La riforma del “premierato” consentirà ancora i ribaltoni tra i governi

Giorgia Meloni ripete che la modifica della Costituzione impedirà l’alternarsi di governi con maggioranze molto diverse tra loro. Questa certezza però non c’è
EPA/ALESSANDRO DELLA VALLE
EPA/ALESSANDRO DELLA VALLE
Uno dei «grandi obiettivi» della riforma costituzionale del “premierato”, come ha spiegato spesso la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, più di recente a maggio, «è garantire il diritto dei cittadini di scegliere da chi farsi governare mettendo fine alla stagione dei ribaltoni». La riforma, che è stata approvata dal Senato il 18 giugno e ora sarà esaminata dalla Camera, contiene varie novità, tra cui l’elezione diretta del presidente del Consiglio e la cosiddetta “norma anti-ribaltoni”. Nelle intenzioni del governo, questa norma vuole evitare che il risultato delle elezioni sia modificato con cambi di maggioranza durante la stessa legislatura. 

In altre parole, il governo Meloni promette che la riforma scongiurerà casi simili a quello accaduto tra il 2018 e il 2019, quando in meno di un anno e mezzo si è passati dal governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega a quello sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Partito Democratico, entrambi guidati dallo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. 

In realtà il testo della riforma – così come è stato approvato dal Senato – fallisce nel suo obiettivo di impedire i “ribaltoni” tra i governi, anche se li renderà più difficili.

Che cosa dice la riforma

La novità principale della riforma sul “premierato” è la modifica dell’articolo 92 della Costituzione, che propone di introdurre l’elezione diretta del presidente del Consiglio. La riforma prevede infatti che il capo del governo sia «eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni» e che non sia più nominato dal presidente della Repubblica sulla base delle possibili maggioranze in Parlamento uscite dalle elezioni, ma sia incaricato sulla base della sua elezione diretta.

La riforma costituzionale propone di modificare poi altri articoli della Costituzione, tra cui l’articolo 94, quello che regola il rapporto di fiducia tra Parlamento e governo. I primi due commi di questo articolo non sono toccati dalla riforma: il primo prevede che il governo «deve avere la fiducia» della Camera e del Senato, ossia la maggioranza dei voti a favore in entrambe le camere; il secondo dispone che le camere possono accordare o revocare la fiducia al governo con una «mozione motivata e votata per appello nominale». 

Quello che la riforma approvata dal Senato propone è di cambiare il terzo comma dell’articolo 94 nel seguente modo: «Entro dieci giorni dalla sua formazione», il governo deve ottenere la fiducia di Camera e Senato. Se non la ottiene, il presidente della Repubblica conferisce un nuovo incarico al presidente del Consiglio votato dagli elettori. Se fallisce anche questo tentativo, perché il governo non ottiene la fiducia, il presidente della Repubblica scioglie il Parlamento e si torna al voto. Si va a nuove elezioni anche nel caso in cui la Camera o il Senato revocano formalmente la fiducia data al governo.

«Negli altri casi di dimissioni», stabilisce la riforma, ci sono due possibilità. Entro sette giorni il presidente del Consiglio può chiedere al presidente della Repubblica di sciogliere il Parlamento e di andare al voto. Se non esercita questa facoltà, il presidente della Repubblica può incaricare il presidente del Consiglio dimissionario di formare un nuovo governo o può dare l’incarico a un altro «parlamentare eletto in collegamento con il presidente del Consiglio». Come spiega un dossier del Servizio studi del Senato, le modalità di questo «collegamento» saranno stabilite dalla nuova legge elettorale che dovrà essere approvata se la riforma costituzionale diventerà legge. In ogni caso, nelle intenzioni del governo, questa espressione significa con tutta probabilità che l’altro parlamentare dovrà fare parte almeno della stessa coalizione di partiti che hanno vinto le elezioni. Questa alternanza tra due presidenti del Consiglio diversi può avvenire solo una volta nel corso di una legislatura e questa opzione può essere scelta dal presidente della Repubblica «nei casi di decadenza, impedimento permanente o morte del presidente del Consiglio eletto».

Come detto, il riferimento al rispetto dell’indirizzo politico e del programma di governo è stato tolto nel testo approvato dal Senato. Ma la nuova norma, come ha ribadito di recente Meloni, può davvero evitare che nella stessa legislatura si formino governi supportati da maggioranze diverse da quella elettorale?

L’ipotesi di maggioranze diverse

Come spiegato, se il presidente del Consiglio eletto non esercita la facoltà di chiedere lo scioglimento del Parlamento e di andare al voto, il presidente della Repubblica, dopo le consultazioni con i partiti, conferisce l’incarico di formare il governo, per una sola volta, al presidente del Consiglio dimissionario o a un parlamentare a lui collegato. 

La norma non aggiunge altre specificazioni. Quindi non pone la condizione che la legislatura possa andare avanti solo se, in seconda istanza, il nuovo presidente del Consiglio sia supportato esclusivamente da parlamentari appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni, vietando in maniera esplicita o con altri meccanismi che possa essere supportato da una maggioranza composta da partiti diversi. Nonostante il dichiarato intento di evitarli, dal testo approvato in Senato non emergono dunque elementi normativi che inducano a escludere che i ribaltoni possano comunque verificarsi. Per lo stesso motivo, non è nemmeno esclusa la possibilità di avere governi di unità nazionale, dove partiti di schieramenti opposti si alleino per supportare un nuovo presidente del Consiglio, che però deve essere un parlamentare eletto tra le fila della maggioranza.

