Il 30 marzo la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha commentato su Facebook l’approvazione del Parlamento ungherese di una legge che ha ampliato i poteri del governo di Viktor Orbán per contrastare l’emergenza coronavirus.

«Ci sorprende che qualcuno si scandalizzi oggi perché Orbán adotta provvedimenti straordinari, non particolarmente diversi da quelli adottati dall’Italia con addirittura un minor mandato da parte del Parlamento», ha scritto Meloni su Facebook, ammettendo però di non conoscere «nel dettaglio» quanto votato in Ungheria. Il 30 marzo un messaggio di sostegno per Orbán era arrivato anche dal leader della Lega Matteo Salvini.

La legge è stata criticata da alcune organizzazioni umanitarie e da diversi politici italiani ed europei, secondo i quali il provvedimento rischierebbe di limitare la democrazia in Ungheria.

Sia Meloni che Salvini nelle ultime settimane hanno più volte criticato il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte per aver coinvolto poco, a detta loro, il Parlamento italiano nelle scelte in tema di emergenza. Allo stesso tempo, però, ora difendono il governo Orbán, che ha chiesto e ottenuto più poteri.

Ma è corretto fare un paragone tra la legge approvata in Ungheria e i provvedimenti presi nel nostro Paese nelle ultime settimane?

La risposta in breve è no: al di là delle similitudini legate all’emergenza, Meloni sbaglia il confronto. Vediamo nel dettaglio perché.

Come è stata approvata la legge ungherese

Al 1° aprile i contagiati in Ungheria erano 492, con 16 morti, uno dei dati più bassi di tutto il continente. Da un paio di settimane nel Paese sono state chiuse scuole e università, vietati gli assembramenti al chiuso di 100 o più persone e ridotti gli orari dei ristoranti e dei bar. Gli spostamenti delle persone non sono però stati limitati ai livelli di Italia, Spagna e Francia.

Il 30 marzo 2020 l’Assemblea nazionale dell’Ungheria – l’unica camera di cui si compone il Parlamento – ha approvato con 137 voti a favore e 53 contrari una nuova legge che, per contenere l’epidemia di coronavirus nel Paese, dà poteri straordinari al primo ministro Orbán, alla guida dell’Ungheria da circa 10 anni.

La maggioranza nell’Assemblea nazionale è saldamente in mano a Fidesz, il partito di Orbán, che insieme agli alleati del Partito popolare cristiano democratico (Kndp) conta 133 parlamentari su 199 (il 66,8 per cento, quanto basta per poter modificare in autonomia la Costituzione).

Il 30 marzo la legge è stata poi firmata e difesa apertamente dal presidente della Repubblica d’Ungheria János Áder – politico che proviene dallo stesso partito di Orbán e suo ex ministro della Giustizia – che, come vedremo meglio più avanti, è una figura non del tutto assimilabile a quella del nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Che cosa prevede la legge

Come si legge nel testo ufficiale della legge, le nuove misure approvate dal Parlamento ungherese hanno introdotto in particolare due novità, criticate sia da quotidiani internazionali che italiani.

“Pieni poteri” per un tempo indefinito

La prima novità riguarda i poteri concessi all’esecutivo di Orbán.

Durante tutto lo stato d’emergenza, iniziato l’11 marzo scorso, il governo ha il potere di «sospendere l’applicazione di alcune leggi», o di derogarne le disposizioni vigenti, e di «prendere misure straordinarie» attraverso la sola approvazione di decreti, senza passare dal Parlamento.

Questo può essere fatto per «difendere la vita, la salute, le persone, le proprietà e i diritti dei cittadini, e per garantire la stabilità dell’economia nazionale», un’espressione molto vaga e generale secondo i critici.

Prima della nuova legge, in base alla Costituzione ungherese, le misure speciali introdotte per decreto durante lo stato d’emergenza potevano durare al massimo 30 giorni, previo il prolungamento da parte dell’Assemblea nazionale.

È vero che il Parlamento può ritirare questi nuovi poteri e porre fine allo stato d’emergenza, che ad oggi non ha una scadenza. Ma come abbiamo visto l’Aula è saldamente in mano a Orbán.

«Non esiste una data precisa che indica la fine dello stato di emergenza», ha spiegato a Pagella Politica Sandor Lederer, co-fondatore e direttore di K-Monitor, un’organizzazione ungherese che si batte contro la corruzione e per una maggiore trasparenza delle istituzioni. «Lo stabilirà il Parlamento [che, come abbiamo detto, è controllato dal partito di Orbán n.d.r.], ma non è chiaro per esempio se la crisi economica che ci sarà dopo l’emergenza coronavirus sarà essa stessa considerata un nuovo periodo d’emergenza».

