Anche il governo Meloni ci riprova con la spending review

Entro il 10 settembre i ministeri dovranno inviare i propri piani di risparmio per i prossimi tre anni. L’obiettivo è tagliare 1,5 miliardi di euro entro il 2026, ma i tentativi del passato non sono incoraggianti
Ansa
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Entro domenica 10 settembre i ministri del governo Meloni dovranno inviare al Ministero dell’Economia e delle Finanze le proposte per ridurre le loro spese entro il 2026. In vista della scrittura della nuova legge di Bilancio per il 2024 il governo Meloni ha lanciato un nuovo programma per tagliare i costi della pubblica amministrazione, e in particolare quella dei ministeri. Questo tipo di iniziativa è conosciuta con il nome di spending review (in italiano “revisione della spesa”), un tema di cui in Italia si parla da almeno dieci anni, complici le iniziative dei governi che hanno preceduto quello attuale.

Ridurre i costi della pubblica amministrazione, migliorandone il funzionamento, è anche uno degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), il piano di ripresa economica per l’Italia dopo la pandemia da Covid-19 finanziato con 191,5 miliardi di euro di fondi dell’Unione europea. 

Gli obiettivi del nuovo programma di spending review del governo Meloni sono stati fissati lo scorso 7 agosto con un decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri (Dpcm). In questo provvedimento il governo ha stabilito che i ministeri dovranno risparmiare complessivamente circa 300 milioni di euro nel 2024, 500 milioni nel 2025, 700 milioni nel 2026, per un totale di 1,5 miliardi di euro di tagli alla spesa in tre anni. L’ammontare dei risparmi richiesto dal governo è comunque differente tra i vari ministeri: alcuni dovranno tagliare più spese dal loro bilancio, altri meno. Nel complesso il ministero che dovrà ridurre di più le proprie spese tra il 2024 e il 2026 è il Ministero dell’Economia e delle Finanze, che dovrà effettuare tagli per circa 650 milioni di euro. Al secondo posto c’è il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (circa 200 milioni di euro), al terzo posto il Ministero della Difesa (circa 193 milioni). Quello che invece dovrà ridurre di meno le proprie spese è il Ministero del Turismo, che entro il 2026 dovrà risparmiare circa 3,5 milioni di euro.
I vari ministeri non potranno decidere in totale autonomia come effettuare i tagli: il governo ha infatti stabilito una serie di criteri per la scelta delle voci su cui risparmiare. Più nel dettaglio, ciascun ministero potrà tagliare le spese intervenendo su vari settori di loro competenza. Tra questi ci sono i fondi per il sostegno a determinate categorie di persone. Per esempio negli scorsi mesi aveva fatto discutere il taglio delle risorse per il fondo di sostegno per le persone che pagano un affitto, finanziato dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (che però non è stato cancellato dal governo Meloni). In più i ministeri potranno ridurre le spese per l’erogazione di servizi ai cittadini e per il funzionamento della macchina burocratica, come l’organizzazione di uffici e personale, ossia le spese di gestione. Il governo ha comunque previsto alcune eccezioni: i ministeri non potranno per esempio ridurre le spese destinate a progetti del Pnrr e del fondo complementare al piano. Quest’ultimo è finanziato da circa 31 miliardi di euro di risorse nazionali e serve a sostenere la realizzazione degli obiettivi del Pnrr, ma da mesi il governo sta avendo una serie di problemi nella sua attuazione. 

Dal punto di vista pratico, i ministeri devono formulare i propri piani di riduzione della spesa, in cui devono precisare i motivi dietro ai vari tagli, e come detto in precedenza dovranno inviarli al Ministero dell’Economia e delle Finanze entro il 10 settembre, tra meno di quattro giorni. In seguito il Ministero dell’Economia e delle Finanze valuterà ciascun piano e dovrà darne il via libera: entro il 1° marzo 2024 ogni ministero dovrà poi pubblicare un decreto ministeriale con i dettagli del piano di risparmio. 

Tra il 2024 e il 2026 i ministeri dovranno comunque rendere conto dei progressi fatti nella riduzione delle spese, inviando relazioni periodiche sia al Ministero dell’Economia sia alla Presidenza del Consiglio dei ministri.  

«Quello che vi chiedo di fare non è una semplice spending review o un elenco di voci da tagliare, sarebbe riduttivo chiedervelo, ma di far tornare il più possibile la politica», ha detto Meloni ai ministri del suo governo il 29 agosto durante la prima riunione del Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva. «Se ci sono misure che non condividiamo politicamente, quelle misure non vanno più finanziate e le risorse recuperate utilizzate per gli interventi che sono nel nostro programma», ha aggiunto la presidente del Consiglio. Al momento non è chiaro quali voci di spesa taglieranno nello specifico i ministeri e secondo fonti stampa le richieste di Meloni hanno causato alcuni malumori tra i ministri.

Il vortice dei commissari

Nella riunione del 29 agosto Meloni ha comunque ammesso che tagliare la spesa della macchina statale «è un lavoro complesso». Il taglio dei costi della pubblica amministrazione, la spending review, è infatti al centro dell’attività dei governi almeno dal 2012. Negli ultimi dieci anni per implementare il taglio della spesa pubblica sono stati nominati anche vari commissari, che però hanno avuto vita breve. Ad aprile 2012, nel pieno della crisi finanziaria, il governo guidato da Mario Monti nominò come commissario per la razionalizzazione della spesa sugli acquisti di beni e servizi il dirigente d’azienda Enrico Bondi. L’idea di Monti era di risparmiare almeno 4 miliardi di euro nel 2012. L’incarico di Bondi durò però solo otto mesi, fino a dicembre 2012: il commissario fu accusato di conflitto di interessi perché durante il mandato gli era stato affidato anche il compito di comporre le liste elettorali di Scelta civica, il nuovo partito di Monti che si sarebbe presentato alle elezioni dell’anno successivo, e così si dimise. 

