Il fact-checking del dibattito sulla crisi di governo

Abbiamo verificato sei dichiarazioni tra le più ripetute dai politici negli ultimi giorni: ecco che cosa c’è di vero e che cosa no
ANSA
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Da quando Mario Draghi ha presentato le dimissioni da presidente del Consiglio, poi non accolte dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il dibattito politico si è subito popolato di dichiarazioni dei politici sulla crisi di governo. 

A prima vista, distinguere che cosa c’è di vero e che cosa no nelle affermazioni dei vari esponenti di partito può sembrare un compito non semplice. Abbiamo così verificato sei delle dichiarazioni più ripetute nelle ultime ore per aiutare i lettori e gli elettori, che in caso di elezioni anticipate potrebbero essere chiamati al voto con l’arrivo dell’autunno.

Il governo ha ancora la maggioranza in Parlamento?

Numeri alla mano, la risposta è sì. Il 7 luglio alla Camera, dove i deputati sono 630, la questione di fiducia sul decreto “Aiuti” ha ricevuto 410 voti favorevoli, tra cui quelli del Movimento 5 stelle. Il 14 luglio al Senato, dove i senatori sono 321, la questione di fiducia sul decreto “Aiuti” è stata approvata con 172 voti a favore, senza però la partecipazione al voto del partito guidato da Giuseppe Conte, scelta che ha innescato la crisi di governo. 

Sia alla Camera che al Senato, i partiti che finora hanno sostenuto il governo Draghi hanno ancora la maggioranza dei voti, senza contare il Movimento 5 stelle. Le ragioni della crisi non sono dunque tanto numeriche, quanto politiche. «Le votazioni di oggi in Parlamento sono un fatto molto significativo dal punto di vista politico», ha scritto Draghi nel comunicato in cui annunciava le sue dimissioni, commentando la decisione del Movimento 5 stelle di non partecipare al voto sulla questione di fiducia in Senato. «La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo».

Anche Italia viva si era astenuta sulla riforma del Csm, senza che Draghi minacciasse le dimissioni?

La risposta è sì, ma c’è una differenza rispetto al voto sul decreto “Aiuti”. Per criticare le dimissioni di Draghi, diversi esponenti del Movimento 5 stelle hanno rinfacciato al presidente del Consiglio di non essersi dimesso quando il 16 giugno, in Senato, il gruppo di Italia viva si è astenuto nell’approvazione definitiva del disegno di legge delega per la riforma del Consiglio superiore della magistratura (Csm) e dell’ordinamento giudiziario.

In quel caso, però, il governo non aveva posto la questione di fiducia sul provvedimento, cosa invece avvenuta per il decreto “Aiuti”, sia alla Camera che al Senato.

Un governo dimissionario non potrebbe gestire la crisi economica e altre emergenze?

Qui la risposta si fa più incerta. Se Draghi confermasse le proprie dimissioni, il governo rimarrebbe comunque in carica, in attesa di un sostituto, per il cosiddetto “disbrigo degli affari correnti”. In generale, sui poteri di un governo dimissionario gli esperti sono divisi, ma per quanto riguarda le emergenze sono concordi nel dire che l’attuale governo potrà continuare comunque ad approvare decreti-legge, per esempio per gestire le urgenze dovute agli scenari economici di questi mesi. Non potrà invece esaminare nuovi disegni di legge, salvo quelli imposti da obblighi internazionali e comunitari.

In ogni caso, «un governo dimissionario sarebbe politicamente indebolito non solo sul piano nazionale, ma anche quello internazionale», abbiamo spiegato in un’analisi dedicata proprio ai poteri di un eventuale governo Draghi dimissionario. «Su quest’ultimo fronte, le conseguenze maggiori potrebbero esserci nelle trattative con gli altri Paesi europei, per esempio per introdurre un tetto al prezzo del gas, o con quei Paesi con cui l’Italia sta trattando per aumentare le proprie forniture di gas».

Le elezioni anticipate metterebbero a rischio la legge di Bilancio?

La risposta è molto probabilmente sì. In base all’articolo 61 della Costituzione, le elezioni devono essere fatte entro 70 giorni dallo scioglimento delle camere, una scelta a cui potrebbe ricorrere Mattarella in caso di dimissioni confermate da Draghi. Servono però almeno 60 giorni di tempo per la presentazione delle liste elettorali e degli elettori all’estero. In pratica, nuove elezioni andrebbero organizzate non prima di 60 giorni e non oltre 70 giorni. Le prime date utili per il voto, in caso di scioglimento anticipato delle camere nei prossimi giorni, sarebbero dunque domenica 25 settembre o domenica 2 ottobre, uno scenario mai visto nella storia repubblicana italiana (dal 1948 le 18 elezioni per rinnovare il Parlamento si sono sempre tenute tra febbraio e giugno).

Il voto a inizio autunno si accavallerebbe con le scadenze previste dal cosiddetto “ciclo di bilancio”, che stabilisce i limiti temporali da rispettare per approvare la legge di Bilancio. Questa è una delle leggi più importanti dello Stato perché spiega nel dettaglio come saranno spese le risorse pubbliche nel prossimo anno e per quali voci. Tra le altre cose, entro il 27 settembre il governo deve presentare al Parlamento la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef), che contiene l’aggiornamento delle previsioni sull’andamento dell’economia del Paese. Entro il 20 ottobre il governo deve poi presentare il disegno di legge della legge di Bilancio per il 2023, che deve essere approvato dal Parlamento entro il 31 dicembre. 

Se questa scadenza non fosse rispettata, si rischierebbe di entrare nel cosiddetto “esercizio provvisorio”. In questo caso la spesa pubblica è permessa “per dodicesimi”, ossia si prende la previsione di spesa fatta dal governo nella legge di Bilancio dell’anno precedente e la si divide per dodici mesi. Il risultato rappresenta il tetto di spesa mensile per un massimo di quattro mesi, con uno stallo che al massimo potrebbe durare fino ad aprile 2023. 

Con le dimissioni di Draghi si perderebbero i soldi del Pnrr?

La risposta è no: gli oltre 190 miliardi di euro del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che l’Unione europea finirà di dare all’Italia nel 2026, non sono vincolati alla permanenza alla guida del governo di Mario Draghi. C’è un “però”: è vero che se l’esecutivo cadesse, sarebbe a rischio il raggiungimento dei 55 obiettivi del Pnrr fissati per la seconda metà del 2022, a cui è vincolata l’erogazione della terza rata dei fondi, da 19 miliardi di euro. Secondo diversi esperti, un governo Draghi dimissionario non avrebbe i poteri per approvare i provvedimenti necessari al raggiungimento di questi obiettivi, per esempio i decreti attuativi per rendere effettive le riforme della giustizia penale e civile. 

Se le scadenze con l’Ue non fossero rispettate, il governo non potrebbe chiedere la rata dei fondi o la stessa Ue potrebbe bloccare del tutto o in parte l’erogazione della rata. Eventuali ritardi potrebbero comunque poi essere recuperati da un nuovo governo.

Alcuni Paesi europei sono andati alle elezioni nonostante la pandemia e la guerra?

La risposta è sì. Per esempio, di recente la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha fatto l’esempio dei Paesi Bassi (andati al voto a marzo 2021), della Germania (a settembre 2021), del Portogallo (a gennaio 2022) e della Francia (a giugno 2022). Tra questi quattro, le elezioni anticipate rispetto alla naturale scadenza del Parlamento si sono tenute nei Paesi Bassi e in Portogallo, mentre in Germania e in Francia le elezioni per il Parlamento sono state fatte alla scadenza naturale della legislatura.

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