Il fact-checking di Conte che «spazza via le bufale» sul Superbonus

Il presidente del Movimento 5 stelle ha difeso l’incentivo con i nuovi dati Istat su deficit e debito: ecco che cosa torna e che cosa no nei suoi numeri
ANSA
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Il 1° marzo il presidente del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte è tornato a difendere su Facebook il Superbonus, utilizzando i dati aggiornati sui conti nazionali pubblicati lo stesso giorno da Istat. Secondo l’ex presidente del Consiglio con i numeri vengono «spazzate via le bufale» sul Superbonus, che non avrebbe generato «nessun debito aggiuntivo» per le casse dello Stato. A sostegno della sua posizione Conte ha scritto che il livello del debito pubblico italiano in rapporto al Pil «scende ancora più velocemente, dal 145,7 per cento precedentemente previsto al 144,7 per cento». Il presidente del Movimento 5 stelle ha anche aggiunto che con le nuove regole contabili adottate da Istat non c’è stato un «maggior deficit» per gli anni 2021 e 2022, «ma solo una sua diversa distribuzione: impatto anticipato, rispetto a una distribuzione nel tempo». 

Numeri alla mano, vediamo se Conte ha ragione oppure no, e che cosa omette di dire.

I numeri sul deficit

Partiamo dal deficit, più correttamente chiamato “indebitamento netto”, ossia – semplificando un po’ – la differenza in negativo tra le entrate e le uscite dello Stato. Il 1° marzo Istat ha pubblicato le stime sul deficit per il 2022 e ha aggiornato quelle per il 2020 e il 2021. Nel 2022 il deficit dell’Italia è stato pari all’8 per cento del Pil, rispetto a un 5,6 per cento inizialmente previsto. Anche per il 2021 la stima è stata rivista al rialzo, al 9 per cento rispetto al 7,2 per cento iniziale, così come per il 2020, al 9,7 per cento anziché il 9,5 per cento.

La ragione di queste revisioni al rialzo riguarda una recente decisione di Eurostat, il principale istituto di statistica dell’Unione europea, su come considerare da un punto di vista contabile i crediti d’imposta concessi con il Superbonus. In breve lo Stato aveva offerto tre modi per rimborsare completamente i costi dei lavori edilizi sostenuti con il Superbonus. Farsi scalare dalle tasse i rimborsi, lungo l’arco di alcuni anni; cedere il credito d’imposta all’impresa edile, ricevendo uno “sconto in fattura”; cedere il credito a un istituto finanziario, come una banca, ricevendo la liquidità per fare i lavori. Il governo Meloni ha deciso di lasciare in vigore solo il primo strumento e di bloccare gli altri due. 

Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, in caso di crediti considerati “pagabili” il costo della misura (rinunciare a parte delle tasse che si raccoglieranno è un costo per lo Stato) va registrato nell’anno in cui i crediti sono concessi, ossia quelli precedenti al 2023, perché c’è ragionevole certezza che tutto il credito sarà incassato dai contribuenti. Quando i crediti sono “non pagabili”, invece, il costo va spalmato negli anni in cui il credito dovrebbe essere utilizzato, con il deficit che risulta più basso nei singoli anni, ma che risente del costo della misura per più tempo. Fino a qualche giorno fa, i crediti del Superbonus venivano contabilizzati con questo secondo metodo, mentre con le novità di Eurostat e Istat sono diventati “pagabili”, motivo per cui il deficit degli ultimi tre anni è aumentato dal punto di vista contabile.

È vero dunque che l’aggiornamento delle statistiche da parte di Istat non rileva un aumento del deficit, ma solo una sua diversa distribuzione nel corso degli anni. Come correttamente sottolineato da Conte, «il fatto che l’incremento abbia riguardato gli anni pregressi fa sì che adesso per gli anni futuri si sia liberato spazio fiscale» per il governo, che non dovrà tener conto del costo del Superbonus nel deficit dei prossimi anni. Questo vantaggio si è però ottenuto bloccando la cessione dei crediti d’imposta, che altrimenti avrebbero fatto aumentare molto il deficit di quest’anno, visto che sarebbero stati conteggiati subito nel deficit di quest’anno. Ora però c’è il rischio che si crei un meccanismo in cui il governo avrà la possibilità di spendere senza preoccuparsi troppo del debito pubblico derivante dal Superbonus, peggiorando ulteriormente lo stato dei conti pubblici.