Il Parlamento ungherese per ora resta aperto e, in base alla nuova legge, deve anzi essere «informato» dal governo sui nuovi decreti speciali. Secondo i critici di Orbán, tuttavia, il Parlamento ha di fatto perso i pochi poteri che le erano rimasti.

Inoltre, le elezioni locali e nazionali sono state bloccate fino alla fine dello stato d’emergenza, così come i referendum.

Il presidente Áder, in un breve comunicato del 30 marzo, ha difeso comunque la nuova legge, dicendo che è «temporanea», «mirata solo a contrastare l’emergenza coronavirus» e «modificabile dal Parlamento».

I rischi per l’informazione

La seconda novità più discussa riguarda alcune modifiche relative al codice penale.

Chi diffonde “notizie false”, infatti, rischia una condanna da uno a cinque anni di carcere, in un Paese, come ha segnalato il 1° aprile la Columbia journalism review, dove la libertà di stampa si è notevolmente ridotta negli ultimi anni.

Durante i governi Orbán, per esempio, l’Ungheria ha perso molte posizioni nella classifica sulla libertà di stampa, redatta annualmente da Reporter senza frontiere (oggi è ottantasettesima).

«Non è chiaro chi stabilisce la veridicità di un’informazione, perché le parole usate nel testo della legge sono abbastanza vaghe da poter includere qualsiasi critica nei confronti della politica, sanitaria e non, del governo», ha scritto il 31 marzo in un approfondimento l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).

Inoltre se toccasse ai giudici valutare la falsità delle notizie, come vedremo tra poco, entrerebbe in gioco il problema dell’autonomia del potere giudiziario ungherese rispetto al potere esecutivo.

Ricapitolando: da un lato, la nuova legge ungherese consente all’esecutivo di Orbán di governare per decreto, senza dover passare dall’esame del Parlamento (comunque in mano per oltre due terzi al primo ministro); dall’altro lato, è stato introdotto il nuovo reato legato alla diffusione di notizie false sull’emergenza coronavirus, che potrebbe mettere in pericolo la libertà di stampa.

Ma veniamo al confronto con l’Italia.

Le differenze tra Italia e Ungheria

Ha senso paragonare questa situazione che si è creata in Ungheria con quanto sta avvenendo in Italia? Su Facebook Meloni ha scritto che i «provvedimenti straordinari» di Orbán non sono «particolarmente diversi da quelli adottati dall’Italia».

A prima vista potrebbero esserci forti somiglianze con quanto fatto da Conte e Orbán, ma le cose in realtà non stanno così. Cerchiamo di fare un po’ di ordine.

Lo stato d’emergenza

La Costituzione italiana non prevede la dichiarazione dello stato d’emergenza, che è stata invece deliberata dal Consiglio dei ministri il 31 gennaio scorso in base a una legge ordinaria (dunque di rango inferiore rispetto alla Costituzione).

Come abbiamo spiegato più nel dettaglio di recente, la dichiarazione dello stato d’emergenza è servita in particolare per permettere alla Protezione civile di affrontare a livello nazionale l’epidemia di coronavirus, non per dare poteri in più al governo Conte.

Inoltre, lo stato d’emergenza, in base alla delibera del Consiglio dei ministri dura sei mesi e ha quindi una data di scadenza, il 31 luglio 2020, a differenza di quanto sta avvenendo in Ungheria.

I decreti-legge e i “Dpcm”

Al momento, dunque, in Italia non sono state introdotte novità sul piano del diritto: il governo e il Parlamento hanno gli stessi poteri che avevano prima, anche se non sono mancate le critiche nel modo in cui l’esecutivo sta gestendo l’emergenza, proprio dal punto di vista delle norme approvate.

«Un impressionante profluvio di fonti normative ha inondato il nostro ordinamento in meno di due mesi per gestire l’epidemia di Covid-19», ha scritto ad esempio il 18 marzo su Questione Giustizia (la rivista online di Magistratura democratica) Ilenia Massa Pinto, professoressa ordinaria di Diritto costituzionale all’Università di Torino.

Quali sono queste “fonti normative”? In breve, per gestire l’emergenza il governo sta facendo ricorso a due strumenti specifici: i decreti-legge, regolati dall’articolo 77 della Costituzione e che devono essere convertiti in legge dal Parlamento, e i decreti del Presidente del Consiglio (Dpcm), che devono avere alla propria base delle leggi (o dei decreti-legge) ma che non necessitano di approvazione parlamentare.

In particolare, dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza, ma a monte dei provvedimenti approvati e di cui si discute quotidianamente in Italia, è stato varato il decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020, convertito in legge dal Parlamento il 5 marzo, che all’articolo 3 autorizza il presidente del Consiglio a introdurre con i Dpcm l’attuazione delle varie misure di contenimento per il coronavirus.

