La Bce sbaglia ad alzare i tassi di interesse contro l’inflazione?

La scelta di Lagarde è stata criticata da Meloni, Salvini e Tajani: trovare una risposta univoca alla domanda non è semplice, ma possiamo capire quali sono le ragioni dietro alle decisioni della Bce e se i possibili benefici sono superiori ai costi
ANSA
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Nelle scorse ore vari esponenti di primo piano del governo italiano hanno criticato la presidente della Banca centrale europea (Bce) Christine Lagarde, che il 27 giugno ha annunciato un nuovo aumento dei tassi di interesse a luglio per contrastare l’inflazione (a maggio i prezzi sono aumentati in media del 6,1 per cento nei Paesi dell’area euro rispetto allo stesso mese dell’anno scorso). «La semplicistica ricetta dell’aumento dei tassi intrapresa dalla Bce non appare agli occhi di molti la strada più corretta da perseguire», ha dichiarato il 28 giugno la presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante le comunicazioni alla Camera in vista del Consiglio europeo del 29-30 giugno. «Non si può non considerare il rischio che l’aumento costante dei tassi finisca per colpire più le nostre economie che l’inflazione, e cioè che la cura si riveli più dannosa della malattia». Il giorno prima il ministro degli Esteri Antonio Tajani si era detto «un po’ deluso» dell’annuncio di Lagarde, aggiungendo che «aumentare il costo del denaro significa mettere le imprese in difficoltà» e che «si rischia la recessione». Anche il leader della Lega Matteo Salvini è intervenuto sul tema, dicendo che le scelte della Bce vanno «contro il buonsenso». 

Le critiche del governo Meloni a Lagarde sono fondate oppure no? La Bce sta sbagliando a continuare ad alzare i tassi di interesse per contrastare l’inflazione? Una risposta univoca non c’è: vediamo però quali sono le ragioni dietro alle decisioni della Bce e se i possibili benefici sono superiori ai costi.

Che cosa succede quando l’inflazione è troppo alta

La Bce sta rispondendo alla crisi inflattiva, ossia al continuo aumento dell’inflazione, in una maniera che potremmo definire “da manuale”. Quando l’inflazione è alta, di solito lo è perché l’economia sta correndo troppo velocemente: le imprese producono e vendono sempre di più, assumendo nuovo personale o aumentando lo stipendio di chi già lavora per loro. Questo aumento dei salari spinge le persone ad acquistare più beni e servizi, contribuendo ad aumentarne la domanda. L’aumento della domanda spinge verso l’alto i prezzi, aumentando produzione, vendita e ricavi delle imprese, e così il ciclo ricomincia. 

Questo è il tipico processo di crescita dell’economia. Se però avviene troppo velocemente, l’economia si “surriscalda”: i prezzi crescono troppo in fretta e portano a distorsioni economiche. Per esempio i salari non stanno al passo con l’aumento dei prezzi, portando a una perdita di potere d’acquisto dei lavoratori. L’aumento incontrollato dei prezzi rende poi difficile pianificare le proprie spese: quanto dovrei risparmiare, per esempio, per acquistare un’auto o una casa se il suo prezzo continua a variare in maniera non lineare?

Per questo motivo è importante controllare l’andamento dei prezzi e per farlo lo strumento principale sono i tassi di interesse.

Perché aumentiamo i tassi

Il tasso di interesse indica il “premio” che va pagato su un prestito. Chi decide di prestare del denaro, per esempio una banca, lo fa per profitto, motivo per cui applica un interesse. Detto altrimenti, il tasso di interesse indica il costo del denaro. Questo costo viene definito innanzitutto dalle banche centrali, ossia la Bce nel caso dell’area euro, che prestano denaro alle banche dei vari Paesi, che poi lo iniettano nell’economia nazionale attraverso prestiti ulteriori, per esempio erogati alle aziende o ai cittadini.

Senza scendere troppo nei dettagli su come avviene questo procedimento, basta sapere che è la banca centrale a decidere il livello del tasso di interesse. Il vantaggio di alzare i tassi di interesse, e quindi il costo del denaro, è quello di rallentare l’economia proprio quando si sta surriscaldando. Buona parte dell’economia di mercato si regge sui prestiti: tra questi non ci sono solo i mutui per l’acquisto delle case, ma anche i leasing per l’utilizzo di macchinari, gli investimenti immobiliari per aumentare la grandezza di fabbriche e uffici e, soprattutto, le obbligazioni per finanziare progetti e investimenti delle grandi imprese. Quando il ciclo economico si muove troppo velocemente, con il rischio di effetti distorsivi dovuti all’inflazione, l’aumento del tasso di interesse rallenta la macchina, potremmo dire, e quindi anche la crescita economica.

