«Questa riduzione delle emissioni non è necessariamente il risultato delle politiche messe in campo in Italia nell’ultimo decennio», ha spiegato a
Pagella Politica Stefano Caserini, ingegnere ambientale e professore di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. «Bisogna ricordare che dal 2007 in poi il nostro Paese è stato uno dei più colpiti dalla crisi economica, che ha avuto conseguenze anche sulla produzione di emissioni».
Come mostra il Grafico 1, il picco delle emissioni prodotte in Italia è stato toccato nel 2005, poi c’è stato un calo, mentre negli anni recenti c’è stato un andamento piuttosto stabile.
A prima vista, sembrerebbe comunque che il nostro Paese sia ancora lontano dall’obiettivo del -20 per cento del 2020 visto prima. Ma non bisogna fare confusione: la riduzione di un quinto delle emissioni è infatti un target a livello europeo. Per raggiungerlo, l’Ue
ha messo in campo due provvedimenti principali, e solo il secondo prevede dei singoli obiettivi per i vari Stati membri.
Lo scambio di quote di emissione
In primo luogo, c’è il sistema di scambio di quote di emissione (Ets), che
riguarda i gas serra prodotti da centrali elettriche, impianti industriali e dalle compagnie aeree. In parole semplici, si tratta di un vero e proprio mercato delle emissioni: ogni anno viene stabilito un tetto massimo di emissioni, che cala con il tempo, e i partecipanti possono acquistare e vendere le proprie quote di produzione dei gas a effetto serra.
Nel caso delle emissioni Ets, l’obiettivo comunitario è di una riduzione del 21 per cento tra il 2005 e il 2020, che
è stato già raggiunto (p. 15). I dati del 2019 parlano infatti di una diminuzione delle emissioni regolate dal Ets del 33 per cento.
Gli obiettivi Esd
In secondo luogo, ci sono singoli obiettivi nazionali per la riduzione delle emissioni non coperte dal sistema Ets, come per esempio quelle dell’agricoltura, delle case e dei trasporti. Per il 2020 ogni Paese
ha target diversi a seconda, per esempio, della propria ricchezza o della propria popolazione.
Entro quest’anno l’Italia
deve ridurre del 13 per cento le emissioni in questo ambito (Esd, da
Effort sharing decision), rispetto ai livelli del 2005. Nel 2018 il nostro Paese
aveva già registrato un calo di circa il 16,8 per cento, superiore dunque all’obiettivo. Anche Regno Unito e Spagna avevano già raggiunto il traguardo, come altri Paesi più piccoli, tra cui Grecia, Repubblica Ceca, Svezia e Romania.
«È ancora presto per avere i dati definitivi del 2020, ma considerando l’emergenza coronavirus è molto probabile che tutti gli Stati membri centreranno i propri obiettivi Esd», ha sottolineato Caserini a
Pagella Politica. «Va comunque sottolineato che l’obiettivo nazionale dell’Italia era abbastanza generoso, essendo calcolato sulle emissioni del 2005, anno in cui è stato registrato il livello più alto delle emissioni dal 1990».
Ricapitolando: anche se non ci sono ancora i dati definitivi per il 2020, possiamo dire che è certo che l’Ue centrerà il suo obiettivo di ridurre le emissioni comunitarie previsto per quest’anno: -20 per cento rispetto al 1990. Questa percentuale non è stata raggiunta dall’Italia, che però come obiettivo nazionale imposto dall’Ue ha il -13 per cento nelle emissioni relativo alle emissioni non soggette al sistema di scambio europeo (emissioni da trasporti riscaldamento, piccola industria, agricoltura).
I dati degli ultimi anni indicano che questo traguardo – comunque abbastanza basso – è stato raggiunto. Questo non è necessariamente solo merito delle politiche che sono state messe in campo dalle autorità italiane, anzi: il nostro Paese è stato tra i più colpiti dalla crisi economica nello scorso decennio, che ha fatto rallentare l’economia (e di riflesso, la produzione di emissioni).
Non stiamo ancora facendo abbastanza
Il presidente Conte sembra dunque avere in parte ragione quando dice che siamo tra gli Stati più «virtuosi» nella riduzione delle emissioni di gas serra. Il problema è che la bravura del nostro Paese è stata rivendicata all’interno di un «percorso»: il 2020 non è infatti un traguardo finale, anzi. È un primo step verso gli obiettivi futuri: e qui le cose per l’Italia – e non solo – sembrano mettersi male.