È sulla base di questo articolo, per esempio, che il 9 marzo Conte ha firmato il Dpcm per limitare gli spostamenti delle persone su tutto il territorio nazionale, o quello del 22 marzo per la chiusura delle attività produttive non essenziali (misure richieste più volte da Meloni e dal centrodestra prima che Conte le approvasse).

Ci sono state critiche, da parte di alcuni costituzionalisti, al ricorso continuo ai Dpcm.

«Considero la scelta di affidarsi al Dpcm, pur coperti dai primi decreti legge, un punto di debolezza, non di forza», ha detto ad Agi il 21 marzo Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia. «In una disciplina dell’emergenza diffusa, elastica e non costituzionalizzata come l’abbiamo noi, usare i Dpcm rende incerti i nostri diritti costituzionali, posto che è un tipo di fonte di rango secondario che non passa né il vaglio del Parlamento né quello del Capo dello Stato».

Se mai sorgesse un conflitto tra diritti costituzionali (o anche garantiti per legge) e quanto stabilito dai Dpcm, questi ultimi avrebbero la peggio.

Ma, al netto delle critiche, rimangono delle sostanziali differenze tra la situazione italiana e quanto sta avvenendo in Ungheria.

In primo luogo, i decreti-legge come il cosiddetto “Cura Italia” – che ha stanziato 25 miliardi di euro per l’emergenza – sono al momento all’esame del Parlamento italiano, che è operativo e può modificare quanto disposto dal governo. In Ungheria invece, come abbiamo visto, per via della nuova controversa legge il Parlamento non è chiamato a esprimersi sulle decisioni prese dall’esecutivo di Orbán.

In secondo luogo, l’esecutivo di Conte può contare su una maggioranza ben più ridotta rispetto a quella di Orbán (l’«addirittura un minor mandato da parte del Parlamento» di cui parla anche Meloni).

Quindi basterebbe che venisse meno il sostegno di uno dei quattro partiti di maggioranza (M5s, Pd, LeU e Italia Viva) per far nascere una crisi di governo che avrebbe, ovviamente, ripercussioni anche sull’emanazione dei Dpcm. Un’ipotesi remota in un periodo d’emergenza, ma che sottolinea comunque la differenza di potere che c’è tra i due primi ministri in questione.

Ricapitolando: è vero che in Italia c’è un dibattito sulla legittimità del continuo ricorso dei Dpcm, e in più in generale sulla gestione dell’emergenza, ma i nuovi poteri assegnati a Orbán sono maggiori, sia da un punto di vista giuridico sia per via della situazione politico-parlamentare, rispetto a quelli che ha attualmente il governo italiano.

Questa differenza, come vedremo adesso, è resa ancor più evidente anche alla differenza dei pesi e contrappesi costituzionali che sono in vigore nei due Paesi.

Pesi e contrappesi costituzionali

In Italia «stiamo seguendo le regole dello Stato di diritto», ha detto ad Agi il 13 marzo Fulco Lanchester, professore di Diritto costituzionale all’Università La Sapienza di Roma. «È evidente che alcune potrebbero sembrare delle forzature, ma il fatto che ci siano organi di controllo, dal presidente della Repubblica alla Corte costituzionale, fino alla stampa, garantisce che ci sarà il necessario controllo sulle decisioni del governo. Se dovessero esserci delle sbavature, ci sono questi organismi di controllo che possono intervenire».

Lo stesso non si può dire dell’Ungheria, che negli ultimi anni – come ha spesso sottolineato la stampa internazionale, dall’Economist al New York Times – ha iniziato un percorso che, secondo i critici, ha aumentato il controllo del potere esecutivo su quello giudiziario.

Vediamo, da un punto di vista istituzionale, quali sono i due aspetti che differenziano di più l’Italia dall’Ungheria.

Il ruolo del presidente della Repubblica

Come abbiamo visto prima, l’attuale presidente della Repubblica ungherese è János Áder, che è un veterano di Fidesz, il partito di maggioranza del primo ministro Viktor Orbán.

La sua seconda rielezione a presidente, avvenuta nel 2017, era stata vista dalla stampa internazionale la prova di quanto fosse pervasivo il potere di Orbán nel Paese (in Ungheria il presidente della Repubblica viene eletto dai due terzi del Parlamento o, se nessun candidato supera questa soglia, si fa un ballottaggio tra i due più votati al primo giro e vince chi prende la maggioranza dei voti).

Discorso diverso vale per il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, che proviene dalla Democrazia cristiana, è stato uno dei promotori della nascita del Pd, e non è quindi legato al partito di cui è espressione Giuseppe Conte, ossia il Movimento 5 stelle.

Insomma, se Orbán è nei fatti in posizione di forza rispetto a Áder, lo stesso non si può dire di Conte rispetto a Mattarella.

