Perché il salario minimo non c’entra nulla con l’Urss

L’accostamento è stato fatto dal vicepresidente del Consiglio Tajani, che però non sembra conoscere bene come funzionava il lavoro in Unione Sovietica
Fonte: EmirhanEfe1, Wikimedia Commons
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Il 18 luglio, durante l’assemblea nazionale di Coldiretti, il vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani ha ribadito (min. 03:04) la contrarietà del governo Meloni all’introduzione del salario minimo in Italia. Tajani ha dichiarato che il governo vuole che i lavoratori «guadagnino bene» e non che abbiano stipendi «tutti uguali, come si faceva in Unione Sovietica». «Questo bisogna dirlo in maniera molto chiara», ha concluso il suo ragionamento Tajani. 

Ma davvero in Unione Sovietica tutti avevano lo stesso stipendio? L’accostamento con il salario minimo ha senso? In breve, la risposta è no a entrambe le domande.

L’organizzazione del lavoro in Urss

L’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss), nota come Unione Sovietica, è stato uno Stato federale fondato nel 1922 e dissolto nel 1991. L’Urss è nota per essere stato il primo grande Paese al mondo a essere governato integralmente secondo i principi del comunismo. Secondo i suoi critici, il fallimento dell’Unione Sovietica e le drammatiche vicende dello stalinismo rappresentano la prova dei difetti dell’ideologia comunista. Complice anche l’influenza degli Stati Uniti e l’appartenenza al blocco occidentale, in Italia si è diffusa durante il periodo della Guerra fredda un’ideologia anticomunista, che nelle sue accezioni più estreme ha generato anche diverse leggende prive di fondamento.

Al netto delle legittime posizioni politiche sul salario minimo, la frase detta da Tajani sugli stipendi «tutti uguali» in Unione Sovietica sembra rientrare in questo gruppo. Ricordiamo che con “salario minimo” si fa riferimento a una retribuzione minima fissata per legge, sotto cui un datore di lavoro non può andare. Questo non impedisce comunque di poter guadagnare di più rispetto al minimo stabilito per via legale.

«Sostenere che in Unione Sovietica i salari fossero tutti uguali è una banalizzazione: è vero che all’interno di una stessa categoria di lavoratori i livelli di stipendio erano molto simili tra loro, ma di sicuro un operaio non prendeva quanto un alto dirigente di una grande impresa metallurgica», ha spiegato a Pagella Politica Giovanni Cadioli, esperto di storia sovietica e professore all’Institut d’études politiques di Parigi. «In Unione Sovietica c’era una differenziazione salariale, che sicuramente era più regolamentata e meno ampia rispetto all’Occidente, ma esisteva eccome», ha detto a Pagella Politica Giovanni Savino, esperto di storia della Russia e professore all’Università di Napoli Federico II.

Secondo Savino, che ha vissuto a lungo in Russia e ha lasciato il Paese solo in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina, le differenze salariali riguardavano in particolare le categorie di lavoratori specializzati come «i cosmonauti, i funzionari di partito, gli operai specializzati e chi era impiegato in settori pericolosi come i laboratori chimici e le centrali nucleari». Questi lavoratori infatti, anche all’interno di un regime comunista che prevedeva in teoria l’uguaglianza tra tutti i cittadini, percepivano stipendi più alti dei lavoratori comuni.

Allo stesso modo, oltre alla mansione, in Unione Sovietica contava il luogo di lavoro: «Chi si trasferiva e andava a lavorare nei posti inospitali dell’estremo Nord riceveva più soldi e aveva diritto a una pensione anticipata, per questo molta gente era disposta a farlo». 

Certo, a fare l’astronauta o il funzionario di partito non erano in molti ma secondo Vanessa Voisin, professoressa di storia dell’Europa orientale all’Università di Bologna, esistevano differenze di salario anche tra categorie di lavoratori più comuni, come gli operai. «Persino se guardiamo l’industria, c’erano molte categorie di condizioni e remunerazioni, in base al carattere prioritario o meno della produzione, alla capacità del lavoratore di rispettare le norme dettate dal piano economico e molti altri fattori», ha spiegato Voisin a Pagella Politica

L’esempio perfetto in questo senso è quello di Aleksej Grigór’evič Stachanov, l’operaio simbolo dell’Urss. Secondo Voisin, proprio per essere stato un simbolo di operosità e dedizione al lavoro, Stachanov era «l’operaio d’élite e possedeva grandi vantaggi materiali rispetto agli altri della sua categoria».