L’Ue e l’Accordo di Parigi
Facciamo un breve passo indietro. Come abbiamo anticipato, il Consiglio europeo del 10-11 dicembre
ha approvato l’obiettivo vincolante di ridurre le emissioni di almeno il 55 per cento entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990. Ora la palla passa alla Commissione Ue, che nei prossimi mesi dovrà presentare delle proposte per raggiungere questo traguardo. Tra le varie possibilità, come
abbiamo spiegato in passato, c’è per esempio quella di estendere la portata del sistema di quote Ets.
Il -55 per cento entro i prossimi dieci anni è un impegno più ambizioso rispetto a quanto previsto dagli attuali accordi europei, che già nel 2014
avevano fissato un taglio del 40 per cento da raggiungere entro il 2030. L’obiettivo finale è quello della cosiddetta “neutralità climatica” nel 2050: tra 30 anni, le emissioni e gli assorbimenti di CO2 (per esempio, dalle foreste)
dovranno, insomma, bilanciarsi.
Ma come
ha sottolineato l’Eea, negli ultimi anni le emissioni a livello europeo si sono ridotte in maniera appena sufficiente per raggiungere l’obiettivo previsto per quest’anno. Continuando a questo ritmo, secondo l’Eea sarà di fatto impossibile raggiungere l’obiettivo del -40 per cento, e men che meno quello del -55 per cento.
È vero che nei prossimi anni potranno essere introdotte misure più incisive, ma resta comunque un ulteriore problema. Diversi esperti hanno infatti sottolineato che, seppure sia molto ambizioso, l’obiettivo del -55 per cento potrebbe non essere abbastanza per rispettare l’Accordo di Parigi di dicembre 2015. In breve: questo accordo
ha stabilito che gli sforzi di 190 Paesi del mondo debbano puntare a contenere l’aumento medio delle temperature ben al di sotto i 2°C rispetto al periodo pre-industriale, e fare sforzi per fermarsi a +1,5°C (aumento che
già si prevede avrà enormi e gravi conseguenze per il pianeta e gli esseri viventi).
A ottobre scorso il Parlamento europeo aveva chiesto all’Ue che l’obiettivo entro il 2030
fosse portato a un taglio delle emissioni addirittura del 60 per cento, ma il Consiglio europeo è rimasto sulla decisione del -55 per cento.
«L’accordo del Consiglio europeo è comunque un qualcosa di storico e diversi progressi sono stati fatti negli ultimi anni, anche se è vero che non è ancora abbastanza», ha sottolineato Caserini a
Pagella Politica. «Anche quando si era stabilito il -20 per cento per il 2020, numerosi osservatori avevano considerato quell’obiettivo troppo blando, e avevano suggerito di puntare a un -30 per cento almeno».
Secondo il
Climate action tracker – un consorzio di ricercatori indipendenti, che monitora gli Stati nel mondo e le loro politiche ambientali in relazione all’Accordo di Parigi – il traguardo imposto dall’Ue per il 2030
è insufficiente per contenere l’aumento delle temperature entro gli 1,5°C. L’obiettivo,
scrive il
Climate action tracker, dovrebbe infatti essere alzato intorno al -65 per cento, con l’introduzione di nuove politiche dall’impatto significativo.
L’Italia è indietro
Si potrebbe obiettare che, nonostante questi limiti comunitari, il nostro Paese sia comunque tra quelli messi meglio in prospettiva, come ha lasciato intendere Conte in conferenza stampa. Ma anche in questo caso, diversi esperti concordano che non si stia facendo abbastanza.
Il 7 dicembre scorso
è uscita l’edizione 2021 del
Climate Change Performance Index (Ccpi), uno dei rapporti più autorevoli sui cambiamenti climatici. Con l’aiuto di diversi esperti per le varie nazioni, è realizzato ogni anno da Germanwatch, un’organizzazione non governativa con sede a Bonn, in Germania, che
si occupa di condurre analisi e ricerche sugli effetti dei cambiamenti climatici nel mondo.