Il ruolo della Corte costituzionale

In secondo luogo, una significativa differenza esiste sulle due Corti costituzionali nei due Paesi, gli organi che hanno il potere di “smontare” gli effetti di una legge se ritenuta, appunto, incostituzionale.

In Ungheria, i giudici costituzionali sono 15 e vengono tutti eletti dal Parlamento, con la maggioranza dei due terzi. Quasi tutti i membri attuali della Corte costituzionale ungherese sono stati nominati con Orbán primo ministro e con una maggioranza dei due terzi in Parlamento dei partiti che sostengono Orbán. Dunque senza bisogno di trovare accordi e compromessi con l’opposizione.

In Italia, i 15 giudici costituzionali sono eletti cinque dalla magistratura, cinque dal presidente della Repubblica e cinque dal Parlamento. Al momento, i cinque eletti dal Parlamento sono: due in quota Pd, uno M5s, uno Area Popolare e uno Lega.

L’influenza del potere esecutivo sulla Corte costituzionale è dunque nettamente maggiore in Ungheria, rispetto all’Italia.

«Un altro elemento di cui si parla poco è che la Corte costituzionale, con la nuova legge voluta da Orbán, può lavorare a distanza, con voto elettronico, ma anche in questo caso – come per lo stato d’emergenza – non è stato fissato un elemento temporale» ha detto a Pagella Politica Sandor Lederer, co-fondatore e direttore di K-Monitor. «Se l’opposizione volesse impugnare una legge di fronte alla Corte costituzionale, potrebbe dover aspettare la sentenza per un tempo indefinito».

E l’Europa?

Se le nuove norme approvate in Ungheria sono così “pericolose”, perché non interviene l’Unione europea? La risposta più immediata è “perché è troppo presto”. Le procedure che consentono agli organi comunitari di intervenire richiedono tempo e al momento le priorità sono altre. Un domani l’Ue potrebbe però intervenire.

«L’Ue, in base agli articoli 6 e 7 del Trattato sull’Unione europea, potrebbe intervenire se si manifestasse un “evidente rischio di violazione grave” da parte dell’Ungheria dei valori comunitari, come quello della libertà e della democrazia, ma ad oggi l’intervento dell’Ue non c’è ancora stato», ha spiegato a Pagella Politica Silvia Cantoni, professoressa di Diritto internazionale all’Università di Torino.

I due articoli citati, per esempio, permetterebbero all’Ue di togliere il diritto di voto all’Ungheria in sede europea, ma la procedura prevista come detto richiede tempo. Si pensi ad esempio che una procedura in base all’articolo 7 contro l’Ungheria è stata avviata dal Parlamento europeo a settembre 2018, lamentando la violazione di principi dell’indipendenza dei giudici, della libertà di stampa, della tutela delle minoranze e altro ancora.

A settembre e dicembre 2019, come previsto dalla procedura, sono state sentite le controargomentazioni di Budapest e attualmente si è ancora in attesa di una decisione da parte del Consiglio Ue. Qui siedono i capi di Stato e di governo, che portano avanti ognuno il proprio interesse nazionale, e la maggioranza dei quattro quinti richiesta per condannare l’Ungheria è molto alta.

Al momento è dunque stato solo pubblicato il 30 marzo un comunicato da parte della Commissione Ue che, in modo generico, mette in guardia dall’uso eccessivo delle misure d’emergenza negli Stati membri.

Il verdetto

Secondo Giorgia Meloni, «ci sorprende che qualcuno si scandalizzi oggi perché Orbán adotta provvedimenti straordinari, non particolarmente diversi da quelli adottati dall’Italia con addirittura un minor mandato da parte del Parlamento».

Questo paragone però è sbagliato, per una serie di motivi.

A differenza da quanto stabilito in Ungheria, il governo italiano non può governare solo per decreto, senza passare dal vaglio del Parlamento. È vero che il continuo ricorso ai Dpcm da parte del presidente Conte è stato criticato da alcuni costituzionalisti, ma in Italia il ruolo di controllo da parte del presidente della Repubblica, della Corte costituzionale e della stampa è più forte rispetto all’Ungheria.

Qui, per esempio, Orbán ha il controllo dei due terzi del Parlamento, che gli consente di nominare i membri della Corte costituzionale e di cambiare a proprio piacimento la Costituzione. Il presidente della Repubblica ungherese, poi, è un alleato storico di Orbán, mentre le nuove norme contro chi pubblica notizie false rischiano di mettere in pericolo la libertà di stampa, già in declino secondo gli osservatori internazionali.

In generale, l’aspetto più problematico della nuova legge approvata dal Parlamento ungherese è che non pone una data di fine allo stato d’emergenza nel Paese, e dunque ai poteri straordinari assegnati a Orbán, cosa invece che non è avvenuta in Italia.

Al di là delle somiglianze di cui abbiamo parlato a livello generale, Meloni si merita un “Pinocchio andante”.