Peraltro, la possibilità che la legislatura sia comunque in grado di proseguire, se pure con un governo sostenuto da una maggioranza difforme da quella che ha vinto le elezioni, è un elemento che si suppone sarà tenuto in adeguato conto dal presidente della Repubblica nel decidere, a seguito di consultazioni, se ridare l’incarico al presidente del Consiglio dimissionario o conferirlo a un altro politico della sua maggioranza.

Il precedente più rigoroso

Non è la prima volta che un governo cerca di far approvare una riforma costituzionale per evitare i ribaltoni. Per esempio, una norma realmente “anti-ribaltoni” è stata inserita (art. 32) nella riforma costituzionale approvata a novembre 2005, durante il terzo governo di Silvio Berlusconi, ma bocciata a giugno 2006 con un referendum. Quella riforma interveniva su più articoli della Costituzione, rispetto a quella presentata dal governo Meloni, e tra le altre cose prevedeva che il presidente del Consiglio potesse nominare e revocare i ministri, godendo di rilevanti prerogative verso la Camera (in base alla riforma, il Senato, configurato come federale, non doveva dare la fiducia al governo). 

Secondo la riforma voluta dal terzo governo Berlusconi, in qualsiasi momento la Camera avrebbe potuto obbligare il presidente del Consiglio alle dimissioni con l’approvazione a maggioranza assoluta di una mozione di sfiducia, da cui sarebbe automaticamente conseguito anche lo scioglimento della Camera stessa. Il meccanismo “anti-ribaltone” sarebbe scattato se la mozione di sfiducia fosse stata respinta con il voto determinante di parlamentari non appartenenti alla coalizione dei partiti della maggioranza. 

In questo caso il presidente del Consiglio avrebbe dovuto dimettersi ugualmente, proprio per evitare che la sua permanenza in carica scaturisse da accordi parlamentari o, per usare un’altra definizione, da “giochi di palazzo” concordati con parlamentari dell’opposizione. Lo scioglimento della Camera poteva però essere evitato se entro venti giorni fosse stata approvata, da parte dei «deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera», una mozione recante l’indicazione di un nuovo presidente del Consiglio e la dichiarazione della volontà di continuare nell’attuazione del programma di governo. 

Da un lato, il meccanismo che evitava che una parte anche minima di deputati dell’opposizione potesse intervenire a sostegno del presidente del Consiglio avrebbe effettivamente ottenuto il risultato di precludere l’alterazione della maggioranza uscita vincente dal voto. Dall’altro lato, l’indicazione chiara ed espressa dei parlamentari «appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni» come gli unici in grado di consentire alla legislatura di andare avanti non avrebbe consentito alcuno spazio a maggioranze diverse per la prosecuzione della stessa. 

Né tale rigorosa impostazione normativa – che all’epoca comunque suscitò alcuni dubbi – né regole simili sono contenute nella riforma costituzionale oggi all’esame del Parlamento. Con la conseguenza che, come detto, non è esclusa la possibilità che partiti non facenti parte della maggioranza vincente alle elezioni possano sostenere il secondo presidente del Consiglio della legislatura, in virtù di margini di flessibilità che il nuovo impianto normativo non preclude.

Nel testo della riforma presentato in Parlamento a novembre 2023, poi modificato in Commissione Affari costituzionali del Senato, il governo aveva comunque provato a inserire un meccanismo che avrebbe vincolato il secondo presidente del Consiglio a essere in qualche modo legato alla medesima maggioranza. Il testo presentato dal governo proponeva un vincolo più stretto per permettere al presidente della Repubblica di incaricare un altro parlamentare «eletto in collegamento con il presidente del Consiglio». In base alla proposta iniziale, questa alternanza tra due presidenti del Consiglio valeva solo «per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto» aveva ottenuto la fiducia dal Parlamento. Durante le audizioni in Commissione Affari costituzionali, alcuni costituzionalisti hanno espresso poi dubbi su questa norma. Per esempio, non è chiaro come si possa controllare se un governo rispetta gli «impegni programmatici» del precedente governo, un’espressione piuttosto vaga. In più c’è il rischio che un vincolo di questo tipo contrasti con l’articolo 67 della Costituzione, in base al quale ogni parlamentare «esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato», dunque senza obbligo di votare come imposto dai partiti.

Tiriamo le somme

Ricapitolando: nonostante quanto ripetuto da Meloni e da altri esponenti della maggioranza, niente sembra impedire che con la nuova riforma un parlamentare appartenente alla stessa coalizione del presidente del Consiglio, in caso di frizioni tra i partiti della coalizione stessa, possa ottenere la fiducia da maggioranza diversa. Il disegno di legge dice solo che deve trattarsi di un parlamentare eletto in liste collegate al presidente del Consiglio, ma nulla dice sulla maggioranza chiamata a votarlo. 

Il silenzio della legge non esclude che tale maggioranza possa essere diversa dalla quella vincente alle elezioni. Anche perché, se il legislatore avesse voluto vietare questa ipotesi, l’avrebbe scritto chiaramente, come fece nel 2006. Dunque, i ribaltoni resteranno possibili nonostante la norma “anti-ribaltone”.

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