Ogni regione italiana vota a modo suo

Dal numero dei consiglieri regionali ai mandati dei presidenti, passando per il voto disgiunto, le regioni si sono date regole diverse
Ansa
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Alle elezioni regionali in Sardegna i partiti di centrodestra hanno preso 40 mila voti in più della coalizione composta, tra gli altri, dal Partito Democratico e dal Movimento 5 Stelle. Ma nonostante questo, il suo candidato Paolo Truzzu è stato sconfitto da Alessandra Todde per meno di 3 mila voti. Questo è stato possibile perché la legge elettorale in Sardegna consente il “voto disgiunto”: si può votare la lista di un partito e allo stesso tempo il candidato presidente di un’altra coalizione.

Alle elezioni regionali in Abruzzo, che si terranno domenica 10 marzo, il voto disgiunto non è invece consentito. Questa non è una particolarità abruzzese: le regioni vanno infatti in ordine sparso sulla possibilità di votare un candidato e una lista che non lo appoggia. Per esempio, il voto disgiunto è consentito in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ma non nelle Marche, in Umbria e in Basilicata, regione dove si voterà i prossimi 21 e 22 aprile.

La presenza o meno del voto disgiunto non è l’unica differenza tra i vari sistemi di voto nelle regioni: in Italia ogni regione vota secondo regole proprie, con notevoli differenze l’una dall’altra.

Che cosa dice la Costituzione

Nel novembre del 1999 il Parlamento ha approvato una riforma costituzionale che ha introdotto una maggiore autonomia per le regioni a statuto ordinario. Dal gennaio 2000 l’articolo 122 della Costituzione stabilisce che il sistema di elezione dei presidenti di regione e dei consiglieri regionali è disciplinato «con legge della regione nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi». A gennaio 2001 è stata approvata un’altra riforma costituzionale per modificare le regole per le elezioni regionali nelle regioni a statuto speciale, che già di loro godono di maggiore autonomia rispetto a quelle a statuto ordinario.

Nel 2004 è stata poi approvata la legge nazionale che stabilisce i principi che le regioni devono seguire per approvare le loro leggi elettorali regionali. Prima il sistema elettorale nelle regioni a statuto ordinario era regolato da più leggi, tra cui la cosiddetta “legge Tatarella” del 1995. 

Negli anni successivi le regioni a statuto ordinario hanno iniziato ad adottare le loro leggi elettorali, anche a molti anni di distanza l’una dall’altra. La prima regione a statuto ordinario che ha approvato la sua legge elettorale è stata la Toscana a dicembre 2004, seguita dal Lazio a gennaio 2005. Solo di recente il Piemonte è stata l’ultima regione ad approvare la propria legge elettorale a luglio 2023: alle precedenti elezioni regionali di maggio 2019 si era votato con la normativa nazionale, basata su più leggi.

Il numero dei consiglieri

Una prima differenza tra le regioni riguarda la composizione dei consigli regionali, ognuno dei quali è formato da un numero diverso di consiglieri. I consigli regionali, ricordiamo, sono piccoli “parlamenti” che si occupano di approvare le leggi nelle regioni, anche se hanno un peso decisamente inferiore rispetto ai presidenti di regione, che sono a capo della giunta regionale. Le regioni hanno competenze esclusive su alcune materie, mentre altre sono di competenza solo dello Stato. Su alcune materie, invece, possono legiferare sia le regioni sia lo Stato, un potere che negli anni ha creato scontri tra il governo centrale e i governi regionali, con centinaia di ricorsi davanti alla Corte Costituzionale. 

Nei consigli regionali c’è una sproporzione nella rappresentatività tra consiglieri eletti ed elettori. Prendiamo per esempio i casi della Lombardia e della Valle d’Aosta. In Lombardia il consiglio regionale è composto da 80 membri, mentre il consiglio regionale della Valle d’Aosta ne ha 35, meno della metà. La Lombardia è però la regione più popolosa d’Italia, con quasi 10 milioni di abitanti, mentre la Valle d’Aosta è all’ultimo posto con circa 120 mila abitanti. In Lombardia c’è meno di un consigliere regionale ogni 100 mila abitanti, mentre in Valle d’Aosta ci sono più di 28 consiglieri regionali ogni 100 mila abitanti. 

