Le differenze da tenere a mente
Nello stimare la possibile platea dei lavoratori interessati dal salario minimo, il rapporto di quest’anno si concentra solo sui lavoratori che hanno un salario inferiore al minimo lavorando senza interruzioni per tutto l’anno. L’Inps ha preso in considerazione solo le retribuzioni orarie di ottobre 2022 e non ha considerato, per esempio, chi in quel mese si trovava in cassa integrazione parziale, chi era assente dal lavoro per malattia o maternità, i lavoratori intermittenti, in part-time e quelli in apprendistato. Dei circa 164 mila lavoratori full-time con una retribuzione inferiore alla soglia infatti, l’Inps conta solo i 51 mila «senza assenze temporanee» (31 per cento del totale).
L’Inps ha così deciso di concentrarsi sui lavoratori considerati “poveri” solo per la loro bassa retribuzione, e non per la loro bassa intensità di lavoro (ossia per il numero di ore lavorate inferiore al full-time). È necessario però contestualizzare questa scelta di metodo per capire perché i lavoratori interessati dal salario minimo potrebbero essere molti di più dei 20 mila stimati dall’Inps.
Innanzitutto, dei 51.400 lavoratori rilevati come working poor a ottobre 2022, solo 20 mila sono stati considerati potenziali beneficiari del salario minimo perché gli altri 31 mila hanno raggiunto una retribuzione superiore al 60 per cento della mediana nel corso di tutto l’anno. Si tratterebbe quindi di working poor temporanei. È scorretto però pensare che, dato che il salario medio annuale è stato sopra la soglia, allora il minimo non avrebbe interessato questi lavoratori. Stiamo infatti parlando di persone che hanno avuto un impiego senza lunghe assenze per malattia o altri motivi, eppure sono state pagate per ogni ora di lavoro meno di quanto, secondo gli standard imposti dall’Inps nell’analisi, sarebbe considerata una retribuzione dignitosa. Almeno nel mese di ottobre dello scorso anno, quindi, il salario minimo avrebbe interessato più di 50 mila persone anziché 20 mila.
L’Inps ha poi deciso di escludere i lavoratori intermittenti perché tendenzialmente non hanno orari regolari e spesso lavorano meno ore rispetto a un dipendente full-time. Questa assunzione sembra essere troppo generosa: esistono persone che guadagnano 25 euro l’ora, lavorando però solo un’ora al giorno, ma è anche vero che molti di coloro che svolgono un impiego intermittente sono pagati meno del 60 per cento della retribuzione mediana. Dati precisi non ce ne sono, ma supponiamo che questa seconda categoria rappresenti un terzo degli intermittenti: in questo caso le persone interessate dal salario minimo sarebbero altre 37 mila.
Va considerata anche la categoria degli apprendisti. Secondo l’Inps le loro retribuzioni sarebbero al di sotto della soglia del salario minimo a causa delle grosse agevolazioni su imposte e contributi che ricevono. La retribuzione lorda degli apprendisti, infatti, tende a essere più bassa perché i contributi a carico di azienda e lavoratori sono spesso ridotti di molto o azzerati per incentivare le assunzioni dei giovani lavoratori. Il netto, però, rimane in linea rispetto a livelli che normalmente corrisponderebbero a un lordo superiore a 9 euro l’ora. Anche questo è possibile, ma la soglia del salario minimo indicata dall’Inps è piuttosto bassa ed è improbabile che siano in molti a stare al di sotto solo per questa ragione. Supponiamo che siano circa metà: l’altra metà sarebbe quindi considerata come beneficiaria del salario minimo. Sono altre 48 mila persone.
Inoltre, nelle stime dell’Inps, ci sono i lavoratori part-time che sono classificati tra i working poor. Sono più di 500 mila, a cui vanno sottratti i 18 mila apprendisti in part-time, che abbiamo già considerato. In totale rimangono 498.700 working poor in part-time. L’Inps ha deciso di escludere questa tipologia contrattuale perché questi lavoratori non sarebbero in questa condizione se lavorassero a tempo pieno. È vero, la loro condizione dipende anche dal fatto che non lavorano tutto il giorno, ma sarebbe sbagliato dare per scontato che tutti questi occupati riceverebbero una retribuzione superiore al minimo se passassero a un full-time. Anzi, è la stessa Inps a identificarli come working poor utilizzando una soglia diversa (24,9 euro al giorno, contro i 48,3 per i full-time) proprio perché lavorano meno ore. Supponendo anche che il rapporto tra part-time temporaneamente assenti, ossia in malattia o in maternità o simili, e totale dei lavoratori in part-time sia uguale a quello dei full-time (31 per cento circa), gli occupati in questa categoria che avrebbero diritto al salario minimo sarebbero comunque 155 mila.