro» che, secondo lui, sarebbero bloccati e inutilizzati, e spendibili per la realizzazione di opere infrastrutturali, di scuole e ospedali. Per farlo, il 20 febbraio Italia Viva ha annunciato i dettagli del piano “Italia Shock”, di cui ci siamo già occupati in passato.
La domanda centrale è: davvero lo Stato italiano ha così tanti soldi messi da parte, non utilizzati?
Al di là della cifra citata in sé, il problema è che questi miliardi di euro fanno in generale riferimento a stanziamenti fatti negli anni, e non a risorse vere e proprie già a disposizione dello Stato.
In pratica non si sta parlando di soldi già recuperati, o finanziati, per esempio prendendoli a prestito o aumentando le tasse: l’impegno vero e proprio da pagare avviene con l’inizio della realizzazione di un’opera, ed è in quel momento che lo Stato raccoglie le risorse per far fronte alla spesa prevista.
Questo però potrebbe comportare, a meno di non voler alzare le tasse o ridurre la spesa pubblica, il rischio di aumentare debito e deficit pubblici (già fortemente intaccati in questi mesi dall’emergenza coronavirus). Infine si porrebbe il problema di riuscire a spendere i soldi effettivamente recuperati (Italia Viva, ad esempio, suggerisce a questo proposito di nominare decine e decine di commissari straordinari per la realizzazione delle opere).
Insomma, è vero che in Italia esiste un problema di trasformare in realtà gli investimenti previsti con i vari stanziamenti fatti negli anni, ma non è vero che ci sono decine di miliardi di euro già a disposizione dello Stato, pronti per essere spesi.
10. Quanto vale il turismo italiano
«Il turismo rappresenta circa il 13 per cento del Pil italiano»
Come abbiamo sottolineato di recente, non è semplice quantificare con precisione quale sia il contributo del turismo alla ricchezza prodotta in Italia, ma la stima fatta da Renzi è attendibile, considerando l’indotto.
Un rapporto della Banca d’Italia, pubblicato a dicembre 2018, ha quantificato per l’anno 2015 un valore aggiunto del turismo al Pil italiano pari a circa 88 miliardi di euro, una cifra che equivale a circa il 5,9 per cento della ricchezza prodotta ogni anno dal nostro Paese.
Ai contributi diretti si aggiungono poi quelli generati dagli investimenti dell’industria turistica e quelli relativi alle spese delle persone occupate nel settore turistico.
Se teniamo conto anche di queste due componenti, per il 2017 il World Travel and Tourism Council (Wttc) – un’organizzazione internazionale che rappresenta il settore privato nelle attività turistiche – ha stimato che il contributo totale del turismo in Italia era pari al 13 per cento del Pil.
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