Il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia sono le uniche due regioni che hanno un numero di consiglieri variabile in base alla popolazione. Lo statuto della Regione Veneto prevede che i consiglieri siano uno ogni 100 mila abitanti (al momento sono 59), mentre in Friuli-Venezia Giulia sono uno ogni 25 mila abitanti (al momento sono 48).

Il presidente c’è o non c’è

In alcune regioni il presidente fa parte di diritto del consiglio regionale, in altre no. Questo non è un elemento secondario, perché se il presidente fa parte di diritto del consiglio significa che c’è un posto in meno per un consigliere. E questo può avere un peso negli equilibri tra maggioranza e opposizione. 

Per esempio il consiglio regionale dell’Emilia-Romagna è composto da 50 consiglieri e ne fa parte di diritto il presidente della regione. Al contrario, il consiglio regionale del Lazio è formato da 50 consiglieri a cui si aggiunge il presidente di regione. L’Abruzzo prevede espressamente che tra i 31 membri del consiglio regionale siano compresi il presidente di regione eletto e il candidato presidente arrivato secondo.

L’articolo 122 della Costituzione stabilisce che in tutte le regioni il presidente sia eletto direttamente dai cittadini, a suffragio universale. Sono comunque concesse delle eccezioni: in Valle d’Aosta e nella provincia autonoma di Bolzano il presidente è eletto dai consiglieri regionali scelti dagli elettori.

Circoscrizioni variabili e rappresentanza di genere

In tutte le regioni i consiglieri regionali sono eletti sulla base di liste circoscrizionali. Le circoscrizioni sono porzioni di territorio in cui è divisa una regione in occasione delle elezioni; per ogni circoscrizione i partiti presentano delle liste di candidati. Anche in questo caso ci sono differenze tra le regioni: in alcune le circoscrizioni corrispondono semplicemente ai territori delle province (per esempio in Lombardia o in Veneto), in altre no. È questo il caso per esempio della Toscana: qui le circoscrizioni sono 13 e nove corrispondono alle province, mentre le rimanenti quattro sono le zone in cui è suddiviso il comune di Firenze in occasione delle elezioni regionali.

Oltre alle circoscrizioni ci sono poi differenze sulle regole per garantire la parità di genere nelle liste dei candidati consiglieri. Per esempio in Emilia-Romagna e nel Lazio le liste devono essere composte per metà da candidate donne e per metà da candidati uomini se il numero dei candidati è pari, mentre se sono dispari la differenza tra un genere e l’altra può essere al massimo di un candidato. In altre regioni, come in Calabria, nessuno dei generi può avere invece più del 60 per cento dei candidati in una lista.

Premi di maggioranza e soglie di sbarramento 

Seppure con alcune differenze, tutti i sistemi elettorali regionali prevedono la presentazione delle liste nelle circoscrizioni, che possono essere raggruppate in coalizioni. Alcune liste sono espressione dei partiti, altre possono essere liste civiche, non direttamente riconducibili a una forza politica. L’attribuzione dei seggi avviene generalmente con il metodo proporzionale: alle liste o alle coalizioni è assegnato un numero di posti in consiglio regionale in proporzione al numero dei voti ricevuti. Da regione a regione ci sono però regole diverse su due aspetti importanti: il premio di maggioranza e la soglia di sbarramento. 

Il premio di maggioranza è il numero di seggi in più che può essere assegnato alle liste del candidato vincitore per garantire una maggiore governabilità. Per esempio in Lombardia le liste vincitrici possono ottenere dal 55 per cento fino al 70 per cento dei seggi in consiglio regionale, a seconda del risultato ottenuto. In Veneto il premio di maggioranza è più basso, tra il 55 e il 60 per cento a seconda del risultato. Nel Lazio il premio di maggioranza non è stabilito in percentuale: tra i 50 consiglieri, 40 sono eletti in maniera proporzionale tra tutte le liste, mentre i restanti dieci sono assegnati solo alle liste del candidato vincitore. 

