Il fact-checking dei primi mille giorni del governo Meloni

Dalla sanità ai salari, passando per le riforme: abbiamo verificato quattro dichiarazioni della presidente del Consiglio al TG1
ANSA
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Il 17 luglio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha rilasciato una breve intervista al TG1 su RAI 1, in cui ha fatto un bilancio dei primi mille giorni del suo governo, insediatosi il 22 ottobre 2022.

Dalla sanità ai salari, passando per le riforme e il mercato del lavoro, abbiamo verificato quattro dichiarazioni di Meloni per capire se sono supportate dai numeri e dai fatti.

Gli stanziamenti per la sanità

«Nel 2025, sulla sanità, ci saranno 10 miliardi in più rispetto al 2022, quando noi ci siamo insediati»

La cifra citata da Meloni è sostanzialmente corretta. Nel 2022, il finanziamento del Servizio sanitario nazionale era pari a oltre 124 miliardi di euro. Nel 2025, grazie all’ultima legge di Bilancio, il finanziamento supererà i 135 miliardi di euro.

Occorre però fare due precisazioni per contestualizzare meglio la dichiarazione. La prima: salvo rare eccezioni, dal 2001 in poi il finanziamento del Servizio sanitario nazionale è sempre cresciuto di anno in anno. 

La seconda: le cifre indicate fanno riferimento a valori nominali, cioè calcolati ai prezzi correnti dell’anno a cui si riferiscono. In altre parole, non tengono conto dell’inflazione, cioè dell’aumento generale dei prezzi. Per effetto di questo fenomeno, i 10 miliardi in più citati da Meloni valgono meno in termini reali, cioè se si considera il potere d’acquisto effettivo delle risorse, che nel tempo si è ridotto.

La crescita dell’occupazione

«Io sono molto fiera del fatto che in questi 1000 giorni, ogni giorno, mediamente, sono stati creati oltre 1000 posti di lavoro a tempo indeterminato, per un totale di oltre 1 milione di nuovi occupati in più»

Secondo i dati ISTAT, a ottobre 2022 – quando si è insediato il governo Meloni – i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato in Italia erano poco meno di 15,3 milioni. A maggio 2025, erano poco più di 16,4 milioni: quindi, c’è stato effettivamente un aumento di oltre un milione di occupati a tempo indeterminato, come riportato da Meloni.

Quanto di questo aumento sia attribuibile alle politiche del governo è però difficile da stabilire con certezza, in assenza di studi specifici condotti da economisti o esperti del settore. Il fatto che durante il governo Meloni gli occupati siano aumentati non implica automaticamente che tale crescita sia il risultato diretto delle scelte dell’esecutivo. 

L’aumento degli occupati, infatti, è iniziato prima dell’insediamento del governo e fa parte di una dinamica che da anni interessa quasi tutti i Paesi dell’Unione europea. In alcuni Stati membri, peraltro, il numero degli occupati è cresciuto anche più che in Italia, il cui tasso di occupazione rimane il più basso dell’intera Ue.
Va inoltre osservato che la crescita degli occupati in Italia riguarda soprattutto le fasce di popolazione più anziane, nelle quali sono più diffusi i contratti a tempo indeterminato. In parte – ha sottolineato ISTAT in diversi rapporti – questo fenomeno è legato anche alle politiche che hanno innalzato l’età pensionabile.

L’andamento dei salari

Negli ultimi mesi, Meloni ha spesso ripetuto questa dichiarazione, enfatizzando i numeri e i meriti del suo governo, come abbiamo spiegato in un precedente fact-checking.

In sintesi, quando la presidente del Consiglio afferma che «dal 2023 i salari tornano a crescere più dell’inflazione», si riferisce alle “retribuzioni contrattuali orarie”. Si tratta della componente salariale fissata dai contratti collettivi nazionali per un’ora di lavoro. È vero che, a partire dalla fine del 2023, queste retribuzioni hanno cominciato a crescere, grazie al rallentamento dell’inflazione e al rinnovo di alcuni contratti. Tuttavia, nei primi mesi del 2025, le retribuzioni contrattuali orarie risultavano ancora inferiori rispetto al 2021.

Inoltre, anche durante i governi precedenti ci sono stati periodi in cui questo tipo di retribuzioni è aumentato.

Il quadro delle riforme

Non tutte le riforme elencate da Meloni stanno procedendo con la stessa velocità. Questo dimostra che la «stabilità» della maggioranza non si traduce automaticamente in un avanzamento omogeneo dei progetti promessi.

La riforma del fisco è quella che sta avanzando più rapidamente. Nell’agosto 2023, il Parlamento ha approvato una legge delega che attribuisce al governo il potere di intervenire su vari aspetti del sistema fiscale attraverso decreti legislativi. La maggior parte di questi decreti è già stata approvata.

Sul fronte del “premierato”, cioè l’elezione diretta del presidente del Consiglio, la coalizione di governo ha disatteso quanto promesso in campagna elettorale: inizialmente era stata proposta l’elezione diretta del presidente della Repubblica, un’ipotesi poi abbandonata. La riforma costituzionale sul premierato è stata presentata a novembre 2023 dal governo in Senato, dove è stata approvata a giugno 2024. Da oltre un anno, il testo è all’esame della Commissione Affari costituzionali della Camera. Anche qualora venisse approvato in aula, dovrebbe tornare al Senato per un’ulteriore lettura e successivamente di nuovo alla Camera. Con ogni probabilità, la riforma sarà poi sottoposta a referendum costituzionale: i tempi, quindi, restano ancora lunghi.

Per quanto riguarda l’autonomia differenziata, a giugno 2024 il Parlamento ha approvato una legge che definisce le regole e il percorso che le regioni devono seguire per chiedere più autonomia. Ma alcuni punti del testo sono stati criticati dalla Corte Costituzionale. Lo scorso maggio, per rispondere alle obiezioni dei giudici, il governo ha annunciato un nuovo provvedimento, di cui però al momento non si ha più notizia. La riforma è quindi entrata in una fase di stallo.

Infine c’è la riforma della giustizia, che propone di introdurre nella Costituzione la separazione delle carriere dei magistrati. Lo scorso gennaio, la Camera ha approvato il testo, che ora è all’esame del Senato. Negli ultimi giorni alcuni articoli della proposta sono già stati votati. Anche in questo caso, trattandosi di una riforma costituzionale, per entrare in vigore dovrà essere approvata due volte da entrambe le Camere e, con tutta probabilità, sottoposta a referendum.

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