Quanto costerà davvero la direttiva “case green”

In questi giorni stanno circolando molti numeri sulle spese che ricadranno sui cittadini e sullo Stato. Abbiamo cercato di mettere alcuni punti fermi
Ansa
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Il 12 marzo il Parlamento europeo ha approvato l’Energy performance of buildings directive (Epbd), una direttiva che fissa una serie di obiettivi per arrivare nel 2050 all’azzeramento delle emissioni di gas serra degli edifici in tutti gli Stati membri dell’Unione europea. I parlamentari europei di Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Azione hanno votato contro la direttiva (chiamata in Italia “direttiva case green”), mentre a favore hanno votato i parlamentari europei del Partito Democratico, del Movimento 5 Stelle, di Alleanza Verdi-Sinistra e di Italia Viva.

Le critiche contro la direttiva si sono concentrate soprattutto sui costi degli interventi di efficientamento energetico che, secondo i contrari, ricadranno sui cittadini o sui conti pubblici. Su questo punto, però, circolano diversi numeri e c’è molta confusione. «La tua casa è in pericolo e i tuoi risparmi anche: l’Europa dei burocrati sta armeggiando alla tua porta per penetrare nella tua abitazione come un ladro e rifilarti una patrimoniale mascherata», ha dichiarato per esempio la parlamentare europea della Lega Susanna Ceccardi, parlando dunque dell’introduzione di una nuova tassa. Il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato Lucio Malan ha scritto che gli italiani saranno «obbligati a spendere almeno 35 mila euro per rendere “green” ogni unità abitativa». Secondo Azione, invece, la nuova direttiva costerà all’Italia 600 miliardi di euro entro il 2030. Il partito Europa Verde, tra i favorevoli alla direttiva, ha respinto queste accuse, dicendo che sono «fake news». 

Numeri e norme alla mano, chi ha ragione tra i due schieramenti? Abbiamo fatto un po’ di chiarezza sui potenziali costi della nuova direttiva.

La nuova direttiva

Innanzitutto va chiarito che cos’è una direttiva e, nello specifico, qual è il contenuto della direttiva approvata il 12 marzo dal Parlamento europeo. Come spiega il sito ufficiale dell’Ue, una direttiva è un atto giuridico e «stabilisce un obiettivo che tutti i Paesi dell’Ue devono conseguire». Ogni direttiva dà un certo margine di autonomia agli Stati membri: infatti, «spetta ai singoli Paesi definire attraverso disposizioni nazionali» come raggiungere l’obiettivo fissato a livello europeo. Se uno Stato non rispetta il contenuto di una direttiva, la Commissione europea può avviare una procedura di infrazione che, a seconda dei casi, può portare a delle sanzioni.

La nuova direttiva sull’efficientamento degli edifici fa parte del pacchetto Fit for 55 (in italiano “Pronti per il 55 per cento”), un insieme di proposte pensate per ridurre le emissioni nette di gas serra di almeno il 55 per cento entro il 2030. Le emissioni nette sono la differenza tra le emissioni di gas serra generate e quelle riassorbite, per esempio attraverso gli alberi o il suolo. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli edifici sono responsabili del 35 per cento delle emissioni di gas serra prodotte in ambito energetico nell’Ue. Queste emissioni sono generate, tra le altre cose, dalla produzione di elettricità per alimentare i sistemi di riscaldamento e di raffreddamento all’interno degli edifici.

Alla fine del 2021 la Commissione Ue ha proposto una nuova direttiva per aggiornare il quadro normativo sul tema, con «un’ambizione più elevata e un bisogno più urgente di azione climatica e sociale». L’«ambizione più elevata» consisteva nell’introduzione di obiettivi climatici più rigidi, e non è stata accolta positivamente da tutti i partiti. Così, dopo due anni di trattative e ripensamenti, le istituzioni europee hanno raggiunto un accordo sulla nuova direttiva lo scorso dicembre. 

In base alla direttiva approvata dal Parlamento Ue il 12 marzo, ogni Stato Ue dovrà stabilire un «piano nazionale di ristrutturazione degli edifici» in modo tale che il consumo energetico medio degli edifici residenziali diminuisca entro il 2030 almeno del 16 per cento rispetto al 2020. Entro il 2035 questa riduzione dovrà essere pari almeno al 20 per cento. Il calo delle emissioni dovrà poi proseguire in maniera progressiva nel 2040 e nel 2045, fino a raggiungere le emissioni zero nel 2050. Il 55 per cento del taglio delle emissioni dovrà essere raggiunto con la ristrutturazione di quasi la metà degli edifici con le prestazioni energetiche peggiori. Tutti i nuovi edifici residenziali, invece, dovranno essere a emissioni zero dal 2030 e gli edifici pubblici dovranno essere a emissioni zero dal 2028, con alcune esenzioni per gli edifici storici, agricoli o militari. 

La nuova direttiva stabilisce anche che dal 2025 non potranno più essere incentivate le caldaie a gas metano, ponendo come obiettivo l’eliminazione di tutte le caldaie a combustibile fossile entro il 2040. È stato poi inserito l’obbligo di installare pannelli solari sui nuovi edifici residenziali e un progressivo incentivo all’uso di sistemi di riscaldamento che usano fonti di energia rinnovabile, come le pompe di calore.