Visto che negli ultimi mesi l’inflazione nell’area euro ha raggiunto i livelli più alti degli ultimi decenni, la Bce ha alzato i tassi di interesse otto volte dal 2022 in poi: ora sono al 4 per cento e probabilmente a luglio aumenteranno di 0,25 punti percentuali. Considerando la situazione e le premesse viste sopra, questa strategia della Bce sembra andare nella direzione giusta. Eppure questa crisi inflattiva non è una crisi come le altre: Meloni, Salvini e Tajani hanno sottolineato che l’aumento dei prezzi è dovuto soprattutto a fattori esterni, come l’aumento del costo dell’energia, non da una crescita eccessiva della domanda e della produzione. È effettivamente così?

Che cosa sta causando l’inflazione

Il ruolo dell’energia nell’aumento dei prezzi è stato centrale, come mostra il Grafico 1. 
La guerra in Ucraina ha spinto il costo del gas verso l’alto e ha causato uno shock esterno significativo sulle economie europee. E infatti l’inflazione è cresciuta soprattutto dopo febbraio 2022, mese in cui è iniziato il conflitto, anche se altri fattori avevano iniziato a far crescere i prezzi nei mesi antecedenti all’invasione. Tra questi fattori c’erano la carenza di offerta dopo le restrizioni introdotte con la pandemia di Covid-19 e le manovre della Russia sul gas.

Le politiche messe in campo dai vari governi europei hanno mitigato questo shock e oggi la dipendenza dell’Ue dal gas russo si è abbassata di molto. Questo ha avuto un effetto sul prezzo dell’energia elettrica, che è tornato sui livelli del 2021. Eppure l’inflazione continua a essere elevata: non solo il livello dei prezzi è più alto rispetto a uno o due anni fa, ma sta continuando a crescere nonostante la riduzione del costo dell’energia.

Secondo i dati provvisori di Istat, a giugno in Italia l’inflazione è cresciuta del 6,4 per cento rispetto a un anno prima. Questo avviene perché l’inflazione non dipende solo da fattori esterni, come sostengono i membri del governo Meloni, ma anche da motivazioni interne all’economia. La forte ripresa economica dopo la pandemia di Covid-19, l’aumento dell’occupazione e la volontà delle imprese di mantenere invariati i propri margini stanno contribuendo ad aumentare l’inflazione. Prendiamo il caso dell’Italia: come mostra il Grafico 2, il livello generale dei prezzi sta scendendo, soprattutto perché sta calando il prezzo dell’energia e dei beni alimentari. Se si guarda all’inflazione di fondo, ossia l’inflazione che non tiene conto dell’aumento dei prezzi energetici e degli alimenti, la situazione resta invece stabile e ben al di sopra del 2 per cento (il livello di inflazione considerato sano per l’economia). Quindi, per quanto sia vero che la crisi inflattiva sia nata soprattutto dalla crisi energetica, oggi l’inflazione dipende da fattori diversi.
Quello di oggi sembra un caso simile ai grandi shock petroliferi degli anni Settanta. Nel 1973 e nel 1979 due eventi geopolitici portarono a una riduzione dell’offerta mondiale di petrolio, all’epoca la materia prima su cui si basava di fatto ogni attività produttiva nel mondo. La carenza di petrolio portò a un aumento del suo prezzo e, dato che era la materia prima per eccellenza, questo causò un’inflazione generalizzata. Anche all’epoca c’era l’idea che, dato che il problema arrivava da fattori esterni, non avesse senso aumentare i tassi per frenare l’inflazione. Anche in quel caso, però, lo shock petrolifero aveva pervaso ogni aspetto dell’economia, con conseguenze sui prezzi che andavano ben oltre il semplice costo della materia prima. Ci si ritrovò così in uno scenario di stagflazione, cioè di alta inflazione, alta disoccupazione e bassa crescita economica. Un situazione anche peggiore rispetto a quella attuale, dato che non esisteva un “margine di crescita” da sacrificare alzando i tassi di interesse. Eppure, si prese comunque la decisione di agire con la politica monetaria, nonostante le conseguenze. Il problema si risolse all’inizio degli anni Ottanta, con l’aumento dei tassi voluto dal governatore della Federal reserve, la banca centrale statunitense, Paul Volcker.

La soluzione non fu semplice: l’aumento dei tassi mandò l’economia statunitense in recessione e causò la perdita di molti posti di lavoro e il fallimento di molte imprese. Nel giro di relativamente poco tempo, però, l’economia statunitense si riprese e tornò a crescere a un ritmo più elevato, dopo circa un decennio di stagnazione dovuto agli shock petroliferi.

Ricapitolando: i rappresentanti del governo Meloni hanno in parte ragione. L’aumento dei tassi rischia di rallentare l’economia a tal punto da far finire l’economia italiana in recessione, ma senza l’aumento dei tassi tutti i nostri punti di riferimento, a partire dal denaro come unità di conto e di scambio, potrebbero subire distorsioni tali da causare molti più danni di una recessione nel medio e lungo termine.

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