I pro e i contro della tassa sugli “extraprofitti” delle banche

Il governo dice che userà i soldi recuperati per aiutare le famiglie con i mutui. Abbiamo fatto un po’ di chiarezza su vantaggi e svantaggi di questa misura
Pagella Politica
Nella serata di lunedì 7 agosto il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini ha annunciato in una conferenza stampa che il governo ha approvato l’introduzione di un «prelievo sugli “extraprofitti” delle banche», definendola una «misura di equità sociale», limitata solo al 2023. «Tutti gli introiti andranno a due voci: aiuto per i mutui delle prime case, sottoscritti in tempi diversi rispetto agli attuali, e taglio delle tasse», ha aggiunto Salvini, stimando che lo Stato incasserà «alcuni miliardi». 

Il Partito Democratico ha accolto con favore questa misura, criticata invece da Italia Viva e da Azione, mentre il Movimento 5 Stelle ha invitato il governo a estendere la nuova tassa anche al settore delle assicurazioni, delle aziende farmaceutiche e di quelle che vendono armi.

I favorevoli sostengono che la nuova tassa colpisce i guadagni eccessivi fatti negli ultimi mesi dalle banche e che il gettito potrà essere usato a favore dei cittadini. I contrari sottolineano una serie di rischi, che potranno avere alcune gravi conseguenze. Punto per punto, cerchiamo di mettere un po’ di ordine tra i fatti.

Che cosa sono le tasse sugli extraprofitti

Una windfall tax, come è chiamata in gergo economico, è un’imposta straordinaria che viene provvisoriamente applicata a un gruppo di aziende o a un settore economico che sta beneficiando di guadagni estremamente alti da una situazione, appunto, straordinaria. Un esempio può essere una tassa applicata alle aziende i cui profitti sono aumentati grazie a una guerra oppure, come di recente accaduto in Italia e in altri Paesi europei, applicata sugli extraprofitti delle aziende energetiche. 

Per quanto riguarda il settore finanziario, nel primo trimestre 2023 le cinque principali banche italiane hanno visto i propri profitti, ossia i ricavi rimanenti al netto di tutti i costi sostenuti, aumentare in media del 75 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quanto di questo aumento sia un profitto “extra” e quanto sia un semplice miglioramento delle performance delle banche è difficile stabilirlo con precisione. Il governo ha comunque deciso di usare come base imponibile del nuovo prelievo l’aumento che le banche hanno registrato nel loro margine di interesse rispetto al 2021.

Questo margine è la differenza tra i tassi di interessi passivi, quelli che i clienti mutuatari pagano sui prestiti, e quelli attivi, cioè quelli che vengono pagati dalla banca a chi decide di investire negli strumenti finanziari che mette a disposizione, come i conti di deposito o i conti corrente. Secondo i favorevoli alla nuova tassa, è giusto recuperare risorse dall’aumento di questo margine, ampliatosi dopo i vari aumenti dei tassi di interesse stabiliti dalla Banca centrale europea (Bce) per contenere l’inflazione. Secondo i contrari, invece, il fatto che questo margine sia aumentato non significa necessariamente che le banche hanno tratto un vantaggio ingiustificato dalla situazione attuale.

Che cosa è successo in questi anni

Per anni i tassi sui conti corrente sono stati di solito nulli, mentre gli interessi sui mutui sono rimasti bassi, proprio perché i tassi di interesse imposti dalla Bce si sono aggirati intorno allo zero per cento nell’ultimo decennio. In questo periodo la redditività delle banche, ossia la percentuale di ricavo netto rispetto ai costi sostenuti, era molto bassa perché non era possibile avere tassi attivi negativi sui conti, cosicché la differenza tra tassi passivi e attivi rimaneva piuttosto bassa. Ora che sono tornati ad aumentare, gli interessi passivi applicati dalle banche sono aumentati più di quelli attivi, facendo crescere i margini. 