«Nessun debito aggiuntivo»?

Venendo alla questione del debito, un problema nel ragionamento di Conte e del Movimento 5 stelle è il seguente: lasciare intendere che il mancato aumento del deficit in generale significa che il Superbonus non abbia fatto aumentare il deficit e, di conseguenza, il debito pubblico. Non è così: Istat ha distribuito diversamente un costo aggiuntivo per le casse dello Stato che aveva già preso in considerazione in passato. Gli oneri aggiuntivi per le casse pubbliche dovuti al Superbonus, pari a circa 71 miliardi di euro a fine gennaio 2023, rimangono e continuano a rappresentare una cifra elevata.

Secondo il Movimento 5 stelle, il costo del Superbonus sarebbe ampiamente coperto dalla maggiore crescita del Pil e, di conseguenza, dal maggior gettito per le casse dello Stato di imposte come l’Irpef e l’Iva. È vero che tra il 2020 e il 2022 il rapporto tra il valore del debito pubblico e il Pil è sceso di oltre 10 punti percentuali, dal 154,9 per cento al 144,7 per cento, ma sostenere che questo calo sia dovuto al Superbonus è parecchio fuorviante. 

Quando si parla di debito pubblico, di solito si fa riferimento al rapporto tra debito e Pil. Per la stabilità dei conti pubblici, non importa tanto a quanto ammonta il debito in valore assoluto, ma piuttosto interessa il suo valore in rapporto al Pil. Questo perché il Pil, semplificando, rappresenta il reddito del Paese: quindi più un Paese produce reddito, più un debito alto in valori assoluti non rappresenta un rischio, così come un debito di 100 mila euro per una persona viene considerato più o meno rischioso a seconda che il reddito di quella persona sia di 10 mila o di 100 mila euro l’anno.

Secondo Conte, negli ultimi tre anni il Pil è aumentato molto più del debito pubblico, motivo per cui il rapporto tra debito e Pil è calato così rapidamente. È vero, ma bisogna anche indicare quali sono i fattori che hanno fatto crescere il debito e quali quelli che hanno fatto aumentare il Pil.

Il costo del Superbonus è noto: come detto, gli oneri a carico dello Stato tra il 2020 e fine gennaio 2023 ammontavano a 71 miliardi di euro (il 3 per cento circa del Pil del 2022). Come abbiamo spiegato in un altro articolo, i benefici in termini di Pil sono meno chiari, ma sono molto più bassi rispetto alla crescita complessiva degli ultimi due anni, che è stata intorno all’11,5 per cento. La stima ufficiale più recente sull’impatto del Superbonus sul Pil è stata fatta in un’audizione parlamentare dall’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), un organismo indipendente che vigila sulla spesa pubblica italiana. Secondo le stime dell’Upb, basate sui dati aggiornati Istat, il settore dell’edilizia residenziale – quella coinvolta dal Superbonus – ha contribuito per circa il 2 per cento alla crescita del Pil negli ultimi due anni. Il Superbonus pesa per circa la metà della crescita del settore edilizio. Dunque il suo contributo all’aumento del Pil sarebbe intorno all’1 per cento.

Basta confrontare il costo della misura con i benefici in termini di crescita per capire che il Superbonus non ha contribuito a ridurre il rapporto tra il debito pubblico e il Pil, anzi: lo ha probabilmente fatto aumentare. A far calare il debito pubblico è stata la maggiore crescita economica registrata, ma non tanto quella del settore dell’edilizia, che vale circa il 5 per cento del Pil, quanto la ripresa dell’industria e dei servizi, che sono cresciuti meno rispetto alle costruzioni, ma che pesano molto di più sull’economia italiana.

Tiriamo le somme

Ricapitolando: il nuovo metodo di calcolo contabile dei crediti del Superbonus non ha aumentato il deficit, ma ne ha solo cambiato la distribuzione nel corso degli anni. Questo però non significa che il Superbonus non abbia aumentato l’indebitamento netto del nostro Paese.

Nonostante la misura abbia avuto benefici economici, contribuendo per circa 1 punto percentuale alla crescita degli ultimi due anni, i suoi costi sono stati tali da mettere in dubbio la convenienza dell’investimento per le finanze pubbliche. Le risorse impegnate fino a qui dallo Stato valgono infatti circa il 3 per cento del Pil del 2022.

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