In un post su Facebook, il deputato e vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, del Movimento 5 Stelle, ha scritto che è stato raggiunto un nuovo record nella disoccupazione giovanile e che questo è avvenuto dopo “la follia” della nuova legislazione sul lavoro, i cosiddetto Jobs Act. Vediamo se si tratta di un record e se è da ascrivere a quelle leggi.



I dati sulla disoccupazione giovanile



Il dato più recente sulla disoccupazione giovanile è stato pubblicato il 31 gennaio dall’ISTAT e si riferisce a dicembre 2016. Nel testo integrale si legge che, in quel mese, i disoccupati nella fascia 15-24 anni avevano raggiunto il 40,1 per cento, in leggero aumento (+0,2 per cento) rispetto al mese precedente.



Si tratta di un record? Nel grafico successivo riassumiamo l’andamento della disoccupazione giovanile negli ultimi mesi, con l’aiuto delle serie storiche ISTAT (disponibili qui).



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Come si vede, il livello del 40,1 per cento, per quanto alto, non è un record. Se guardiamo ai tempi recenti, si sono registrati valori più alti per quasi due anni tra agosto 2013 e giugno 2015, con un massimo toccato a marzo e agosto 2014 – entrambi al 43,5 per cento.



E in passato?



È comunque vero che la disoccupazione giovanile, in questi anni, ha toccato valori sconosciuti al nostro paese da diversi decenni. Come abbiamo mostrato qualche tempo fa a proposito di una dichiarazione di Giorgia Meloni, dal 1977 – cioè da quando esistono serie storiche ricostruite dell’ISTAT – la percentuale non si era mai avvicinata al 40 per cento, toccando il precedente picco a metà degli anni Ottanta con valori intorno al 32-33 per cento.






Tornando ai numeri di oggi, il valore della disoccupazione giovanile è sottolineato da tempo come particolarmente problematico: pochi giorni prima, il leader della Lega Nord Matteo Salvini aveva detto che “quasi quattro giovani su dieci sotto i 24 anni non hanno un lavoro”. Si tratta però di un’esagerazione: poiché il tasso di disoccupazione è calcolato solo su quanti lavorano o sono in cerca di un impiego, e in quella fascia molti giovani sono impegnati negli studi, un tasso di disoccupazione del 40 per cento circa significa che più o meno un giovane su dieci è in cerca di lavoro e non lo trova.



Che cosa c’entra il Jobs Act?



Di Maio implica, nella sua affermazione, che i livelli storicamente molto alti di disoccupazione giovanile siano stati raggiunti “con la follia del Jobs Act”. Anche l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva citato diverse volte il Jobs Act, ma all’interno di un ragionamento opposto: i miglioramenti nel settore dell’occupazione erano merito delle misure del suo governo.



Non è possibile esprimersi con certezza né in un senso né nell’altro, come avevamo già sottolineato: mancano infatti studi scientifici che valutino l’impatto delle misure, e anche tra gli economisti c’è grande dibattito. Vale però la pena citare il parere del presidente dell’INPS Tito Boeri, che in una relazione di metà 2016 scrisse che “con il cosiddetto Jobs Act si è davvero finalmente pensato ai giovani e al loro ingresso nel mercato del lavoro”, riferendosi in particolare al 2015 ed esprimendo però dubbi sulla durata degli effetti di quelle misure.



Il “Jobs Act” è un insieme di diversi provvedimenti che sono andati nella direzione di una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro e che sono cominciati con il “decreto Poletti” sui contratti a termine del marzo 2014. Ad essi si sono accompagnati altri provvedimenti di natura diversa, come le decontribuzioni per le assunzioni a tempo indeterminato in atto soprattutto durante il 2015.



Il verdetto



Luigi Di Maio dice che è stato raggiunto un nuovo record della disoccupazione giovanile, un’affermazione che non sembra del tutto giustificata: anche solo negli ultimi due anni sono stati raggiunti valori più alti. È vero comunque che si tratta di uno dei livelli più alti degli ultimi mesi e che storicamente i valori della disoccupazione tra i 15 e i 24 anni siano molto elevati. Afferma poi che questo è avvenuto “con la follia del Jobs Act”. Mancano però prove definitive che le leggi sul lavoro del governo Renzi abbiano avuto un effetto decisivo in un senso o nell’altro, e dunque in questo Di Maio effettua un collegamento indebito. “Nì” per il vicepresidente della Camera.