In conferenza stampa Salvini ha dichiarato che l’aumento dei tassi di interesse stabilito dalla Bce «ha portato un innalzamento del costo del denaro per le famiglie e per le imprese», senza che ci sia «stato un altrettanto veloce aumento per i consumatori che hanno dei depositi sui conti correnti». 

È vero: i tassi attivi sono cresciuti più lentamente rispetto a quelli passivi, soprattutto per il maggior potere contrattuale che hanno le banche nei confronti dei clienti. Questo maggiore potere contrattuale, però, non deve per forza essere letto come un abuso: è lo stesso motivo per cui, di solito, sono soprattutto le imprese a imporre i prezzi di beni e servizi e non i consumatori.

Nel caso degli extraprofitti delle aziende energetiche il guadagno non giustificato era chiaro: l’aumento del prezzo del gas aveva fatto schizzare i prezzi di tutta l’energia elettrica, anche quando veniva prodotta a costo quasi nullo, per esempio con le rinnovabili. Nel caso delle banche l’aumento dei profitti è la conseguenza di un aumento dei tassi da parte della Bce. Per quanto intenso e repentino rispetto a un periodo prolungato di tassi molto bassi, si può obiettare che la scelta della Bce non sia straordinaria, ma rientra nelle normali operazioni di politica monetaria. Come abbiamo spiegato in un altro approfondimento, infatti, l’aumento dei tassi di interesse da parte della Bce è una risposta convenzionale per contrastare l’inflazione.

Peraltro, non è così scontato che l’aumento dei tassi di interesse voluto dalla Bce sia così conveniente per le banche. Secondo una ricerca pubblicata nel 2017 proprio dalla Bce, l’aumento dei tassi può portare un vantaggio alle banche nel breve periodo, ma il rallentamento dell’economia causato dalla crescita dei tassi tende a ridurre il giro d’affari delle banche nel medio termine, con conseguenze negative sulla redditività. L’aumento dei profitti oggi, insomma, dovrebbe “coprire” la banca dalla riduzione del proprio business domani, ma una tassazione degli extraprofitti rischia di peggiorare ancora di più la situazione.

Le maggiori entrate per lo Stato

Il principale vantaggio della nuova tassa pensata dal governo è l’aumento del gettito per lo Stato. La misura è stata presentata come un metodo per finanziare le famiglie in difficoltà con il pagamento del mutuo, ma si è parlato anche di utilizzare le risorse per un taglio delle tasse e del cuneo fiscale. Secondo fonti stampa, il governo ha stimato entrate per circa 3 miliardi di euro, ma su questa cifra c’è ancora parecchia incertezza. Ricordiamo poi che si tratterebbe di entrate una tantum, vista la provvisorietà del prelievo.

L’8 agosto il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha annunciato in una nota che l’importo della tassa sugli extraprofitti non potrà comunque superare lo 0,1 per cento del totale dell’attivo di ciascun istituto, cioè l’insieme di tutti gli asset finanziari detenuti dalla banca. A grandi linee questa precisazione confermerebbe le stime che parlano di un gettito intorno ai 3 miliardi. Ma bisognerà aspettare documenti ufficiali sul decreto-legge del governo, che potrà inoltre essere modificato dal Parlamento, con effetti sul gettito stimato.

La nota del ministero ha anche sottolineato che le banche che hanno già adeguato i tassi seguendo le raccomandazioni della Banca d’Italia, ossia aumentando la remunerazione dei tassi di interessi attivi, non dovrebbero subire particolari conseguenze dalla tassa sugli extraprofitti. Da questo chiarimento, quindi, sembrerebbe che la misura andrà a colpire solo le banche che stanno “abusando” della propria posizione, disincentivando i comportamenti scorretti. Ma la raccomandazione della Banca d’Italia risale a febbraio 2023, mentre la base imponibile su cui sarà applicata la tassa – in base alle informazioni oggi disponibili – farà riferimento sia a quest’anno che al 2022. Anche per chi si è adeguato alle direttive della Banca d’Italia già da febbraio, quindi, resterà da pagare la nuova tassa.