La soglia di sbarramento è invece la percentuale minima di voti che una lista o una coalizione deve superare per eleggere dei consiglieri regionali. Per esempio in Sardegna le liste che fanno parte di una coalizione che ottiene meno del 10 per cento dei voti non eleggono nessun consigliere. Questa soglia scende al 5 per cento per le liste che corrono da sole. In Abruzzo le soglie sono più basse: al 2 per cento per le liste in coalizione (a patto che questa abbia ottenuto almeno il 4 per cento) e al 4 per cento per le liste singole.

Doppio mandato, ma anche di più

Un’ultima differenza tra i sistemi elettorali delle regioni riguarda il numero dei mandati che può svolgere un presidente. Su questo argomento si è dibattuto molto nelle ultime settimane: in Parlamento la Lega ha chiesto di introdurre la possibilità per i presidenti di regione di svolgere più di due mandati consecutivi, una proposta bocciata in commissione con i voti anche dei due alleati di governo, Fratelli d’Italia e Forza Italia.

La legge nazionale approvata nel 2004 prevede un limite di due mandati consecutivi per i presidenti di regione. Questo principio però non è diventato subito operativo: il limite dei due mandati doveva essere attuato dalle regioni nelle loro leggi elettorali, che come abbiamo visto prima sono state approvate lungo l’arco di più anni. Questo ha consentito ad alcuni presidenti di regione di svolgere già più di due mandati consecutivi. 

Per esempio l’attuale presidente del Veneto Luca Zaia (Lega) è stato eletto per la prima volta presidente nel 2010, è stato rieletto nel 2015 e per la terza volta consecutiva nel 2020. Questo è stato possibile perché il Veneto ha introdotto il limite dei due mandati nel 2012, con l’approvazione della legge elettorale regionale. Siccome la legge non può essere retroattiva, il primo mandato di Zaia (quello tra il 2010 e il 2015) non è conteggiato nel computo totale. In passato Roberto Formigoni (centrodestra) è stato presidente della Regione Lombardia per quattro mandati consecutivi dal 1995 al 2013, mentre Vasco Errani (centrosinistra) è stato eletto per tre mandati di fila come presidente dell’Emilia-Romagna dal 1999 al 2014. 

Al di là del caso di Zaia, i presidenti di regione che stanno svolgendo al momento il secondo mandato consecutivo sono sette: tre di centrodestra, ossia Giovanni Toti (Liguria), Massimiliano Fedriga (Friuli-Venezia Giulia) e Attilio Fontana (Lombardia), e quattro di centrosinistra, ossia Vincenzo De Luca (Campania), Michele Emiliano (Puglia) e Stefano Bonaccini (Emilia-Romagna). 

I casi di Toti, De Luca ed Emiliano sono particolari. A differenza di Lombardia, Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia, le leggi elettorali di Liguria, Campania e Puglia non hanno esplicitato nella loro legge elettorale il limite dei due mandati imposto dalla legge nazionale. Questo non significa che queste regioni non lo debbano rispettare. Per esempio la legge elettorale della Liguria stabilisce che «si applicano, in quanto compatibili, le altre disposizioni vigenti nell’ordinamento in materia». Dunque, essendo compatibile il limite dei due mandati, sarebbe in vigore anche per questa regione e per Toti. Il problema è che la legge elettorale della Liguria è stata approvata solo a luglio 2020 e Toti è stato eletto per il secondo mandato a settembre di quell’anno. Secondo l’attuale presidente della Regione Liguria, quindi, il conteggio dei mandati inizierebbe solo dalle prossime elezioni, in programma nel 2025, con la possibilità di ricandidarsi fino al 2030. Un’ipotesi però che potrebbe portare i suoi avversari a fare ricorso.

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