Una questione di benefit

Gli studiosi concordano poi sul fatto che, in un sistema chiuso e regolamentato come quello sovietico, più che il salario la differenza tra i lavoratori era determinata dall’accesso o meno a una serie di benefit che lo Stato garantiva ad alcune fasce della popolazione. Voisin ha sottolineato che «la posizione sociale dell’individuo determinava l’accesso alla rete di distribuzione dei beni e dei prodotti di cui vi era scarsità, creando quindi una vera e propria “gerarchia del consumo” tra la popolazione».

Anche secondo Savino, oltre al salario, in Unione Sovietica esistevano altri tipi di vantaggi garantiti a certe categorie professionali: «Alcuni funzionari ricevevano in “comodato d’uso” una dacia, ossia un’abitazione in campagna, una macchina o un appartamento a Mosca, e questo era visto come un grande benefit fuori dallo stipendio. Ma va detto che se paragonati a quelli di oggi, questo tipo di privilegi fa ridere: Leonid Breznev, capo dell’Urss per quasi vent’anni, abitava in un appartamento, certo grande e ben arredato per gli standard dell’epoca, e aveva macchine occidentali, ma rispetto a quello che vediamo oggi con Putin possiamo dire che Breznev viveva da asceta».

I vantaggi derivanti dallo status sociale garantivano a certe fasce di cittadini condizioni di vita sopra la media. Per questo motivo anche secondo Andrea Graziosi, professore di storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli, la dichiarazione di Tajani è quantomeno «esagerata», dato che la società italiana contemporanea e quella dell’Urss di metà del secolo scorso non sono paragonabili.

«Faccio un esempio: se due persone prendono 100 rubli al mese, ma una ha accesso alle catene di negozi riservati ad alcune categorie professionali, dove a prezzi fissi e convenienti trova tutto quello che gli serve, i suoi 100 rubli varranno molto di più rispetto a quelli dell’altra persona che non può comprare da questi canali preferenziali», ha detto Graziosi a Pagella Politica. Graziosi ha precisato inoltre che negli anni ’70, nelle città di provincia dell’Urss, era per esempio difficilissimo trovare carne ai prezzi ufficiali nelle normali macellerie, e chi non aveva accesso ai negozi riservati doveva comprarla al mercato “libero”, cioè a prezzi tre o quattro volte superiori. «Questo non faceva altro che far esplodere differenze salariali all’apparenza minime, ma che invece generavano grandi disparità tra la popolazione».

Prospettive diverse

Al di là delle differenze salariali, gli studiosi sentiti da Pagella Politica sono d’accordo sul fatto che accostare il salario minimo all’Unione Sovietica sia esagerato. «In Urss era impossibile parlare di salario minimo perché era un sistema che si basava su coordinate del tutto diverse dal capitalismo, che si sosteneva aver superato, e il sistema di costruzione del salario era completamente diverso da come lo immaginiamo noi», ha detto Savino. Secondo l’esperto, le priorità dello stato sovietico erano la produttività e il raggiungimento della piena occupazione, mentre non lo era l’idea del salario minimo. «Parlare di salario minimo ha senso nelle economie capitaliste, dove il lavoro è trainato dall’iniziativa privata, e lo Stato deve farsi carico di tutelare i lavoratori. Non ha senso invece in un contesto di economia programmata come l’Urss, dove lo Stato aveva in mano praticamente tutto», ha detto Cadioli. «In Urss, negli anni Venti del Novecento, si parlava di produttività e organizzazione del lavoro, di servizi sociali garantiti, ma non di salario minimo. Poi il sistema cambiò nell’Urss di Stalin, in cui servizi come scuola e università diventarono in parte a pagamento», ha aggiunto Savino. «Se vogliamo fare una provocazione, possiamo dire che probabilmente oggi un comunista sovietico sarebbe stato più d’accordo con quelli che criticano il salario minimo piuttosto che con quelli che lo vorrebbero introdurre», ha concluso l’esperto.

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