Perché il referendum costituzionale non ha il quorum

Può sembrare controintuitivo, visto che per cancellare anche una sola parola da una legge serve una soglia minima di votanti. Ma ci sono delle motivazioni sensate
Ansa
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In attesa della data ufficiale del referendum costituzionale sulla giustizia, prevista per il 2026, una cosa è certa: il risultato sarà valido a prescindere da quanti elettori andranno a votare. In altre parole, l’introduzione in Costituzione della separazione delle carriere dei magistrati potrà essere approvata o respinta senza dover raggiungere il quorum, che nei referendum abrogativi è fissato al 50 per cento più uno degli aventi diritto.

A prima vista, questa differenza può sembrare controintuitiva: perché per cancellare poche parole da una legge serve un minimo di partecipazione, mentre per modificare la Costituzione no? La spiegazione sta nella funzione diversa dei due strumenti e in una scelta precisa compiuta da chi la Costituzione l’ha scritta.

Abrogativo o confermativo

I referendum abrogativi – come quelli che si sono tenuti lo scorso giugno e hanno riguardato il lavoro e la cittadinanza – sono disciplinati dall’articolo 75 della Costituzione. La norma stabilisce che il risultato del referendum è valido solo se «ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto». Questo limite è stato introdotto per evitare che una minoranza organizzata di elettori possa cancellare una legge approvata dal Parlamento, sfruttando la scarsa affluenza alle urne. Proprio perché il referendum abrogativo permette di eliminare direttamente una legge, il quorum è stato concepito come una forma di tutela della volontà parlamentare.

«Il referendum abrogativo è uno strumento di democrazia diretta che conferisce un potere enorme al popolo, e infatti l’Assemblea costituente ha voluto inserire due soglie a garanzia di eventuali abusi: quella delle 500 mila firme necessarie per presentare la richiesta di referendum e il quorum in fase di voto», ha detto a Pagella Politica Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre.

Il discorso è diverso per i referendum confermativi, come quello costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, regolati dall’articolo 138 della Costituzione. In questo caso, il referendum non serve a cancellare una legge esistente, ma interviene alla fine di un procedimento parlamentare già completato.

Una riforma costituzionale deve essere approvata due volte nel medesimo testo sia dalla Camera sia dal Senato, a distanza di almeno tre mesi, e il referendum può essere chiesto solo se nella seconda votazione non è stata raggiunta la maggioranza dei due terzi dei componenti di entrambe le camere. In questo scenario, la consultazione popolare non “crea” la riforma, ma si limita a confermarla o respingerla, e può essere richiesta da un quinto dei parlamentari di una Camera, da cinque consigli regionali o da 500 mila elettori. Nel caso della riforma sulla separazione delle carriere, la raccolta firme è stata fatta dai parlamentari sia della maggioranza sia dell’opposizione.

Detto in parole semplici, il referendum confermativo non è un’iniziativa dei cittadini – o di un gruppo di parlamentari – per cambiare la Costituzione, ma uno strumento di controllo che permette agli elettori di avere l’ultima parola su una riforma già approvata dal Parlamento. È questa posizione “a valle” del processo che spiega perché, a differenza del referendum abrogativo, non sia previsto alcun quorum.

La discussione nell’Assemblea costituente

Questa distinzione affonda le sue radici nei lavori dell’Assemblea costituente, l’organismo che tra giugno 1946 e dicembre 1947 ha scritto il testo della Costituzione italiana.

Fin dall’inizio ci fu accordo sull’idea di una Costituzione “rigida”, non modificabile con legge ordinaria, ma solo tramite una procedura più lunga e articolata. Ma restava da stabilire quale ruolo dovessero avere le istituzioni politiche e i cittadini nel processo di revisione.

L’esponente del Partito Socialista Italiano (PSI) Paolo Rossi, relatore sulla revisione costituzionale, propose che ogni riforma costituzionale comportasse automaticamente lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni. Solo il Parlamento appena eletto avrebbe potuto approvare la revisione della Costituzione. L’idea fu sostenuta da alcuni componenti dell’Assemblea costituente, tra cui il futuro presidente della Repubblica Luigi Einaudi, ma trovò anche opposizioni. Altri ritenevano infatti che fosse preferibile una procedura parlamentare più stabile, con una maggioranza qualificata (due terzi o tre quinti dei parlamentari) necessaria per approvare la riforma e un referendum confermativo obbligatorio.