Di quanti edifici si parla

Ricapitolando: nei prossimi anni molti edifici italiani, pubblici e privati, dovranno essere ristrutturati per ridurre le loro emissioni. Calcolare con certezza quanti immobili dovranno subire questi interventi non è per nulla facile, e di conseguenza anche le stime sui costi vanno prese con cautela. 

Secondo i dati dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea), a oggi quasi il 52 per cento dei 5,5 milioni di edifici per cui è stato rilasciato un attestato di prestazione energetica (APE) rientra nelle due classi energetiche peggiori, F e G. Una prima versione della direttiva prevedeva espressamente il raggiungimento per tutti gli edifici residenziali della classe D entro il 2033. La versione finale del testo, quella approvata il 12 marzo, non contiene più riferimenti alle classi energetiche, ma è molto probabile che gran parte degli almeno 2,8 milioni di edifici in classe F e G saranno in qualche modo interessati dalla direttiva.

Negli ultimi giorni sono state pubblicate altre stime sul patrimonio immobiliare italiano e sul numero di edifici da ristrutturare. Secondo il sindacato Fillea Cgil, che rappresenta i lavoratori del settore edilizio, gli immobili da riqualificare saranno in totale più di 5 milioni, di cui oltre 500 mila edifici pubblici. In passato un calcolo dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance) ipotizzava interventi su circa 2 milioni di edifici, mentre una stima della Commissione Ue sulla prima versione della direttiva indicava tra i 3 e i 3,7 milioni di immobili da ristrutturare.

Come detto, queste stime vanno prese con le pinze: calcolare il numero esatto di immobili coinvolti dalla direttiva a oggi è impossibile. «Il motivo principale per cui è difficile fare delle stime sul numero di immobili interessati è che la direttiva non chiede espressamente di intervenire su una categoria di edifici, ma di abbassare del 16 per cento entro il 2030 il consumo di kilowattora per metro quadro dell’intero patrimonio immobiliare degli Stati membri», ha detto a Pagella Politica Francesca Andreolli, ricercatrice di ECCO Climate, un centro studi italiano che si occupa di transizione energetica e di cambiamenti climatici. «Questo consumo può essere abbassato in vari modi perché dipende non solo dalla conformazione degli edifici ma anche dai comportamenti individuali delle persone che utilizzano quegli spazi. Quindi anche gli APE, che sono utili, non bastano a fotografare il quadro delle emissioni causate dagli immobili», ha spiegato Andreolli. 

Una versione precedente della direttiva, di cui era più facile stimare gli edifici interessati, stabiliva delle classi energetiche comuni e obbligava il passaggio di tutti gli immobili alla classe energetica E entro il 2030 e alla classe D entro il 2033. Questa versione del testo aveva ricevuto una prima approvazione dal Parlamento europeo a marzo 2023, ma in seguito ai negoziati tra le istituzioni europee (il cosiddetto “Trilogo”) e dopo le critiche di alcuni governi (compreso quello italiano) sono state apportate delle modifiche, tra cui la sostituzione delle classi di energia con delle medie di riferimento per ciascuno Stato sull’intero patrimonio edilizio.

Il dibattito sui costi

E veniamo così al dibattito sui costi degli interventi di efficientamento energetico. 

Innanzitutto, il riferimento all’introduzione di una «patrimoniale», fatto da Susanna Ceccardi e da altri esponenti del centrodestra, è fuorviante. Un’imposta patrimoniale colpisce i patrimoni mobili e immobili, generalmente superiori a una determinata soglia, con l’obiettivo di redistribuire la ricchezza e ridurre le disuguaglianze economiche. Questa imposta non corrisponde all’erogazione di nessuna prestazione, ma è un prelievo effettuato dallo Stato per sostenere la spesa pubblica. Se i proprietari degli immobili da riqualificare dovessero pagare di tasca propria le ristrutturazioni – cosa che, come vedremo, non può essere stabilita al momento – avrebbero comunque in cambio l’efficientamento energetico delle loro proprietà, che porterebbe quindi a una riduzione dei consumi e a un risparmio in bolletta, oltre a un probabile aumento del valore dell’edificio sul mercato immobiliare. Insomma, se gli italiani che possiedono un immobile dovranno sostenere delle spese aggiuntive, queste non saranno un prelievo imposto dall’Ue su base patrimoniale, ma interventi strutturali fatti per migliorare gli edifici e ridurre i consumi.

Come abbiamo anticipato, la direttiva non specifica come gli Stati, tra cui l’Italia, dovranno raggiungere i nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni degli edifici e soprattutto non chiarisce come dovranno essere pagati gli interventi di efficientamento energetico. Il testo stabilisce che saranno gli Stati membri a predisporre «finanziamenti, misure di sostegno e altri strumenti consoni per affrontare le barriere di mercato al fine di realizzare gli investimenti necessari individuati nei rispettivi piani nazionali di ristrutturazione degli edifici per trasformare il loro parco immobiliare in edifici a emissioni zero entro il 2050». 

