Dopo la pubblicazione dei dati Istat provvisori sul lavoro riferiti al novembre 2015, che hanno registrato un calo del tasso di disoccupazione all’11,3%, Matteo Renzi scrive su facebook che tale risultato è la prova che il Jobs Act funziona. Davvero il collegamento tra la diminuzione della disoccupazione e le politiche governative è così sicuro?



Pagella Politica è andata a verificare, a partire dai commenti degli esperti.



Non solo Jobs Act



Come abbiamo già scritto, il Jobs Act è in realtà un insieme di diversi provvedimenti che vanno nella direzione di una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro italiano. Il primo, il cosiddetto ‘decreto Poletti’, è del marzo 2014 e riguarda soprattutto i contratti a termine. Il principale, invece, è stato approvato dal parlamento all’inizio di dicembre dello stesso anno. Le misure riguardano principalmente l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale – il contratto ‘a tutele crescenti’ – e alcune modifiche alla precedente disciplina sui licenziamenti che, ad esempio, elimina la possibilità di reintegra nel caso di licenziamenti per motivi economici e la sostituisce con il pagamento di un indennizzo.



È importante chiarire che il Jobs Act non è l’unica misura governativa che ha inciso sul mercato del lavoro. Con la Legge di Stabilità 2015, infatti, sono stati introdotti importanti sgravi contributivi con cui lo Stato si fa carico per tre anni dei contributi previdenziali per i nuovi assunti a tempo indeterminato nel corso del 2015 (i dettagli sono esposti in questa circolare dell’Inps). Con il nuovo anno la Legge di Stabilità 2016 ha ridotto sensibilmente la decontribuzione.



Come va il mercato del lavoro italiano



I numeri dell’Istat riferiti a novembre meritano uno sguardo più approfondito. Alcune osservazioni sono state fatte da Francesco Seghezzi del centro di ricerca sul lavoro Adapt, in una serie di dieci tweet che sono stati ripresi da alcuni quotidiani. Seghezzi nota ad esempio che in un anno gli occupati sono cresciuti di oltre 200 mila unità, ma c’è stato anche un forte aumento degli inattivi.




Inoltre, se guardiamo alle fasce d’età, il vero aumento nell’ultimo anno è stato quello tra gli over 50, che hanno registrato 274 mila occupati in più. È interessante notare che questo trend occupazionale nella forza-lavoro più anziana è in linea con quanto accade in molti altri Paesi europei, come ha sottolineato di recente il Financial Times.




Se guardiamo invece i più giovani (25-34 anni), gli occupati sono calati in un anno di 40 mila unità e la riduzione dei disoccupati si compensa con quello degli inattivi, ovvero coloro che hanno smesso di cercare attivamente lavoro. Anche questo dato, nota il Financial Times, è in linea con la situazione europea.




Seghezzi conclude le sue osservazioni riassumendo il quadro come di una “stagnazione sostanziale”. Altri pareri forniscono una lettura più ottimista. Dario Di Vico, sul Corriere della Sera, sottolinea che, nei dati di novembre, si registra per la prima volta la coincidenza di aumento degli occupati e calo di disoccupati e inattivi (questi ultimi, in realtà, sono definiti da Istat come “stabili” rispetto al mese precedente).



Sul Sole 24 Ore, invece, un commento di Giorgio Pogliotti si concentra sul fatto che aumenti l’occupazione stabile (i contratti a tempo indeterminato) anche per influsso delle decontribuzioni, riassumendo la situazione in “segnali incoraggianti”.



Nel grafico successivo riassumiamo l’andamento degli occupati distinguendo dipendenti, indipendenti, assunti a tempo indeterminato e determinato da gennaio 2014 a novembre 2015, secondo i dati delle serie storiche dell’Istat (scaricabili qui).



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Lo studio di Fana, Guarascio e Cirillo



In conclusione, si può dire che dietro ai numeri dell’Istat sul calo della disoccupazione ci sia l’aspetto, indubbiamente positivo, dell’aumento complessivo e del tempo indeterminato, ma anche un’occupazione giovanile ancora in difficoltà.



Quanto di tutto questo sia effetto del Jobs Act rimane ancora discusso, anche in modo acceso (vedi questo scambio tra diversi economisti tra cui Riccardo Puglisi dell’Università di Pavia, Tommaso Monacelli della Bocconi e Luigi Marattin dell’Università di Bologna). Le diverse analisi uscite nelle ultime settimane sono molto caute nell’attribuire effetti al Jobs Act, sottolineando piuttosto il peso delle decontribuzioni (vedi ad esempio questo bilancio pubblicato su LaVoce.info dall’occupazione nel 2015). Tale mancanza di chiari nessi causali non impedisce che, ad ogni pubblicazione Istat o Inps sui dati del lavoro, i mezzi di informazione parlino spesso di “effetto Jobs Act”.



Ai primi di dicembre del 2015, i ricercatori Marta Fana (SciencesPo, Parigi), Dario Guarascio e Valeria Cirillo (Sant’Anna, Pisa) hanno pubblicato un working paper sugli effetti del Jobs Act sul mercato occupazionale italiano. Gli autori concludono che “il Jobs Act sembra non avere efficacia in termini di quantità, qualità e durata dei posti di lavoro creati dalla sua introduzione”.



Ottobre scorso: il bollettino di Banca d’Italia



Avevamo parlato di un altro elemento per valutare i meriti del Jobs Act lo scorso ottobre, quando la Banca d’Italia, nel suo bollettino trimestrale, aveva analizzato i dati relativi al Veneto per i primi quattro mesi del 2015.



Bankitalia concludeva che oltre il 90% delle nuove assunzioni fosse dovuto al miglioramento del ciclo economico (per il 75%) e agli sgravi contributivi approvati con la Legge di Stabilità 2015 (per un ulteriore 15% circa). Il Jobs Act avrebbe pesato solo per meno del 10% dei posti di lavoro creati nella regione. La Banca d’Italia concludeva che queste osservazioni si potessero verosimilmente applicare in tutta Italia, anche se sottolineava la necessità di ricerche aggiuntive. Tra pochi giorni, il prossimo 15 gennaio, sarà pubblicato il nuovo bollettino, che conterrà forse nuove valutazioni in merito.



Il verdetto



Matteo Renzi insiste molto, e da mesi, nel dire che l’occupazione migliora per effetto del Jobs Act. Mancano però chiari nessi causali stabiliti dagli studi. In altre parole, Renzi dà per scontato un collegamento che così scontato non è. Il fatto che la disoccupazione scenda non è, di per sé, una dimostrazione che il Jobs Act funzioni e i pochissimi studi disponibili sembrano anzi andare nella direzione contraria a quella del Premier, sostenendo che il suo effetto sia molto limitato. Non possiamo naturalmente risolvere la questione, ma possiamo dire che il collegamento fatto da Renzi non è al momento sostenuto da dimostrazioni autorevoli. “Pinocchio andante” per il Presidente del Consiglio.