A gennaio 2013 Bondi venne quindi sostituito dal ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, ma pure lui durò poco. A maggio, dopo la nascita del governo Letta, Canzio si dimise e come suo sostituto venne nominato a ottobre l’economista Carlo Cottarelli. A Cottarelli vennero assegnati poteri più ampi rispetto ai commissari precedenti, con la durata dell’incarico estesa da uno a tre anni. A marzo 2014, un mese dopo l’insediamento del governo Renzi, il commissario presentò una serie di proposte per la revisione della spesa, che avrebbero dovuto portare a risparmi fino a un massimo di 7 miliardi nel 2014, 18 miliardi nel 2015 e 34 miliardi nel 2016. I tagli sarebbero stati attuati attraverso un cronoprogramma di riforme e avrebbero riguardato diverse voci, tra cui gli stipendi dei dirigenti pubblici, e altre spese su difesa, sanità e pensioni.
Immagine 1. Un articolo de l’Unità del 19 marzo 2014 sul piano di tagli alla spesa proposto da Cottarelli – Fonte: Archivio storico l’Unità
Immagine 1. Un articolo de l’Unità del 19 marzo 2014 sul piano di tagli alla spesa proposto da Cottarelli – Fonte: Archivio storico l’Unità
I rapporti tra Cottarelli e il governo Renzi si incrinarono presto, anche per le critiche del commissario alle scelte dell’esecutivo. Per esempio a luglio 2014 Cottarelli pubblicò sul suo blog un articolo in cui criticava la tendenza del governo ad autorizzare nuove spese per lo Stato in assenza di risorse, giustificandole con tagli che sarebbero avvenuti solo in futuro. Il 31 ottobre 2014 il commissario lasciò l’incarico e Renzi lo sostituì con l’allora deputato del PD Yoram Gutgeld, poi sostituito nel 2018 dal primo governo Conte, quello sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle, con gli allora vice ministri dell’economia Laura Castelli (M5S) e Massimo Garavaglia (Lega). Sia durante il secondo governo Conte, quello sostenuto da Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Italia Viva e Liberi e Uguali, sia durante il governo Draghi la figura del commissario scomparve. Lo scorso anno, nel Documento di economia e finanza per il 2022, il governo Draghi ha comunque stabilito che le amministrazioni centrali dello Stato avrebbero dovuto risparmiare 800 milioni di euro per il 2023, 1,2 miliardi nel 2024 e 1,5 miliardi nel 2025. 

Al di là dei singoli commissari e dei provvedimenti presi, non è semplice valutare con precisione i risultati dei vari tentativi di spending review fatti in Italia. Nel 2018, all’interno del rendiconto sul coordinamento di finanza pubblica, la Corte dei Conti ha certificato che tra il 2014 e il 2017, a cavallo tra i mandati dei commissari Cottarelli e Gutgeld, sono stati fatti tagli per circa 30 miliardi di euro. La Corte dei Conti precisava comunque che gran parte di questi risparmi sono serviti a coprire nuove uscite, venendo in sostanza neutralizzati. Secondo Il Sole 24 Ore, nel 2019 questi risparmi avevano raggiunto i 40 miliardi di euro, comunque compensati da nuove spese dello Stato.

La spesa per il funzionamento della Pa

In ogni caso, come abbiamo verificato di recente in un nostro fact-checking, negli ultimi anni la spesa per la gestione della pubblica amministrazione, la cosiddetta “spesa per consumi finali” è aumentata in termini assoluti, ma questo è stato dovuto in buona parte alla crescita dell’inflazione. Nella spesa per consumi finali sono compresi gli stipendi del personale, l’acquisto di attrezzature e altri beni necessari per offrire servizi ai cittadini.
In base ai dati dell’Istat, tra il 2017 e il 2022 la spesa per la gestione della pubblica amministrazione è passata da 322 miliardi a oltre 371 miliardi di euro, con aumenti costanti ogni anno. I vari aumenti, a eccezione di quello avvenuto tra il 2019 e il 2020, sono giustificati dalla crescita del costo della vita. Per esempio, nel 2017 durante il governo Gentiloni la spesa per la gestione della pubblica amministrazione è passata da 322 a 327 miliardi, con un aumento dell’1,2 per cento rispetto all’anno precedente, in linea con il tasso di inflazione medio annuo registrato all’epoca (+1,2 per cento). Lo stesso è avvenuto nel 2018 e nel 2019, così come nel 2021 e nel 2022. In quest’ultimo caso, nel 2022, a cavallo tra il governo Draghi e il governo Meloni la spesa ha superato i 371 miliardi (+5 per cento), con un aumento lievemente più basso del tasso di inflazione registrato quell’anno (+8,1 per cento). 

Il discorso è diverso per il 2020. Nel 2020 si è registrato invece un tasso di inflazione negativo, pari a un -0,2 per cento, ma la spesa per la Pa è comunque salita del 2,7 per cento rispetto al 2019. In questo caso, l’aumento è stato frutto degli effetti della pandemia da Covid-19 e alla crescita della spesa pubblica in ambito sanitario. In base ai dati Istat, tra il 2019 e il 2020 la spesa per il funzionamento del comparto sanitario della pubblica amministrazione è aumentata infatti di oltre 6 miliardi di euro, passando da circa 116 miliardi a oltre 122 miliardi.

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