Gli effetti sulle banche

Un’imposta come quella sugli extraprofitti ha un effetto negativo sulla redditività delle banche: se una parte consistente dell’aumento dei profitti da un anno all’altro viene tassata, il ricavo netto della banca si riduce. Questo non rischia di avere conseguenze solo sui profitti che finiranno nelle tasche di chi possiede azioni della banca, ma anche sulla stabilità della banca stessa. La redditività ridotta, infatti, rischia di far “fuggire” gli investitori dalle banche, come sembra aver dimostrato la vendita di molte azioni bancarie avvenuta dopo l’annuncio del governo e il conseguente crollo del loro valore. Martedì 8 agosto Intesa San Paolo, la prima banca italiana, ha perso l’8,5 per cento in borsa in un solo giorno, Unicredit il 6 per cento e Fineco quasi il 10 per cento. Nella mattinata di mercoledì 9 agosto i titoli bancari sono comunque tornati a crescere. 

C’è poi il rischio che a pagare il prezzo della nuova tassa non saranno le banche. Visto il livello di concorrenza non particolarmente elevato tra le banche italiane, è possibile che gli istituti di credito scaricheranno sui clienti il costo della tassa sugli extraprofitti, attraverso un aumento dei prezzi. Questo potrebbe voler dire tassi applicati ai nuovi mutui più alti, ma anche maggiori commissioni sui conti correnti e sugli altri servizi offerti. 

Per esempio un effetto simile si ebbe con la cosiddetta Robin Hood tax introdotta dal quarto governo Berlusconi nel 2008. La tassa prevedeva un prelievo straordinario sulle aziende energetiche, che all’epoca stavano registrando profitti sopra la norma. Nel 2015 la legge che aveva introdotto la Robin Hood tax fu dichiarata incostituzionale: tra le altre cose la Corte costituzionale aveva sottolineato che il costo della tassa era in parte ricaduto sui consumatori. All’epoca il giudizio di incostituzionalità era stato motivato dal fatto che la tassa non sarebbe stata straordinaria, ma permanente.

Il sostegno al moral hazard

Infine la scelta del governo di destinare il gettito di questa tassa alle famiglie in difficoltà con i mutui rischia di introdurre un’ulteriore distorsione del mercato. Le persone che oggi si trovano più in difficoltà, infatti, hanno deciso di stipulare un mutuo a tasso variabile, che cambia in base all’andamento dei tassi di interesse imposti dalla Bce. Prima del forte aumento dell’inflazione un’alternativa più sicura c’era: il mutuo a tasso fisso. Questa seconda tipologia di prestito è di solito più costosa rispetto alla prima, perché, indipendentemente dall’andamento dei mercati, il tasso di interesse non può cambiare. 

Nonostante i tassi sui mutui oggi possano superare il 6 per cento, una famiglia che nel 2015, supponiamo, ha contratto un mutuo a tasso fisso al 4 per cento, oggi continuerà a pagare quella cifra. Va però ricordato che, quando la stessa famiglia pagava il 4 per cento nel 2015, i mutuatari a tasso variabile potevano beneficiare di un tasso molto più basso, supponiamo del 2 per cento. 

Facciamo un esempio per capire meglio. La differenza tra il tasso fisso e il tasso variabile è la stessa che c’è tra sottoscrivere oppure no un’assicurazione per sciare: la seconda opzione è più conveniente della prima, finché non ci si fa male. Immaginate adesso che lo Stato decida di pagare le cure mediche, al di fuori di quelle coperte dalla sanità pubblica, e i danni prodotti anche da chi non ha contratto un’assicurazione: il rischio è che nessuno ne acquisti più una, perché in ogni caso arriverebbe l’aiuto dello Stato. 

Questo concetto in economia viene detto moral hazard (azzardo morale) e, in questo caso, la tassa sugli extraprofitti rischia di rendere ancora più rischiosi gli investimenti delle famiglie in futuro.

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