La direttiva non prevede nessun finanziamento dedicato al raggiungimento di questo obiettivo, ma si limita a elencare una serie di fondi europei che potranno essere usati dagli Stati tra cui: i fondi del Next Generation Eu, di cui fa parte il Recovery and Resilience Facility, il fondo che finanzia il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr); i fondi della politica di coesione europea, che finanziano progetti negli Stati membri per ridurre i divari territoriali; e il Fondo sociale per il clima, un fondo approvato a maggio 2023 che prevede risorse fino a 65 miliardi di euro da spendere tra il 2026 e il 2032 per finanziare i piani nazionali di ristrutturazione degli edifici dei Paesi Ue. Sarà quindi compito dei governi nazionali stabilire nei prossimi anni come e in quale misura finanziare gli interventi di efficientamento energetico degli immobili, sia pubblici che privati. 

Andreolli di ECCO ha inoltre sottolineato che «la nuova direttiva si basa sul principio dell’analisi costi-efficacia», un principio espresso già nel primo comma dell’articolo 1 del testo. Questo è un metodo di valutazione che, dato un problema, individua le soluzioni ottimali tra quelle con i costi minori. In altre parole, secondo questo principio tutti gli interventi di efficientamento energetico sugli immobili europei dovranno garantire risparmi in bolletta superiori ai costi delle ristrutturazioni. Dunque, almeno sul lungo periodo, la direttiva prevede dei vantaggi economici, oltre a quelli ambientali, e non solo costi. Secondo Andreolli, nella direttiva questo principio è espresso soprattutto dal fatto che «sono gli Stati membri a fissare i requisiti minimi di prestazione energetica, proprio al fine di raggiungere livelli di emissioni ottimali in base ai costi. Saranno poi questi requisiti minimi a indirizzare gli incentivi, perciò l’incentivo massimo sarà garantito a chi raggiungerà i risultati migliori in termini di riduzione delle emissioni e dei consumi». 

Al momento non si sa come verranno strutturati questi incentivi, dato che saranno i singoli Stati a definire le modalità di intervento nei piani di ristrutturazione. È chiaro che questi interventi di ristrutturazione avranno un costo per le finanze pubbliche e quindi per i cittadini, ma è troppo presto per dire, come fanno alcuni politici, che i proprietari degli immobili dovranno spendere decine di migliaia di euro nei prossimi anni. Allo stesso tempo, è troppo presto per fare previsioni sull’impatto positivo che le riqualificazioni potranno avere sul settore dell’edilizia in termini economici e di occupazione, come fatto invece dagli schieramenti favorevoli alla direttiva.

Il paragone con il Superbonus

Bisogna anche fare attenzione a paragonare le conseguenze della nuova direttiva con il Superbonus 110 per cento, l’incentivo edilizio introdotto nel 2020 dal secondo governo Conte. Secondo Azione, la direttiva europea è «impraticabile» perché «obbliga a ridurre entro il 2030 i consumi negli edifici di una quantità cinque volte maggiore a quella ottenuta col Superbonus: cinque volte 120 miliardi fanno 600 miliardi». Ha senso questo ragionamento?

«Non si possono basare tutte le valutazioni esclusivamente sul Superbonus, che in termini ambientali poteva essere sicuramente migliorato», ha sottolineato Andreolli di ECCO. «Con quei soldi potevano essere fatti interventi più efficienti in termini di consumi e emissioni». Inoltre le detrazioni garantite dal Superbonus non riguardavano solo la riduzione delle emissioni ma anche gli interventi antisismici, che hanno aumentato il costo totale della misura. Al netto di queste precisazioni, in linea di massima il calcolo fatto da Azione per arrivare ai «600 miliardi» di spesa nei prossimi anni sta comunque in piedi.

La percentuale dei consumi degli edifici che per la direttiva andrebbe ridotta entro il 2030 (16 per cento) equivale a circa cinque volte il calo dei consumi raggiunto grazie al Superbonus (circa 9 TWh nel 2022 secondo il dati Enea più aggiornati). Da qui, Azione ha moltiplicato per cinque il costo totale del bonus edilizio: alla fine di febbraio le detrazioni maturate per i lavori conclusi del Superbonus avevano raggiunto i 115 miliardi di euro. Il risultato della moltiplicazione è circa 600 miliardi di euro. 

Ricapitolando: la direttiva “case green” ha obiettivi ambiziosi e in Italia interesserà milioni di edifici pubblici e privati nei prossimi anni. Gli interventi su questi immobili avranno ovviamente dei costi, anche se al momento non è possibile né quantificarli né prevedere in che modo sarà finanziata la spesa. Oltre a questo, bisogna considerare che l’efficientamento energetico degli edifici comporterà una riduzione delle emissioni e dei consumi, e quindi risparmi in bolletta per proprietari, affittuari e amministrazioni pubbliche. Inoltre, i lavori di ristrutturazione potranno avere effetti positivi sul settore dell’edilizia, aumentando la crescita e l’occupazione. Anche in questo caso però, è ancora troppo presto per fare stime affidabili.

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