Dopo giorni di discussioni, l’Assemblea approvò il 16 gennaio 1947 la proposta di Tomaso Perassi, esponente del Partito Repubblicano Italiano (PRI). Questa soluzione abbandonava definitivamente lo scioglimento automatico del Parlamento e introduceva il meccanismo attuale: doppia approvazione conforme di Camera e Senato e referendum solo se la maggioranza raggiunta è inferiore ai due terzi.

La logica era quella di garantire un equilibrio: se la riforma ottiene una maggioranza amplissima, si considera già abbastanza condivisa; se invece non supera la soglia dei due terzi, è giusto che gli elettori possano esprimersi.

«Ci siamo sforzati, nel costruire la nostra Costituzione, di raggiungere il meglio, ma sapevamo tutti di non poter conseguire un optimum assoluto, immutabile nel tempo», disse a novembre 1947 Rossi, al termine della discussione in Assemblea. «Il tempo corre veloce e crea bisogni sempre nuovi e sempre diversi. Se in un futuro non molto lontano il congegno della revisione costituzionale dovrà essere messo in moto, nessuno scandalo, anche se dovrà essere messo in moto con qualche frequenza».

Ottanta anni dopo

Secondo Celotto, dalle parole di Rossi emerge che all’epoca «l’idea di modificare la Costituzione e di indire un referendum confermativo su di essa era un’eventualità piuttosto remota». «Infatti è doppiamente eventuale: si vota se la legge non è stata approvata dai due terzi e se ne fa richiesta un quinto dei membri di una camera, cinque consigli regionali o 500 mila elettori», ha aggiunto Celotto. «Come si erano messi d’accordo Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti e Pietro Nenni per scrivere la Costituzione, così si pensava che i partiti avrebbero trovato il modo di mettersi d’accordo per modificarla».

Inoltre, nell’esperienza di chi ha scritto la Costituzione la partecipazione al voto era molto alta: il precedente più vicino era il referendum del 1946, con un’affluenza di quasi il 90 per cento, che stabilì il passaggio dalla monarchia alla repubblica. «In un certo senso secondo loro il quorum era superfluo perché erano convinti che se fossero stati chiamati a votare su una cosa importante come la Costituzione gli italiani si sarebbero presentati in massa alle urne», ha aggiunto Celotto.

Oggi però la situazione è molto diversa: le riforme costituzionali non sono più un’eventualità rara e sono diventate un tema centrale nel dibattito politico e nei programmi degli ultimi governi, tra cui quello del governo Meloni. Negli ultimi 25 anni ci sono stati quattro referendum costituzionali, l’ultimo nel 2020 sul taglio del numero dei parlamentari, e presto ci sarà quello sulla separazione della carriere dei magistrati. Non solo: il Parlamento sta esaminando anche la riforma costituzionale del “premierato”, che introduce in Costituzione l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Se fosse approvata, con tutta probabilità questa riforma sarà sottoposta a referendum.

Anche il contesto della partecipazione politica è profondamente cambiato: le recenti elezioni regionali in Veneto, Campania e Puglia hanno registrato un’affluenza inferiore al 50 per cento e si inseriscono in un dinamica di crescente disinteresse elettorale. Lo stesso vale per i referendum costituzionali e abrogativi. L’affluenza al referendum del 2020 si è fermata al 54 per cento, mentre ai referendum abrogativi su cittadinanza e lavoro al 30 per cento circa.

Tiriamo le somme

Ricapitolando: nel nostro ordinamento il punto di partenza è sempre la decisione del Parlamento, che esprime la volontà dei cittadini attraverso i loro rappresentanti. Quando qualcuno vuole eliminare una legge già approvata, la Costituzione pretende che a sostenerlo sia un numero consistente di elettori, così da evitare che pochi riescano a rovesciare una scelta compiuta dall’assemblea eletta. Da qui l’obbligo del quorum nei referendum abrogativi.

Il referendum costituzionale funziona in un altro modo. La riforma è già stata esaminata e votata due volte da Camera e Senato secondo un percorso più severo del normale. Il voto popolare arriva solo alla fine, come verifica esterna, e non per sostituirsi al Parlamento nell’approvare o cancellare una norma. Proprio perché il suo scopo non è annullare una legge esistente, ma confermare o meno una revisione già definita, non è richiesta alcuna soglia minima di partecipazione.

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