Secondo il Ccpi, il “Piano nazionale e integrato per l’energia e il clima 2030” (
Pniec) – con cui il governo italiano ha, in sostanza, detto all’Europa come intende centrare i propri obiettivi futuri –
non è in linea con l’Accordo di Parigi. Lo stesso Pniec è poi tarato sui passati traguardi imposti dall’Ue all’Italia, che per quanto riguarda le emissioni Esd sono un -33 per cento nel 2030 rispetto al 2005. Ma con la decisione di alzare il taglio a -55 per cento a livello comunitario, anche i vari target nazionali
andranno rivisti, con un conseguente ulteriore e significativo sforzo per i singoli Paesi.
«Per raggiungere i nuovi obiettivi, l’Italia deve capire che serve ancora di più un cambio di paradigma, che metta al centro dell’economia la lotta all’emergenza climatica. Dobbiamo nei fatti rivoluzionare i nostri impegni», ha sottolineato Caserini a
Pagella Politica. «Questo non può ridursi soltanto ai calcoli e alle percentuali sulle emissioni: c’è poi tutto il discorso relativo alle rinnovabili e all’efficienza energetica, dove anche qui abbiamo degli obiettivi a cui puntare, e molto ambiziosi. Gli interventi sul clima devono essere la leva dello sviluppo socio-industriale del nostro Paese nei prossimi dieci anni».
In generale, secondo il Ccpi 2020, per quanto riguarda le emissioni l’Italia
si colloca (p. 9) al ventiquattresimo posto sui 57 Paesi analizzati, con il giudizio “Medio” e dietro a grandi Paesi europei come Francia, Germania e Regno Unito. Per quanto riguarda la classifica complessiva – che oltre alle emissioni, tiene conto delle energie rinnovabili, dell’efficienza energetica e delle politiche sul clima – l’Italia
è al ventisettesimo posto (p. 7), un gradino in meno rispetto al 2019, sempre con il giudizio “Medio”.
Al quarto posto c’è la Svezia, con il giudizio “Alto”, seguita dal Regno Unito e dalla Danimarca. I primi tre posti – quelli con il giudizio “Molto alto” – non sono stati assegnati.
Secondo la bozza del “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, il governo italiano
è intenzionato a spendere oltre 74 miliardi di euro per la “rivoluzione verde e transizione ecologica”, la fetta più consistente dei fondi europei in arrivo dal
Recovery and resilience facility. Non sono ancora però chiari su quali progetti specifici si intende agire, in un Paese che, ricordiamo,
spende ancora ogni anno circa 19 miliardi di euro per sussidi ambientalmente dannosi.
Infine, non bisogna poi dimenticarsi delle politiche di adattamento: l’emergenza climatica è già in atto e, per certi versi, le sue conseguenze
sono irreversibili. Dunque, come
spiega anche l’Eea, non bisogna solo pensare a ridurre le emissioni, ma anche a gestire gli effetti che già si mostrano dell’aumento delle temperature, come la
crescita in termini di frequenza e intensità di eventi estremi (come inondazioni e ondate di caldo e siccità, che
possono causare gravi incendi). Per di più, l’Italia
si trova al centro del Mediterraneo, che secondo gli esperti è un’area particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici.
«Le politiche sul clima non riguardano solo la mitigazione, ma anche l’adattamento, e su questo fronte non abbiamo un piano nazionale approvato», ha chiarito Caserini a
Pagella Politica.
Il verdetto
A margine del Consiglio europeo del 10-11 dicembre, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha commentato l’accordo tra i leader di Stato di ridurre le emissioni europee del 55 per cento entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990. Secondo Conte, in questo percorso l’Italia è «tra i Paesi di testa, tra quelli virtuosi».
Abbiamo verificato e questa dichiarazione è un’esagerazione, per diversi motivi.
Da un lato, è vero che l’Italia ha raggiunto i suoi obiettivi di riduzione per le emissioni previsti per il 2020, ma questi erano sia abbastanza generosi sia legati non solo alle politiche attuate, ma anche all’andamento dell’economia. Negli ultimi anni, l’andamento delle emissioni di gas a effetto serra in Italia è rimasto poi piuttosto stabile.
Dall’altro lato, gli interventi messi in campo dal nostro Paese per i prossimi anni – ora da riaggiornare, viste le novità europee – non sembrano essere sufficienti per rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, per contenere l’aumento medio delle temperature entro gli 1,5°C.
Secondo diverse analisi di esperti indipendenti, a livello mondiale molti Stati sembrano essere in una posizione di vantaggio rispetto al nostro.
In conclusione, Conte si merita un “Nì”.
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