I giovani di oggi hanno stipendi più bassi rispetto ai loro genitori

In quarant’anni è aumentato il divario tra i salari dei lavoratori con meno di 35 anni di età e di quelli con più di 55 anni, ma non solo. Le ragioni sono varie
Ansa
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Nel dibattito sulla condizione dei giovani in Italia si riconosce sempre di più che i ragazzi e le ragazze di oggi non hanno le stesse opportunità avute dai loro genitori sul mercato del lavoro. 

Emerge però spesso una narrazione distorta sulle retribuzioni: i salari bassi dei giovani vengono giustificati con la mancanza di esperienza e con la necessità di fare gavetta, come del resto avveniva per i loro genitori e i loro nonni. È normale che le retribuzioni dei lavoratori più anziani siano più alte rispetto a quelle dei giovani: l’esperienza fa la sua parte, così come il sistema tramite cui si stabiliscono le paghe, che, soprattutto in Italia, tende a premiare chi rimane nella stessa azienda a lungo (i famosi “scatti di anzianità”). 

Ma questo non significa che i giovani di oggi debbano affrontare le stesse difficoltà salariali dei loro genitori.

L’aumento del divario

L’impressione è infatti che le condizioni retributive dei giovani con meno di 35 anni di età siano peggiori oggi rispetto a quanto non fossero un tempo. In effetti, perlomeno in termini relativi, le ultime generazioni sono state più svantaggiate rispetto a quelle precedenti. I risultati preliminari di una ricerca condotta da due economisti italiani, Nicola Bianchi (Northwestern University) e Matteo Paradisi (Einaudi Institute for Economics and Finance), raccontano proprio dell’aumento del divario salariale tra giovani e anziani. Nel 1985 il salario annuo mediano di un lavoratore con più di 55 anni di età era più alto del 15 per cento rispetto a quello di un lavoratore con meno di 35 anni di età. Nel 2019 questo divario era superiore al 30 per cento. Ricordiamo che il salario mediano è quello che si trova a metà della distribuzione dei salari: il 50 per cento dei lavoratori guadagna di più, il 50 per cento di meno.

Insomma, lo “svantaggio” di essere giovani sul mercato del lavoro è raddoppiato nel corso degli ultimi tre decenni. La crescita del divario è anche più alta per i salari medi, che però possono essere meno indicativi dei salari mediani perché influenzati di più dal valore dei salari molto alti o dei salari molto bassi. 
Si potrebbe obiettare che non sono calati i salari dei giovani, ma sono aumentati più velocemente quelli dei lavoratori più anziani: tutti ne avrebbero guadagnato, ma i lavoratori con più di 55 anni avrebbero ottenuto una quota maggiore di guadagni. Fosse vero, questa condizione sarebbe comunque preoccupante. La produttività di un lavoratore anziano, infatti, tende a essere inferiore a quella di uno nel pieno della carriera. Per esempio nel settore manifatturiero il picco della produttività è stimato per un lavoratore tra i 30 e i 35 anni di età: se i lavoratori più anziani avessero visto crescere i propri salari di più nonostante una produttività mediamente pari o inferiore a quella dei più giovani, questo significherebbe che le risorse a disposizione (ossia i soldi con cui si pagano gli stipendi) non sarebbero state utilizzate nella maniera più efficiente. In ogni caso, i dati di Bianchi e Paradisi mostrano che non è andata così.

I giovani lavoratori italiani stanno peggio rispetto a 35 anni fa non solo perché guadagnano meno in rapporto ai più anziani, ma perché sono più poveri. La quota di giovani nelle fasce più ricche della popolazione è diminuita, mentre quella tra i più poveri è aumentata. In particolare la percentuale di giovani che si trova nel 5 per cento della popolazione che guadagna meno è aumentata di quasi il 4 per cento tra il 1985 e 2019, mentre i lavoratori con meno di 35 anni che guadagnano abbastanza da rientrare nel 5 per cento più abbiente sono diminuiti dello 0,5 per cento. La percentuale di giovani lavoratori che vive in povertà è aumentata, mentre per i lavoratori con più di 55 anni è diminuita: nel 2019 la quota di anziani nel 5 per cento che guadagna meno è calata di oltre il 2 per cento.
Questi dati sembrano confermati anche da altre statistiche, come quelle sulla povertà relativa. Si trova in povertà relativa chi ha un reddito inferiore rispetto al 60 per cento di quello mediano. Secondo Istat, nel 1997 – primo anno per cui sono disponibili i dati – i residenti con meno di 35 anni che vivevano in povertà relativa erano il 10,5 per cento, mentre nel 2021 sono il 17,4 per cento. Le persone con più di 65 anni in questa condizione, invece, sono calate: erano oltre il 16 per cento nel 1997 e sono diminuite fino a quasi il 10 per cento nel 2021.

Quali sono le cause

Insomma, è normale avere maggiori difficoltà da giovani, quando si entra nel mercato del lavoro per le prime esperienze, ma i dati mostrano che le condizioni salariali per i giovani di oggi sono peggiori rispetto a quelle di quasi quarant’anni fa. 

La spiegazione di questo fenomeno è la stessa che sta dietro a molti altri problemi del nostro Paese: la mancanza di mobilità economica e sociale negli ultimi decenni. Come sottolineano gli autori del già citato studio, la percentuale di manager con meno di 35 e con più di 55 anni era pressappoco la stessa nel 2001 (intorno al 9 per cento), mentre oggi quasi un terzo ha più di 55 anni e solo il 5 per cento meno di 35. Questo è il risultato di un generale invecchiamento della popolazione, ma anche il segnale di una pesante mancanza di ricambio generazionale. 

Le possibilità di carriera per i giovani languono anche a causa della ridotta dimensione delle imprese italiane: il 95 per cento ha infatti meno di dieci dipendenti. Se le posizioni sono poche, diventa difficile trovare spazio per fare carriera.

Il sistema di determinazione dei salari non aiuta: il fatto che la retribuzione sia basata soprattutto sull’anzianità spinge le persone a cercare un posto fisso e a rimanere a lungo nella stessa posizione e questo ha un impatto negativo sulla mobilità. Secondo un recente studio di Tortuga, un centro studi che si occupa di analisi economica, il lavoratore privato mediano in Italia rimane nella stessa azienda per 10,5 anni, un dato più alto di quello di Spagna, Germania, Francia e Regno Unito. Questo porta le posizioni lavorative a cristallizzarsi e riduce la concorrenza tra le imprese per assumere i lavoratori migliori.

Più che di una regressione, si potrebbe parlare di una mancata crescita, sia economica sia nella capacità innovativa. Il problema è che, nel frattempo, chi aveva già un lavoro fisso ha visto crescere la propria retribuzione, mentre chi doveva entrare nel mercato del lavoro ha avuto più difficoltà. E così i giovani si sono trovati più poveri dei propri genitori.

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